LA TURCHIA E IL VIAGGIO DEL PAPA

COSÌ VICINA E PUR COSÌ LONTANA

 

L’imminente visita del papa in Turchia è occasione per rilanciare il dialogo interreligioso e per incoraggiare le minoranze cristiane in quella che è considerata la “Terra santa della Chiesa”. Una laica consacrata italiana, che vive dentro quella realtà, ci aiuta a leggerne problemi e prospettive.

 

La visita di papa Benedetto XVI in Turchia avviene in uno scenario tormentato: l’uccisione di don Andrea Santoro a Trabzon e il ferimento di p. Pierre Brunissen a Samsun, un animo esacerbato nei confronti dei cristiani con false accuse di proselitismo propinate ad arte da fonti di informazione di matrice fondamentalista, il discorso del papa a Ratisbona con le dure polemiche che ne sono conseguite… Ce ne sarebbe abbastanza per rimandare tutto a tempi migliori. Invece, con gioia delle minoranze cristiane e musulmane, è stato reso noto il programma del viaggio apostolico del pontefice in Turchia, dal 28 novembre al 1° dicembre. Un viaggio a forte impronta ecumenica (attesa una dichiarazione congiunta col patriarca ortodosso Bartolomeo I). che ha al centro il tema della libertà religiosa in un paese passato dai 2 milioni di cristiani all’inizio del 1900 agli attuali 115mila.1 Su questa terra dai molti volti abbiamo potuto ascoltare la testimonianza di Maria Grazia Zambon, laica consacrata e giornalista, autrice di un libro di recente pubblicazione.

 

Maria Grazia, hai scritto un libro, “La Turchia è vicina” (ed. Ancora, Mi). Perché questo titolo?

 

Vicina perché nazione che bussa alle nostre porte, confina direttamente con l’Europa… e che, proprio perché così vicina, ci fa anche paura. L’intenzione del libro è proprio quella di dare una chiave di lettura nuova, al di là dei pregiudizi e delle etichette che abbiamo già affibbiato a questo stato. Perciò il sottotitolo, “Viaggio nei mille volti della Turchia”, sottolinea ciò di cui non si parla.

Sono in Turchia da cinque anni: all’inizio a Istanbul per studiare il turco, poi ad Antiochia. La Turchia rientra però in un cammino vocazionale molto più lungo: da un parte c’è la scelta di avvicinarmi al Signore, dall’altra quella di mettermi al servizio della sua Chiesa, nella logica dell’attenzione ai posti di frontiera.

Durante un pellegrinaggio nel paese organizzato dal gesuita p. Paolo Bizzeti sono rimasta colpita dal fatto che le radici della nostra fede arrivavano da lì. Tutti i nomi che si presentavano nel NT, Atti degli Apostoli e lettere di san Paolo, sono legati a comunità ferventi che non si riesce a cogliere se non ci si reca sul posto. D’altro canto ti accorgi che lì oggi c’è veramente poco!

Ho scoperto poi che, accanto a queste pietre dal valore archeologico, ci sono però ancora “pietre vive”: da qui il desiderio di camminare insieme a quella fiammella che è rimasta. In segno di riconoscenza, ma anche di responsabilità. Perché le radici non vengano meno. Se vengono meno le radici ne risente tutto l’albero.

La mia presenza è sicuramente un contributo. In quest’ottica si può guardare anche il prossimo viaggio del papa nel paese, che dimostra questa vicinanza alla Turchia, alla chiesa particolare che spesso si sente sola e abbandonata. La richiesta dei cristiani di laggiù è proprio quella di non essere dimenticati, di non essere lasciati soli.

 

Qual è la composizione della comunità cristiana di Antiochia, nel sud della Turchia?

 

Nell’arco di questi cinque anni ho potuto constatare che la composizione sociale è molto più sfaccettata di quello che potevo immaginare. Antiochia è città modello candidata all’Unesco come città della pace e della convivenza. C’è in effetti una convivenza pacifica, fatta di dialogo e di rispetto, dovuta anche alla presenza secolare di una comunità cristiana. Presente anche una comunità ebraica con radici molto solide. I cattolici sono una parte minima: 10 famiglie, 70 persone contate da archivio parrocchiale. E qui “cattolici” vuol dire essere sia di rito latino che caldeo che armeno. C’è poi una più consistente comunità greco-ortodossa, un migliaio di persone, di lingua araba e quindi dipendenti dal patriarcato di Antiochia che ha sede a Damasco (guidati dunque da Ignazio IV e non da Bartolomeo I). Qui si misura tutta la complessità della chiesa.

 

In questo contesto, come avete ricevuto il controverso discorso del papa a Ratisbona?

 

Anche qui bisogna saper distinguere, soprattutto per quanto riguarda il mondo islamico, che troppo spesso consideriamo un monoblocco. In Turchia ci sono i sunniti ma anche gli aleviti, questi ultimi sono circa 20 milioni (una buona percentuale dunque su una popolazione di 70 milioni di abitanti). Gli aleviti sono un ramo molto aperto e vicino ai cristiani tra gli sciiti, con feste cristiane nel calendario liturgico e devozione particolare per san Giorgio, senza moschee ma con santuari dove si recano a pregare singolarmente, senza il richiamo della preghiera del venerdì e non tenuti a rispettare il mese di digiuno del Ramadan. Discendono da Alì, il cognato di Maometto. Per i sunniti essi non esistono e sono considerati eretici all’interno dell’islam. Gli aleviti, in occasione del discorso del papa, si sono dimostrati molto solidali con noi, come del resto i sufi e i dervisci, proprio perché come noi credono nell’amore e nella pace, in un Dio misericordioso nel senso cristiano. Appoggiano il discorso del papa, il cui tema è come affrontare la diversità con la ragione e con il cuore, non con la violenza. Da parte loro c’è stata molta solidarietà e approvazione, hanno voluto il testo tradotto in turco per capire bene quello che si voleva comunicare. Da parte dei sunniti invece c’è stata una grande reazione, dal momento che non si è compreso il discorso.

 

Andiamo al nord del paese: qual è qui la situazione dopo l’assassinio di don Andrea Santoro?

 

Sicuramente al nord c’è una situazione difficile, perché le comunità sono molto più piccole e in un contesto più chiuso. A Trabzon, la parrocchia di don Andrea, c’è molta presenza di Lupi grigi, gli estremisti dell’islam che uniscono il fondamentalismo al nazionalismo. Essere cristiani là è molto più duro. Attualmente sostituisce don Santoro un prete polacco, mentre a Samsun dove recentemente è stato ferito un altro sacerdote, la chiesa è sguarnita e animata solo da una coppia. Il prete polacco fa la spola da Trabzon a Samsun, ma si tratta di fare 400 km! Don Andrea, poco prima che l’ammazzassero, si era recato in Georgia per chiedere rinforzi da quelle chiese per essere aiutato nel suo ministero verso le donne cristiane dell’est. A questo proposito, la recente condanna del presunto giovane uccisore di don Santoro è da leggere come un modo di sotterrare tutto. C’è grande delusione da parte dei cristiani, perché nessuno crede veramente che quello sia l’assassino. Preoccupante poi la reazione alla sentenza della madre e del fratello, riportata a caratteri cubitali dai giornali: la mamma si è dichiarata soddisfatta di avere un figlio in prigione perché ha ammazzato in nome di Dio (questo fa paura perché delle menti deboli potrebbero approfittarne); il fratello invece ha detto che la sentenza è ingiusta e che i cani infedeli vanno accoppati così. Sono reazioni violente.

 

Come vi state preparando al viaggio del papa, sia a livello ecclesiale che civile?

 

Sono in atto grosse polemiche, Ci si chiede: a che titolo viene il papa? Come capo di stato, e quindi con modalità diplomatiche, o come leader religioso? C’è molto fastidio che venga come capo religioso. I vari incontri previsti con le autorità civili perciò sono approntati per spingere nella logica dell’incontro tra capi di stato. Il papa invece ha più volte sottolineato che viene per le comunità cristiane e per l’ecumenismo. Infatti per ben tre volte in tre giorni incontrerà il patriarca greco-ortodosso Bartolomeo I: un segno forte di ricerca di unità, in un paese dove i cristiani sono in prevalenza ortodossi. Si è aggiunto poi il giorno del primo dicembre per uno specifico incontro con la comunità cattolica. Il papa avrà comunque un momento forte di preghiera a Efeso, il santuario mariano nazionale dove pregano sia cristiani che musulmani: lì ha chiesto di poter pregare. L’altro segno significativo è la possibilità data al pontefice di entrare, senza preghiera però, a Santa Sofia, già basilica e moschea, attualmente museo. Anche questo ha attivato diverse polemiche, comunque è una sosta simbolica importante. A livello civile il segno più significativo è la visita alla tomba del padre della patria, Ataturk: pur contestando questo stato, Benedetto XVI ne riconosce il fondatore.

 

Ti senti libera di annunciare il Vangelo oggi in Turchia?

 

Nell’ambito della nostra parrocchia, ci sentiamo liberi di presentare la nostra fede a chiunque venga a visitarci. Per chi viene siamo punto di riferimento, comunichiamo la nostra fede e siamo pronti ad accompagnare chi lo desidera. Per quanto riguarda il primo annuncio all’esterno della chiesa, inteso come dialogo esplicito e organizzazione di incontri, assolutamente non ci sentiamo liberi. So però per esperienza che alla fine con le persone vale il dialogo a livello interpersonale, quello che genera rispetto e stima tra diversi. I valori prettamente cristiani vengono così trasmessi in un contesto di scambio esperienziale. In particolare, da donna a donna, sto cercando di promuovere quello che altre donne sanno fare. Questo genera una conoscenza reciproca tra donne di fedi diverse: di fronte a problemi e preoccupazioni ci si scopre eguali. Ho cercato di offrire un “angolo di speranza” a cui attingere: è il nome simbolico di una associazione nata per donne vedove sole e abbandonate dai mariti. Uniamoci per trovare futuro.

 

Il vicario dell’Anatolia, mons. Luigi Padovese, quale impronta sta dando al suo servizio di unità? Nei

suoi interventi traspare la difficoltà a essere riconosciuto nel suo ruolo pubblico.

 

Mons. Padovese, giustamente, punta sul dialogo a livello intellettuale: incontrare le persone istruite e aperte può creare una nuova mentalità. Organizza così simposi e conferenze, creando un confronto molto interessante. Egli crede poi nell’importanza di far emergere i cripto-cristiani, cioè quelle migliaia di credenti che ci sono, soprattutto in Anatolia, che però non si dichiarano tali per diversi motivi, non ultimo quello di salvaguardarsi.

 

In questi giorni, soprattutto a partire da un dibattito in Francia, sta riemergendo la spinosissima questione del genocidio degli armeni

 

Sicuramente è un grande tabù che si sta però sgretolando di giorno in giorno. Diversi intellettuali turchi cominciano ad ammettere questo genocidio, primo fra tutti lo scrittore Orhan Pamuk, a cui è andato di recente il premio Nobel per la letteratura, quasi in contrapposizione a una Turchia che invece l’aveva condannato, giudicato e processato. Questo è interessante; persone ad alti livelli riconoscono il genocidio e scoprono che magari loro stessi avevano antenati armeni.

 

Ricordiamo tutti le preoccupazioni del cardinale Ratzinger in merito all’ingresso in Europa della Turchia. Perché è tanto importante che questo paese sia agganciato all’Europa?

 

Con tanta onestà dobbiamo dirci che la Turchia non ha una storia e una cultura europee, però è stata molto legata all’Europa e ne ha respirato molto aria. E quindi sta facendo grandi riforme a livello democratico per poter entrare in Europa. Io ribalto la domanda: e se la Turchia non entra in Europa? Sarebbe uno stato che va alla deriva, tagliato fuori da grandi possibilità politiche, economiche e militari. E poi, per i cristiani sarebbe un gran problema. La supplica dei patriarchi e dei vescovi per vedere l’ingresso della Turchia in Europa risponde alla coscienza che questo costituisce una garanzia per le loro comunità. Le affermazioni dell’allora cardinale Ratzinger sono giuste, ma sono una faccia del problema. I cristiani si attendono che egli ora li ascolti e prenda le loro difese.

A cura di Mario Chiaro

 

1 Fino a un secolo fa, in Turchia viveva la comunità proporzionalmente più numerosa di cristiani in medio oriente, oggi è la più ridotta (lo 0,15% della popolazione anatolica) e concentrata nei grandi centri come Istanbul, Smirne e Mersin. Si tratta, per buona metà, di fedeli della chiesa apostolica armena, posti sotto l’autorità di un patriarca residente a Istanbul (35 luoghi di culto); poi vengono le comunità cattoliche, circa 30mila in tutto, principalmente latini, ma anche armeni, siriaci e caldei. Di circa 20mila il numero delle varie denominazioni protestanti, seguiti dai siro-ortodossi, circa 10mila, solo un decimo del numero presente un secolo fa nella zona meridionale di Tur Abdin. I greco-ortodossi sono invece circa 5mila: dal 1970 è stato chiuso il loro seminario di Halki. Due eventi hanno sradicato le maggiori comunità cristiane dell’ex impero ottomano: il genocidio degli armeni, accusati di connivenza con il nemico russo (almeno 700mila vittime senza contare i deportati morti di stento nel deserto siriano); lo scambio tra popolazioni (1mln e 344mila cristiani ortodossi ricondotti in Grecia contro 464mila musulmani rinviati in Turchia), sancito dal Trattato di Losanna del 1923. Istanbul registra un calo costante dei cristiani: 136mila nel 1927, 86mila nel 1965, 70mila oggi.