COME SORELLE IN COMUNITÀ INTERNAZIONALI

ANDARE VERSO L’ALTRO

 

Per vivere in comunità come sorelle è indispensabile che ci volgiamo le une verso le altre, così che ciascuna si senta accolta come è, con il suo peso di umanità, con i suoi doni, le sue ricchezze, ma anche con le sue povertà, le sue debolezze e i suoi limiti.

 

Il presente “Speciale” è ricavato, ad eccezione della parte che possiamo considerare introduttiva, dall’intervento che Sr. Christiane Mégarbané, francescana missionaria di Maria, ha tenuto, su invito, al recente capitolo generale straordinario dei frati minori francescani, tenuto in vista, nel 2009, degli 800 anni di fondazione dell’Ordine. Sr. Cristiane appartiene alle francescane missionarie di Maria, un istituto fondato da Maria della Passione, che si prepara a celebrare il prossimo anno, 2007, i 125 anni di fondazione.

Questa parte del suo intervento descrive, a partire dalla sua molteplice esperienza, come si può oggi “osare di vivere come sorelle” in comunità internazionali e multiculturali, come sono in genere quelle di missione, riuscendo, attraverso un paziente lavoro su se stessi a plasmare comunità caratterizzate dalla comunione, dalla condivisione e il rifiuto di ogni forma di esclusione, divenendo così segno profetico, secondo lo spirito di san Francesco d’Assisi. Ma il discorso ha un valore particolare per tutte le comunità dove la vita fraterna è spesso ostacolata da atteggiamenti e comportamenti non ancora “evangelizzati” e che richiedono in ciascuno una profonda conversione del cuore. Lasciamo ora la parola a sr. Christiane.

 

“OSARE DI VIVERE

DA SORELLE”

 

L’incontro con l’altro al quale siamo inviate non può essere vero, rivelarci a noi stesse e trasformarci, che se non si verifica dapprima fra noi, nelle nostre comunità e fraternità, là dove si vive in modo privilegiato la relazione all’altro. La mia gioia principale, quella che mi ha sostenuto nell’attraversare le difficoltà e portarle con cuore leggero, è la qualità della nostra vita fraterna. Ho ricevuto il mio invio per la Russia sei anni fa! È stato bene per me sentirmi rinnovare questo invio dalle mie sorelle nel momento in cui si è attualizzato a Novgorod, nella fraternità che raggiungevo. Una gioia per me, è la nostra vita quotidiana in semplicità e prossimità con i vicini, i parrocchiani, ecc…. Ci sono tutte le occasioni per il buon umore, per ridere, sorridere, tutto quanto ci aiuta a vivere.1

 

Il documento dell’Ordine, In cammino verso il capitolo generale straordinario – La vocazione dell’Ordine oggi ha un’espressione molto bella e molto interpellante per descrivere la relazione tra noi nelle nostre vite fraterne. «Ci volgiamo gli uni verso gli altri, per amarci vicendevolmente come il Signore ci ha dato l’esempio e il comando».2 Volgersi, non è forse una delle espressioni bibliche che ci descrive come Dio e l’uomo entrano in relazione uno con l’altro? Le citazioni bibliche abbondano a questo proposito. Ne scelgo due, si potrebbe sceglierne altre. “Eccomi, vengo a voi, mi volgo verso di voi” (Ez 36, 9), , ci trasmette Ezechiele da parte del Signore; e Sara ci fa partecipi della sua preghiera, un dialogo fiducioso e pieno d’abbandono al Signore, per dirgli il suo sconforto e la sua sofferenza: “Ora verso di te alzo il mio viso e volgo i miei occhi” (Tb 3, 12).

È in questo doppio movimento in cui ci volgiamo le une verso le altre, in cui ciascuna si sente accolta come è, con il suo peso di umanità, che ci scopriamo vicendevolmente in ciò che fa la nostra storia e la nostra vita presente, la nostra vocazione, le ricchezze della nostra fede, i nostri doni, ma anche le nostre povertà, le nostre debolezze e i nostri limiti. Infatti, la vita ascoltata e accolta, ci fa entrare nella comprensione dell’esperienza degli altri, nella loro “storia santa” fatta di grazia e di peccato perdonato. La paura dello sconosciuto e dell’altro, la paura di essere giudicate e di non essere accettate, può allora far posto progressivamente alla fiducia. In questa interazione, le attese e i desideri profondi delle une e delle altre si verificano, gli impegni si confermano e le ambiguità si purificano.

L’incontro dell’altro ci fa scoprire l’opera dello Spirito nella sua vita e ci rende anche più coscienti della sua azione nella nostra, – nelle nostre vite che si aprono al lavoro della grazia e del perdono di Dio. Noi abbiamo bisogno le une delle altre per riconoscere «la verità della nostra condizione umana, fragile e vulnerabile, affinché come donne di Vangelo, ci lasciamo guarire e inviare nuovamente per dare la vita» (Mt 15, 28). L’immagine degli amici del paralitico che lo portano da Gesù, aprendo con audacia il tetto della casa di uno straniero per raggiungere il Maestro, è una bella immagine del vicendevole sostegno e della reciproca guarigione.

Era curioso scoprire come delle relazioni concrete mi hanno aiutato a realizzare la traversata e nello stesso tempo, questa stessa traversata è stata una delle esperienze più forti di solitudine di tutta la mia vita. Le relazioni all’interno di una fraternità fmm con tutte le sfide dell’inculturalità, dell’internazionalità – noi eravamo 8 sorelle di 5 nazionalità – mi hanno trascinato nella lunga traversata, durante la quale il mio cuore è stato fecondato e trasfigurato dalla grazia dell’ “incontro”. Il mio compito, aiutare alla formazione delle novizie, mi obbligava ogni giorno ad ascoltare l’altra, il suo modo di riflettere, il suo punto di vista diverso dal mio, a vegliare sui miei sentimenti e a rileggere nella verità ciò che stavo vivendo. Questa rilettura provocava in me delle scoperte, smascherava delle ambiguità e delle debolezze nascoste nel più profondo di me stessa e avviava lentamente e a volte dolorosamente questo “esodo” da me stessa, necessario per aprirmi e comunicare all’universo dell’altra…3

In questo luogo privilegiato dell’incontro che è la comunità, le nostre vite si interpellano vicendevolmente. Impariamo a conoscerci, ad amarci, a perdonarci, ad apprezzarci e ad assumere liberamente le nostre ferite, i nostri limiti e i nostri difetti. “Meglio essere in due che uno solo, ci dice l’Ecclesiaste. Se vengono a cadere l’uno rialza l’altro. Guai invece a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi”(Qo 4, 9-10)

Lungi dal perdere la nostra identità, la riscopriamo confermata dall’esperienza della trasformazione reciproca e della conversione dove ciascuna diviene nella relazione all’altra. In questa relazione non possessiva e che lascia essere e essere noi stesse, ciascuna può allora essere accettata e riconosciuta nel suo mistero, questa parte che Dio mette di se stesso in lei. Prendere il rischio di dirci e di rivelare ciò che ci abita, rinvia inevitabilmente le une e le altre al nostro proprio mistero. In questa prossimità, in ciascuna si fa una breccia, un’apertura che ci dice che siamo riconosciute per noi stesse, per ciò che abbiamo di unico: “Tu sei prezioso ai miei occhi, tu conti per me” (Is 43, 4). Questo processo fa nascere la gioia, perché nella parola detta e scambiata c’è una riconoscenza che dona vita. Non è forse ciò che ci annuncia Cristo quando dice alla cananea: “Beata sei tu” (Mt 15, 28). Ci sono incontri che ci riempiono di gioia e di pace perché sono portatori di vita, quella dove la parola dell’uno raggiunge l’essere profondo dell’altro e si apre a Dio che può così manifestarsi.

 

IN COMUNITÀ INTERNAZIONALI

O INTERCULTURALI

 

La vicina di una delle nostre fraternità spiegava alla sua amica: «Abbiamo vicino a noi quattro donne che vivono insieme. Dicono che sono sorelle, ma non hanno né lo stesso padre, né la stessa madre. Una è spagnola, l’altra è indiana, la terza è congolese e la quarta italiana. Ma vivono come sorelle, non tengono niente per loro. Mettono tutto in comune (stipendi…). Sono qui per noi perché ci amano».4

Questa descrizione ci traccia il ritratto di una delle nostre comunità, il suo viso, la sua identità, il suo progetto di vita. Può sembrare un po’ ideale, perché, lo sappiamo, il cammino comunitario non va sempre da sé e la realtà è complessa. La vita comunitaria ha una dimensione umana, psicologica e, qualunque sia l’ideale e lo stile nel quale è realizzata, dovrà sempre costruirsi con fatica nelle difficoltà e nelle tensioni quotidiane, che provengono dallo choc delle culture e delle mentalità, dai caratteri e dalle personalità. La lucidità psicologica è necessaria per non drammatizzare le sciocchezze, le incomprensioni e le divergenze, ma piuttosto per assumerle. Fanno parte di ogni vita di relazione che si cerca e si costruisce. Possono essere fattori importanti di crescita personale e comunitaria, come possono pure generare frustrazioni, blocchi e anche sentimenti di insuccesso.

Tuttavia, nell’istituto, come pure in altri, la vita comunitaria è oggi una inquietudine e una preoccupazione. Il malessere, così diffuso che la tocca, mette in evidenza il fatto che ci troviamo in un ambito in cui siamo vulnerabili, e le nostre relazioni interpersonali sono fragili. Portiamo in noi un’aspirazione a una vita fraterna segnata dal desiderio di uno scambio in profondità in un clima di accoglienza, di rispetto, di libertà, di accettazione e di apertura. Questo non va da sé e non è sempre facile da realizzare. Cerchiamo comunità nelle quali sostenerci vicendevolmente e in modo fraterno, con l’aiuto reciproco, l’ascolto, la preghiera, la comprensione e l’amicizia, e la realtà è sovente completamente diversa, perfino complessa. Non si può negare che la vita comunitaria è difficile in sé e che non sappiamo sempre viverla. Maria della Passione la qualificava di «….martirio ordinario della vita religiosa e della stessa santità».5

In molti, questa situazione fa sorgere stanchezza, sofferenza e anche in certi casi disorientamento. Questa realtà si fa sentire in modo più particolare nelle suore giovani, più sensibili a tutta questa problematica. Non è raro che dopo il noviziato, dove ordinariamente si presta un’attenzione particolare all’elemento comunitario, la suora di voti temporali, viva uno choc, uno scoraggiamento inserendosi in una comunità dove non sempre trova quello che è in diritto di voler vivere.

 

Il nostro ultimo capitolo generale ha fortemente insistito sul vivere da sorelle, in una comunità internazionale o interculturale,6 non come un accento nuovo, ma come una necessità e una conseguenza ineluttabile della nostra vocazione di donne consacrate, di donne di Vangelo, discepole di Cristo e inviate alla missione universale nel mondo di oggi.7 Gli scambi avuti in capitolo generale di settembre-ottobre 2002, hanno messo in evidenza quanto l’accoglienza in comunità della suora inviata, fosse debole. Una delle esperienze più forti del mio primo anno in Pakistan è stata quella della solitudine e dell’isolamento. Sapevo di avere delle sorelle, ma sentivo profondamente la solitudine. Questa solitudine era anche il mio rifugio, là dove potevo incontrare il mio Dio e parlargli dal profondo del cuore. Si arriva in una comunità che ha il suo ritmo, con sorelle che hanno preso il tempo di conoscersi e che hanno un modo di vivere. Bisogna essere paziente per arrivare a conoscere l’altra e permetterle di fare lo stesso. All’inizio non potevo neppure offrirmi per aprire la porta o rispondere al telefono perché non conoscevo la lingua, ma ho sempre potuto aiutare nelle piccolissime cose che mi hanno permesso di partecipare alla vita comunitaria. Non conoscevo le amiche della comunità, né i luoghi, ecc. È molto facile essere lasciata fuori dalla conversazione a tavola.8

Se negli anni precedenti abbiamo cercato di curare la preparazione all’invio, abbiamo considerato a torto per acquisito l’accoglienza e l’integrazione nella vita fraterna, quando le difficoltà a questo livello sono enormi. Sono, oggi, uno dei motivi seri presentati dalle nuove inviate per domandare una partenza dalla missione e un ritorno alla provincia d’origine.

 

ATTENZIONE

ALL’ATTIVISMO!

 

Noi siamo anche coscienti come l’attivismo, il primato degli impegni apostolici sulla vita fraterna, affliggano gravemente la qualità delle nostre relazioni, i momenti di condivisione e di comunione fraterna. Con l’attivismo, la vita comunitaria si scontra con una dose importante di individualismo, legato sovente con una rivendicazione di autonomia e la comunità può diventare un raggruppamento di persone indifferenti al destino delle altre e che non si sentono né impegnate né coinvolte. La grande interconnessione mondiale (l’internet, lo skype, i molteplici canali di televisione…) di cui beneficiamo oggi, ci mette in relazione facile e immediata con tutte le parti del mondo, ma paradossalmente ci isola dalla sorella con la quale viviamo; i giochi solitari, i DVD ci fanno passare ore davanti a uno schermo senza preoccuparsi dell’altra.

Quando nella comunità, la comunicazione è assente o povera, la vita fraterna, di solito, si indebolisce e diventiamo, senza rendercene conto, straniere le une alle altre. Le relazioni interpersonali diventano superficiali e si situano più a livello dell’orario e della funzionalità del gruppo che di una condivisione di vita. Le conseguenze possono essere spiacevoli…. Ci si installa in una mentalità individualista e di indifferenza per l’altra, per la comunità.

Un altro dramma che distrugge sempre di più l’incontro con l’altro è il tribalismo, il regionalismo, l’etnocentrismo, le caste. i nazionalismi. Essi influenzano sempre più le nostre relazioni, le nostre scelte, le nostre decisioni. Ignorare questa realtà è non confessarci i nostri pregiudizi e non riconoscere che portiamo in noi la tendenza a giudicare, a vedere il mondo e gli altri a partire da noi stesse, è anche divenire complici di un mondo che favorisce sempre di più la discriminazione, lo sfruttamento e l’esclusione. Già nel suo tempo, Maria della Passione percepiva il pericolo di questa mentalità e scriveva: «Se tutti quelli che sono consacrati a Dio, si tenessero al di fuori dei partiti, sfuggirebbero alle rivoluzioni. Allora mi è venuta nel cuore e sulle labbra questa bella parola che vi lascio in eredità: il sacerdote, il religioso, la religiosa devono appartenere alla carità universale, e per conseguenza a nessun partito. Potete metterla come sentenza nelle nostre case. Domando insistentemente allo Spirito Santo che questa carità, immagine di quella di Dio, sia il distintivo dell’istituto. Esternamente non apparteniamo a nessun partito, per appartenere a tutte le creature. Questo non impedisce l’amore del proprio paese, come pure l’amore del prossimo non impedisce di amare la propria famiglia. Ma la vera missionaria deve ricordarsi che il primo comandamento deve regolare prima di tutto la sua vita: un solo Dio tu adorerai e amerai perfettamente».9

L’internazionalità vissuta nelle nostre comunità, o quando questa non è possibile, l’interculturalità, colpisce e suscita domande. Questa testimonianza è ancora più impressionante quando si vive nei paesi in guerra. Un modo concreto di partecipare ai tentativi di riportare la pace e di vivere la riconciliazione fra questi popoli, era di cercare di vivere riconciliate con le proprie sorelle, quotidianamente, nella mia comunità, ponendo a me stessa qualche domanda vitale: il mio cuore è aperto al cambiamento, al perdono, a costruire ponti di pace e di riconciliazione, a “far posto” alla sorella o al fratello con i quali siamo divisi?10

È l’esperienza di molte nostre comunità in Africa, nello Sri Lanka, nel Medio Oriente…. là dove suore di etnie, di razze o di paesi che si scontrano, vivono insieme. La violenza che imperversa oggi nel mondo, mette dei fratelli, delle sorelle in situazioni sconvolgenti. Ho conosciuto da vicino una delle nostre fraternità in Giordania, dove una libanese e una palestinese vivevano insieme dopo che quest’ultima ebbe suo fratello mutilato e ucciso dalle milizie libanesi. Le ho viste andare insieme festeggiare alcune famiglie musulmane palestinesi in occasione della festa del Fitr. Alcune le ricevevano bene e altre ignoravano la suora libanese e si rivolgevano solo alla suora palestinese. Esse hanno tuttavia perseverato fino alla fine visitando tutte le famiglie del quartiere.Con nostra grande sorpresa, alla festa di Pasqua che seguiva la festa musulmana, la maggioranza delle famiglie sono venute e festeggiarci.

Queste testimonianze dicono bene la speranza che possiamo offrire al mondo di oggi dove tutto concorre a far crescere l’odio fra i gruppi, le popolazioni, i popoli. Sperimentare nelle nostre vite fraterne, nella relazione all’altra che è possibile amare i propri nemici, anche se occorre tempo, molto tempo per arrivare a dire: “Padre, perdonaci le nostre offese come noi perdoniamo”, è anche saper scoprire nelle iniziative di coloro che ci circondano, azioni, gesti, segni che annunciano un futuro diverso e che non può essere, prima di tutto, che un dono di Dio.

Una domenica del mese di agosto, mentre infuriava la recente guerra israelo-libanese ci fu all’Alhambre di Granada in Spagna, un concerto diretto da Daniele Barenboïm.11 Il suo scopo è chiaro, diceva nella sua intervista: riunire giovani musicisti ebrei e arabi e farli lavorare insieme, non come un gesto politico, ma nella preoccupazione di fare un lavoro in comune, un progetto a dimensione universale, quello di una grande orchestra sinfonica. E come lo spiegava all’intervistatore della televisione: Non si può ottenere la pace semplicemente facendo suonare dei nemici insieme. Bisogna creare un forum dove i giovani d’Israele, di Palestina e dei paesi arabi possano lavorare la musica analizzando la relazione tra gli strumenti come parabola della costruzione di una società; e dove possano esprimersi liberamente e apertamente mentre ascoltano il racconto dell’altro. Non si tratta di accettare d’obbligo il racconto dell’altro, né tanto meno di approvarlo, si tratta di riconoscere la sua legittimità. Questa iniziativa non interroga le nostre vite fraterne?

Cercare di fare del nemico, che è il radicalmente altro quello che deve diventare il radicalmente vicino, è l’impossibile del messaggio evangelico a cui ogni cristiano è affrontato e ancor più noi, religiosi “se vogliamo fare più e meglio”,12 come ce lo ricorda Francesco nella sua lettera a tutti i fedeli. E fra le altre raccomandazioni cita integralmente il versetto del Vangelo di Luca: “Dobbiamo amare i nostri nemici e far del bene a quelli che ci odiano”.13

 

UN PROCESSO DI PERDONO

E DI RICONCILIAZIONE

 

In risposta all’appello del papa Giovanni Paolo II per la Giornata missionaria mondiale del 20 ottobre 2002, di annunciare il perdono e la riconciliazione di cui il mondo ha tanto bisogno,14 il nostro ultimo capitolo generale del 2002, ha ritenuto come linea d’azione di «favorire un processo di perdono e di riconciliazione in noi, fra noi e attorno a noi, là dove ferite dovute al razzismo, al passato coloniale, alla guerra o a tutt’altra ragione grave, sono ancora ostacoli reali alla nostra comunione universale»;15 un invito per ciascuna di noi a guardare la vita in avanti e a non fissarci nel passato, a rileggerla non a partire dai nostri pregiudizi e dalle nostre delusioni, ma nella fiducia e la speranza in Dio e anche nell’altro. Un altro avvenimento abbastanza sconvolgente è stato la presa di coscienza di un certo sguardo dell’altro su di me. Quante volte ero profondamente ferita che la relazione con l’altro era filtrata dalle “etichette” dell’universo culturale, storico e politico che io rappresento più che da un vero interesse a entrare in relazione con la mia persona. Quante volte i giudizi sulla terra che mi ha generato alla vita e sulla Chiesa che mi ha generato alla fede mi hanno ferito fino al punto di sentire annidarsi in me sentimenti di colpevolezza per essere occidentale, europea, latina… Ho capito che la mia ferita non affondava le sue radici nello sguardo e nei giudizi dell’altro e neppure nella presa di coscienza di appartenere a una cultura e a una chiesa segnata dagli errori e dai peccati del passato, che già sapevo e lo sapevo bene. La vera ferita e nello stesso tempo la vera grazia per me era che l’incontro con l’altro diverso da me, l’altro appartenente ad un universo culturale e spirituale diverso dal mio, mi rivelava ad ogni istante che non ero pienamente riconciliata con me stessa, con questo lato oscuro della mia identità, della mia cultura, della mia chiesa; perché una cosa è “sapere” altra cosa è assumere quello che si sa nell’Amore, le ombre come le luci.16

Vivere la riconciliazione è imparare a costruirci con le nostre proprie contraddizioni, assumendo le nostre paure e le nostre difese, e distruggendo i nostri pregiudizi che ci fanno tanto male per avanzare con le nostre memorie ferite e selettive verso una reciprocità fatta di perdono e di crescita, di rispetto vicendevole; è andare fino al punto in cui l’incontro con l’altro ci ferisce in profondità, ma in modo fecondo. «Che l’Altro, che tutti gli altri siano la passione e la ferita attraverso le quali Dio potrà fare irruzione nelle fortezze della nostra sufficienza per fare un’umanità nuova e fraterna».17

La nostra relazione all’altro porta in sé valori fondamentali che le danno un’impronta speciale: quelli della tenerezza sull’esempio della madre che nutre e ama il proprio figlio secondo la carne,18 del perdono e del rispetto dell’altro, della tolleranza e della cortesia, valori molto francescani che invitano a lasciare all’altro il suo diritto di essere diverso. «Tutti quelli che agiranno così e persevereranno fino alla fine, ci dice Francesco, lo Spirito del Signore riposerà su di essi e farà in essi (Is 11, 2) la sua abitazione e la sua dimora (Gv 14, 23), e saranno figli del Padre celeste (Mt 5, 45) di cui fanno le opere; e saranno sposi, fratelli e madri di Nostro Signore Gesù Cristo».19

Il fattore tempo è indispensabile per questo cammino di conversione costante dove impariamo a volgerci gli uni verso gli altri, le une verso le altre, un cammino che ci conduce dall’egocentrismo che ci abita verso la reciprocità che ci invita a riorientare e a riaggiustare il nostro sguardo. A differenza dell’amico che si sceglie dopo un tempo di conoscenza, il fratello e la sorella, in seno a ogni famiglia, ci sono donati dal Signore, senza una scelta preliminare da parte nostra. Tuttavia, il Signore ci invita a divenirlo, a diventare un fratello, una sorella per l’altro, senza voler sopprimere le differenze, ma al contrario andar loro incontro e scoprire in questa relazione i segni del regno. Le mie sorelle sono extra. Ciascuna ha il suo stile e insieme cerchiamo di costruire la fraternità nella verità, verità che amo e che mi fa soffrire. Sono sicura che attraverso una vita di condivisione, di confronto del nostro quotidiano, possiamo fare “realtà” il Regno di Dio.20

 

PER ESSERE

SEGNI PROFETICI

 

Questo cammino ben concreto che ci conduce dalla differenza a una vita di relazione in reciprocità, dalla diversità alla comunione, ci dà nello stesso tempo un senso sempre più grande di appartenenza al popolo che Dio ci affida, alla fraternità, alla provincia e all’istituto con i quali costruiamo giorno dopo giorno questo nuovo divenire.

Una volta sul cammino dell’incontro e della comunione, quando si può dire di essere arrivate sull’altra sponda, si vive qualcosa che potrei definire di “appartenenza”, cioè si vive il sentimento di appartenere al popolo al quale Dio ci ha inviate, si fa ormai parte di questo mondo, e barriere, limiti, conflitti, pregiudizi non sono più tali….

Non è la situazione “ideale” che avevo immaginato, ma semplicemente un essere a proprio agio, essere come a casa propria…. e in verità era davvero così che ho realmente vissuto, ero veramente a casa mia in Egitto. Ma la sorpresa era di scoprire che, se lo ero, era esattamente per il contrario: più avanzavo nell’incontro e più facevo l’esperienza di essere straniera, di essere pellegrina, di “passaggio”.

(…) Era sconcertante per me scoprire, negli ultimi nove mesi nei quali le relazioni erano diventate sempre più profonde e i legami più forti, che restavo straniera e nella misura in cui ero capace di porre gesti di riconciliazione (…), nella misura in cui ero capace di assumere nell’amore questa situazione di essere straniera, Dio mi faceva ‘dono’ di vivere la sua esperienza pasquale che è poi l’unico cammino per una vera comunione.21

Vivere l’appartenenza al popolo che Dio ci affida, è sentire là una “casa mia” naturale, anche se si è sempre il diverso, di passaggio… un passaggio evangelico che ci fa mettere i nostri passi in quelli di Cristo, lui, l’itinerante che passava facendo del bene.

Vivere l’appartenenza alla fraternità, alla provincia, all’istituto è «crescere ogni giorno nella dinamica dall’ “io” al ‘noi, dalla “mia missione” alla “missione della comunità”, dalla ricerca dei “miei interessi” a quella degli “interessi di Cristo”, in una mentalità rinnovata che permette la comunione fraterna approfittando della ricchezza dei doni di ciascuna per far convergere questi doni verso la fraternità e la comune responsabilità del progetto apostolico».22

 

DISCERNIMENTO

COMUNITARIO

 

Quando il senso di appartenenza è ben vissuto in comunità, siamo coinvolte nella ricerca e nella concretizzazione della visione comune e del progetto di vita e riceviamo conferma, sostegno e invio per la missione specifica che ci è affidata. Il discernimento comunitario ci impegna, al di là di ogni soggettivismo, a offrire la nostra verità alla ricerca del gruppo e a disporci a ricevere la loro. In questa interreazione fra le verità che si cercano insieme, possiamo trovare risposte ai nostri bisogni e alle nostre aspirazioni.

La cultura individualista nella quale siamo inserite, ci porta sempre più a prendere decisioni e orientamenti in modo isolato. Affidare al discernimento comunitario il destino della nostra vita, intimamente legato al destino della fraternità riunita, è annunciare nel nostro mondo diviso e segnato da una crescente frammentazione, una vita di relazione, una vita di comunione. Confrontare insieme i nostri orientamenti e decisioni con la parola di Dio e secondo l’esempio stesso di Cristo e della sua comunità, ci fa vivere la solidarietà attraverso la quale abbandoniamo l’indifferenza e il soggettivismo per impegnarci insieme su un unico cammino.

Tuttavia, quando il sentimento di appartenenza si affievolisce nell’uno o nell’altro membro, questi si sente frustrato e non si trova più a suo agio nel gruppo che spesso contesta, accusa e persino rifiuta. Ciò che vivono gli altri, l’insieme, non lo interessa più. Si isola, prende le distanze e il suo viso non è più rivolto verso gli altri, come quello degli altri non è più verso di lui. Si sente sempre più soffocato e va a cercare delle scappatoie e delle compensazioni: cibo, medicine, alcool, incontri affettivi ambigui…

Vivere l’appartenenza ad una comunità, a un istituto, è costruire con altri un “corpo”: “Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. (…) Il corpo non risulta di un membro solo, ma di molte membra. Ora voi siete il corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte” (1Cor 12, 12.14.27).

Vivere la realtà del “corpo” è una testimonianza convincente per il mondo odierno che continua a essere preda di conflitti etnici, razziali, nazionalisti e di esclusioni di ogni tipo. Nel mondo di oggi dove l’accento è messo sull’individuo a detrimento del gruppo, sui propri diritti, su ciò che ognuno fa e possiede, come testimoniare di un corpo che va ben al di là dei legami di sangue, della nazionalità e della cultura, e che dice l’importanza di ogni persona per la sua comunità, e questo, qualunque siano la sua identità, la sua età, la sua formazione, le sue competenze e le sue responsabilità? Ogni membro è coinvolto nella costruzione del corpo da cui riceve la sua identità, la sua ragion d’essere e il sostegno per viverli autenticamente; ciascuno è coinvolto nella vocazione e la missione apostolica di questo gruppo.

Il corpo che è la comunità è una “cellula vivente della Chiesa”.23 La nostra vocazione ci permette di vivere la doppia realtà della Chiesa, quella di essere insieme universale e locale. Perché non si confonda con nessuna altra cultura, la Chiesa è un luogo di incontro tra i popoli, le razze e le identità nazionali e culturali. Nello stesso tempo è anche totalmente presente in un dato luogo, incarnata e radicata nella sua realtà.

Quante volte mi sentivo ferita per non riuscire a liberare la mia identità dalla pesante eredità del passato e di entrare libera in una comunione nuova, frutto di relazioni trasfigurate! Ho vissuto duramente in me lo strappo, lo scontro fra occidente e oriente, soprattutto per ciò che riguarda la Chiesa, fino al punto a non poter pronunciare nel Credo “Credo nella Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica”. Mi domandavo continuamente perché mi sentivo così ferita, perché questa mancanza di comunione mi toccava così profondamente come una spada a doppio taglio e come guarire e superare tutto questo…. Mi ricordo che in questo momento, due cose mi hanno illuminato: la prima era sicuramente il bagaglio della mia formazione iniziale (….). La seconda era la lettura di un piccolo libro di un monaco copto ortodosso, Matta el Miskin, dove diceva, a proposito dell’unità cristiana, che occorre ricercarla dapprima con il cuore; che la comunione è prima di tutto un fatto interiore, la presenza di Dio in noi, per questo si tratta di avere un cuore riconciliato.24

Questa esperienza ecumenica ci fa percepire i modi diversi di abitare la stessa Chiesa e insieme i modi diversi di essere cristiani. Noi abbiamo bisogno degli altri per prendere le distanze in rapporto a tutto ciò che nelle nostre culture imprigiona o riduce la fede: abbiamo bisogno degli altri per riconoscere le nostre ferite senza esserne schiacciati e mettere in atto le nostre risorse e la nostra propria vocazione nell’umanità.

La nostra vocazione ci fa essere ponti fra la Chiesa universale e le Chiese locali e fra le differenti Chiese locali; una missione che non è sempre facile e che non è sempre capita e assunta a livello delle varie Chiese locali. Portiamo in noi la sofferenza di questa tensione, il malessere fra l’universale e il locale e nello stesso tempo, nel cuore delle nostre Chiese locali, siamo i testimoni di altre parti del mondo, dei loro progetti, delle loro difficoltà, delle loro speranze….

 

VEDERE CRISTO

IN OGNI UOMO E OGNI DONNA

 

Questo corpo che cerchiamo di costruire insieme, non è il Corpo di Cristo, disegnato dal viso dei nostri fratelli e delle nostre sorelle, quelli e quelle con i quali condividiamo la stessa chiamata, la stessa vocazione, quelli e quelle a cui siamo inviate per vivere con loro la riconciliazione fra nazioni, tribù, popoli e lingue (cf. Ap 7,9)? «Il Cristo contemplato ci invia ai nostri fratelli, nei quali scopriamo la sua presenza nascosta. E i nostri fratelli ci rinviano alla contemplazione di Cristo».25 Vedere Cristo in ogni uomo, in ogni donna, è riconoscerlo e farlo crescere di continuo in se stessi, nell’altro e nel gruppo. La vita in relazione non è forse fondamentalmente una vita cristocentrica, una eucaristia, un perdono dato e un perdono ricevuto che liberano dalla paura, una parola attesa e una parola scambiata che permettono all’altro di esistere e di essere riconosciuto; un dono di sé che apre al mistero pasquale? Nell’incontro ciascuno si consegna, offrendo la propria fragilità e la propria vulnerabilità perché crescano, nell’accoglienza reciproca, la solidarietà e la reciprocità, nel riconoscimento dell’opera del Signore. Nell’Amen che diciamo ricevendo il Corpo e il Sangue di Cristo, diciamo anche “si” al corpo di Cristo che formiamo insieme. Nell’Eucaristia noi facciamo l’esperienza della fraternità universale, quella che si costruisce a partire dalla diversità e apre alla comunione, la vocazione dell’umanità. “Allarga lo spazio della tua tenda, il Signore, tuo sposo, è chiamato Dio di tutta la terra” (Is 54, 2 e 5).

Francesco, il fratello universale, va all’incontro dell’altro disarmato, in totale fiducia e abbandono. «A forza di risalire all’ Origine primaria di tutte le cose, aveva concepito per tutte loro un’amicizia sovrabbondante e chiamava fratelli e sorelle le creature, anche le più piccole, perché sapeva che loro e lui procedevano dallo stesso e unico principio»,26 Dio che è comunione d’Amore e nel quale non c’è nient’altro che Amore.27

Non è dall’oggi al domani che Francesco ha imparato a situarsi in relazione fraterna con le persone e con tutta la creazione e a cantare il suo cantico di frate Sole. Lo poteva se non avesse potuto riconciliarsi con se stesso, espropriarsi per lasciarsi trasportare dalla potenza di un Dio che «si svuota eternamente di se stesso: il Padre nel Figlio, il Figlio nel Padre e lo Spirito Santo nell’Uno e nell’Altro… essendo ogni persona in Dio nient’altro che una relazione all’Altro, nell’espropriazione totale di se stessa? Dio è Trinità, perché Dio è una comunione d’amore, perché Dio non possiede niente, perché dona tutto, perché, giustamente, la sua Divinità non è altra cosa che la sua spogliazione e la sua povertà».28

In questo scambio tra il Padre, il Figlio e lo Spirito, in questa relazione, Dio si dona lui stesso a noi e ci propone la sua Parola, il suo Figlio, un dono di se stesso che vuole raggiungerci nella nostra umanità.

Quando Dio si fa uomo, diventa, nel suo Figlio, il prossimo più prossimo di noi. Colui che all’inizio era rivolto verso Dio (Gv 1, 2), la Parola, si volge anche verso di noi venendo nel mondo.29 Questo doppio orientamento del Verbo ci trascina, al suo seguito, ad amare come lui, Dio e il prossimo. È in questo comandamento dell’amore che si inscrive il fondamento di ogni relazione, di ogni incontro.

E per terminare, vorrei citare di nuovo il vostro documento In cammino verso il capitolo generale, la vocazione dell’Ordine oggi. «Se noi sapremo vivere, non a parole ma a fatti la vera fraternità fra noi; se invece di chiuderci in noi stessi, ci apriremo a tutti gli uomini con i quali ci sarà dato di entrare in contatto, noi risponderemo all’attesa del mondo che, minacciato dalla spersonalizzazione e dall’anonimato, aspira profondamente alla comunità. Allora, noi potremo, insieme ad altri uomini, cristiani o no, svolgere un ruolo di fermento nella costruzione di una umanità, che non sia una massa di individui solitari e spersonalizzati, ma una comunione fraterna in Cristo».30

 

Sr Christiane Mégarbané

 

 

 1 Testimonianza di una giovane suora polacca inviata in missione in Russia.

 2 In cammino verso il Capitolo generale straordinario La Vocazione dell’Ordine oggi, n° 12

 3 Testimonianza di una giovane suora italiana inviata per una esperienza missionaria in Egitto

 4 Testimonianza di una comunità d’Algeria

 5 Corrispondenza di Maria della Passione 2/196

 6 Documento capitolare FMM 2002 – Discepole, Linee d’azione 3

 7 Documento capitolare FMM 2002. Introduzione, 2

 8 Testimonianza di una suora peruviana inviata in missione in Pakistan.

 9 Maria della Passione – Giornale di una Madre alle sue figlie, 18.05.1902.

10 Testimonianza di una missionaria FMM.

11 Daniele Barenboïm, ebreo, è direttore d’orchestra di West-Eastern divan Orchestra, che fondò nel 1999 con lo scrittore palestinese Edward Saïd. L’orchestra è composta da giovani musicisti dai 13 ai 26 anni provenienti da Israele, Palestina, Siria, Giordania, Libano, Tunisia, Egitto e Spagna.

12 1 Let. a tutti i fedeli, cf. v. 36.

13 1 Let. a tutti i fedeli, cf. v. 38 che cita Lc 6, 27.

14 Giovanni Paolo II, Giornata missionaria mondiale, 20 ottobre 2002.

15 Documento capitolare FMM 2002 – Inviate alla Missione Universale, Linee d’azione 1.

16 Testimonianza di una giovane suora italiana inviata per una esperienza missionaria in Egitto.

17 Mons. Pierre Clavarie, vescovo emerito di Oran, ucciso in agosto 1996, durante gli avvenimenti d’Algeria.

18 2 Reg 6, 8

19 1 Let a tutti i fedeli, v. 48-50.

20 Testimonianza di una suora colombiana in missione in Marocco, uccisa in un incidente stradale.

21 Testimonianza di una giovane suora italiana inviata per una esperienza missionaria in Egitto.

22 Congregazione per gli Istituti di Vita consacrata e le Società di vita apostolica, La vita fraterna in comunità, 39.

23 Costituzioni FMM, n° 19

24 Testimonianza di una giovane suora italiana inviata per una esperienza missionaria in Egitto.

25 Costituzioni FMM, n° 3

26 S. Bonaventura, Legenda Major, 8, 6

27 Citazione tratta da: Maurice Zundel, Il tuo Viso, la mia luce, Desclée 1989.

28 Id.

29 Id. 9

30 In cammino verso il capitolo generale straordinario La Vocazione dell’Ordine oggi, n° 17.