PERSISTONO
MODELLI INADEGUATI
COMUNITÀ DI VITA
FRATERNA
Ci sono vari modelli di vita comunitaria
che ostacolano il cammino verso la comunione fraterna e che tuttora resistono.
Tre sono le condizioni per riuscire a costruire comunità dove al primo posto ci
sia la vita fraterna: comunicare, accettarsi, amarsi.
Ci sono dei
démoni che ostacolano oggi la vita di comunità. Alcuni sono facili da scoprire
altri più difficili. Padre Carlos Palmés
sj, trattando di questo argomento nel numero di
settembre-ottobre della rivista Testimonio dei religiosi del Cile, tutto
dedicato al tema della comunità,1 chiama i primi “i nostri migliori nemici”, e
i secondi “i nostri peggiori nemici”.2
I migliori
nemici sono i démoni che si presentano come tali e pertanto sono facilmente
riconoscibili: sono l’individualismo, l’assenza abituale dalla comunità, i
caratteri irriducibili, l’egoismo sfacciato, la ricerca del potere. Essendo
facili da scoprire ci obbligano a prendere delle posizioni radicali per far
loro fronte e per proclamare i valori evangelici.
I peggiori
nemici invece sono più subdoli: il démone in questo caso si presenta come
“angelo di luce”, o meglio, come il lupo in veste di agnello, nel senso che
appare sotto le spoglie del bene. Ma poi se ne scoprono gli inganni e la
mediocrità.
Sullo sfondo di
questo quadro, p. Palmés traccia una specie di
profilo delle comunità religiose, di quelle che non soddisfano e quindi di
quelle che invece noi vorremmo.
COMUNITÀ
INSODDISFACENTI
Ci sono ancora
molte comunità che lasciano insoddisfatti. Padre Palmés
le definisce così: sono quelle configurate al “modello preconciliare”,
sono le comunità di “impresari apostolici”, le “comunità “sociologiche” e
quelle composte da “attivisti”.
Il modello preconciliare: è quello che per secoli ha lasciato una
profonda traccia, specialmente nelle persone più anziane e di mezza età. Ciò
dimostra quanto costi lasciare tradizioni che si sono trascinate per tanto
tempo. Secondo quel modello, la comunità era centrata sulla osservanza
regolare: fare tutti le stesse cose, alla stessa maniera e alla stessa ora.
Il padre è
convinto che oggi non esistano comunità in cui l’osservanza regolare
costituisca il fattore determinante, ce ne sono invece molte che conservano
vari elementi e usanze di tipo preconciliare che non
sono state capaci di diventare comunità basate sulle relazioni personali. Ciò
che invece hanno fatto è stato di adottare gli elementi propri di una società
democratica e liberale.
Sono comunità in
cui in linea generale si salva il rapporto con Dio e soprattutto la serietà e
la dedizione al lavoro. In alcune di quelle maschili ammirevole è la fedeltà
alla preghiera, all’Eucaristia quotidiana. E ancor più ammirevole è la
responsabilità e l’efficienza nel lavoro loro affidato. Ma le relazioni
fraterne sono molto superficiali. Più che di comunità si deve parlare di “vita
in comune”, e solo a certe ore, dal momento che ci si ritrova solo in cappella,
ai pasti e in parte alla TV.
Ognuno ha il suo
appartamento confortevole dove rifugiarsi in solitudine. I membri tra loro si
trattano con rispetto e cordialità, ma non si conoscono intimamente gli uni gli
altri. Ci sono alcuni che vivono insieme per anni ma che non saprebbero dire
che cosa pensa il tal fratello, che ideali ha, come si sente in comunità, che
problemi ha la sua famiglia, come è la sua vita di preghiera, chi è Cristo per
lui, se si sente contento oppure no.
Anche il
superiore li conosce poco. Il suo compito si limita a vegliare sul benessere
materiale di tutti, che ci sia un certo ordine nell’essenziale. «Definirei una
comunità del genere, scrive p, Palmés, come un
arcipelago di isole solitarie. C’è un individualismo esasperato».
In questo stile
di convivenza, prosegue ancora il padre, non importa il numero, essere molti o
pochi; ciò che conta è che ci si attenga a un minimo di atti comuni e tutti
siano efficienti nel lavoro. La spiritualità sottostante è quella del dovere.
Si tratta cioè di compiere la volontà di Dio manifestata nelle regole e
costituzioni, interpretate secondo la propria coscienza. Il superiore è l’unico
a pensare e decidere. In un modello del genere, i superiori autoritari e
dominatore si trovavano a loro agio.
Oggi, tuttavia,
non sono molti coloro che vivono secondo questo modello del passato, ma sono
invece molti coloro che hanno fatto un certo “miscuglio soddisfacente” tra il
vecchio e il nuovo. È un modello che ha avuto molta fortuna, secondo p. Palmés, e si deve ad esso la colpa se molte comunità non
sono state in grado di passare al nuovo stile basato sulle relazioni personali
e alla comunicazione. Si è creato un modello tranquillizzante in cui ci sono
certi atti comuni come la recita delle Lodi e dei Vespri, l’Eucaristia
quotidiana, i pasti principali in cui ci si incontra. I membri dedicano anche
del tempo alla ricreazione e ad alcune riunioni comunitarie in cui si trattano
argomenti della vita della casa o si fa una riflessione spirituale. Tutto
questo, in un ambiente disteso e persino confidenziale. Sono comunità di “buon
vicinato” in un clima che lascia l’animo sufficientemente soddisfatto.
Ma tutto rimane
in superficie. Le persone non si conoscono interiormente. Inoltre, nella
conversazione non si possono toccare certi argomenti in cui si pensa in maniera
diversa; nessuno si intromette nella vita di un altro. C’è sì rispetto,
cordialità e anche una certa indifferenza nel tratto. Non si può pertanto dire
di essere giunti a una vera amicizia con gli altri.
COMUNITÀ
DI “IMPRESARI
APOSTOLICI”
Oltre al modello
descritto, un altro frequente è quello di comunità di “impresari apostolici”.
Sono comunità in cui tutti hanno dei ruoli molto importanti da svolgere.
L’unica cosa che conta è il lavoro “apostolico”, in cui tutto è orientato alla
qualità e all’efficienza. La vita di preghiera si limita alla lettura di un
brano della Bibbia o a qualche visita al Santissimo Sacramento oppure si
supplisce con la rettitudine di intenzione nel lavoro. Nell’ambiente importa il
prestigio dell’istituzione e la competenza di coloro che vi lavorano. Ma può
esserci allo stesso tempo un profondo vuoto affettivo, manca un intimo e
prolungato contatto con il Signore e una vita comunitaria gratificante.
L’attività non solo assorbe tutte le ore della giornata, ma occupa anche la
mente e il cuore.
I fratelli sono
apprezzati per la loro efficienza e capacità di lavoro, come pezzi determinanti
di una macchina. Se si manda una persona giovane in questo ambiente, una delle
due: o essa si adegua a questo stile di vita e allora riesce a resistere o si
crea dei complessi entrando in una solitudine molto pericolosa.
Al vertice della
scala dei valori di questo gruppo sta la professionalità. Anche il superiore è
apprezzato per la sua capacità organizzativa e imprenditoriale. Non ha molta
importanza che sia un uomo (o donna) di Dio e capace di accompagnare ciascun
fratello o sorella nella vita secondo lo Spirito. Capita di trovare tra di essi
dei professionisti o amministratori eminenti, ma allo stesso tempo, persone
anemiche nella loro vita spirituale e individualisti nella vita comunitaria.
C’è poi il
modello della “comunità sociologica”, quella tutta compromessa con i poveri, ma
dove l’evangelizzazione entra solo in maniera indiretta. Il problema è molto
sentito soprattutto in America Latina. È innegabile il valore evangelico e la
forza significativa di queste comunità, osserva padre Palmés;
ma sono comunità che trovano difficoltà per riservarsi spazi di preghiera, di
riflessione personale e di studio. In linea generale queste comunità non sono
riuscite a trasformare l’opera sociale in evangelizzazione. Molti si sono
proposti di unire “il servizio della fede e la promozione della giustizia”. In
realtà tutto l’impegno viene posto nell’impegno per la giustizia, mentre il
servizio della fede è rimasto nei buoni desideri. Il risultato finale spesso è
il raffreddamento della fede… alcuni sono più sociologi che sacerdoti; più
attivisti politici che religiosi. Sono così frequenti i casi di successo nel
campo sociale ma di fallimento nella vita consacrata.
Simile a questa,
è la comunità di “attivisti”. È la comunità in cui si vive un ritmo apostolico
esagerato. Il lavoro assorbe tutto il tempo e tutte le energie. Non rimane
spazio né voglia per la preghiera e la convivenza comunitaria. Per molti
dedicare spazi per incontri comunitari o a parlare di argomenti spirituali è
una perdita di tempo.
L’attivismo è la
causa principale della superficialità e della mediocrità non solo per quanto
riguarda la vita fraterna o la preghiera, ma anche lo stesso apostolato. Si fa
molto movimento, ci sono molte riunioni, molto spiegamento organizzativo… ma si
abbassa poco alla volta la qualità della vita consacrata e il livello della
fede e dell’amore.
Molti giovani
rimangono delusi da questa mentalità imprenditoriale e attivista poiché si
aspettavano qualcosa di più. Oltre al deterioramento della vita spirituale, si
condannano i giovani alla solitudine – un terreno in cui può svilupparsi ogni
genere di crisi – e si impedisce loro di continuare la formazione spirituale e
di vivere la soddisfazione affettiva dell’amicizia profonda con compagni della
medesima età e mentalità.
QUALI COMUNITÀ
VOGLIAMO?
Come dovrebbe
essere allora la comunità che noi vogliamo? Nel nuovo stile di vita
comunitaria, osserva p. Palmés, è necessario aver ben
chiaro l’obiettivo attorno al quale devono essere poi integrati tutti gli
elementi essenziali. E l’obiettivo è di vivere l’amore fraterno in relazioni
personali di amicizia nel Signore. Non solo essere fratelli, ma amici. Ma per
fare amicizia il mezzo indispensabile è la comunicazione, non solo di cose o di
altro, ma della propria persona dal di dentro.
Tre sono,
secondo il padre, i passi da compiere per realizzare l’amicizia fraterna.
Il primo
consiste nel saper comunicare vicendevolmente per conoscersi. Si tratta di
conoscersi gli uni gli altri interiormente, non solo esteriormente, ma in profondità
in modo personale. È deplorevole, osserva, che religiosi/e che sono vissuti
insieme per anni sotto uno stesso tetto non si conoscano l’un l’altro, e in ciò
che costituisce l’esperienza fondamentale della loro vita e vocazione. Nella
sintesi finale del congresso di Roma una delle condizioni segnalate per
“nascere di nuovo” è stata “la ricerca di una comunione e di una comunità
basata su relazioni profonde e inclusive”. Ciò implica dedicare tempo a questa
comunicazione o dialogo valorizzando soprattutto le riunioni comunitarie.
Il secondo passo
sta nell’accettarsi, quale conseguenza del conoscersi. Accettarsi al di là
delle differenze e della diversità di mentalità. Queste differenze si possono
verificare in tre ambiti diversi: tra conservatori e progressisti; tra giovani
e anziani; tra nativi e stranieri.
Riguardo alla
diversità tra conservatori e progressisti è impossibile, osserva p. Palmés, che tutti la pensino allo stesso modo, soprattutto
dopo i cambiamenti promossi dal concilio. Ci saranno sempre coloro che
tenderanno a conservare i valori essenziali del passato e coloro invece che
cercheranno risposte nuove alle nuove situazioni. Il pericolo sta nel fatto che
rifiutando il modo di vedere dell’altro si finisca col rifiutare anche la sua
persona. L’arte sta nell’accettare e amare l’altro anche se non si è d’accordo
con le sue idee e i suoi comportamenti.
Una seconda
difficoltà può sorgere nella diversità tra giovani e anziani. Ci sono
congregazioni dove il rapporto tra generazioni è molto cordiale, dove la
diversità di mentalità non costituisce ostacolo. Ve ne sono però anche altre in
cui ci si ignora vicendevolmente, con grave pregiudizio della comunione
fraterna.
Un altro
ostacolo, infine può sorgere nelle relazioni tra i nativi e gli stranieri. In certi
istituti arriva il tempo in cui i nativi del luogo giungono a essere
maggioranza e aspirano a imprimere un orientamento caratteristico al modo di
vivere il carisma dell’istituto. Può allora verificarsi uno scontro circa la
scala dei valori, nel senso che ciascun gruppo ritiene di possedere l’autentica
interpretazione dello spirito dell’istituto. È questo il momento, sottolinea p.
Palmés, di mostrare generosamente l’amore alla
vocazione e alle persone che lo condividono.
Il terzo passo
da compiere per costruire la comunione fraterna è di amarsi. È l’aspetto
decisivo, quello che faceva esclamare ai pagani che scoprivano la comunità di
Gerusalemme: «Guarda come si amano». Amarsi è la conseguenza del conoscersi e
dell’accettarsi.
La chiave della
convivenza nella vita comunitaria, conclude p. Palmés,
sta nel distinguere tra la persona, le sue idee e il modo di procedere. Se
aspetto che l’altro sia dei miei gusti per amarlo, ciò non avverrà mai. La
ragione ultima è Cristo che ci ha chiamato a vivere la stessa vocazione e
costituisce il centro e la motivazione della nostra convivenza.
A.D.
1 Testimonio, Vivir en comunidad: dificil e apasionante.
2 Carlos Palmés, Demonios que dificultan
hoy la vida comunitaria.