TESTIMONIANZA DALL’UGANDA
COME IL BUON PASTORE
Marvin Fuentes è un missionario comboniano, nativo del Costa
Rica, da anni impegnato nel disastrato
nord dell’Uganda. Per tre volte ha rischiato di essere ucciso. Tuttavia ha
deciso di rimanere, disposto anche a dare la vita, come il Buon Pastore, per il
suo gregge.
Questa drammatica testimonianza è stata scritta prima che nel nord dell’Uganda si profilassero le recenti iniziative di pace, che ci auguriamo possano finalmente, dopo 20 anni di guerra e di turbolenze, giungere a una conclusione positiva e definitiva, anche se in Africa è sempre tutto precario. La pubblichiamo, dopo aver parlato nel numero scorso di Testimoni di sr. Leonella, missionaria della Consolata, assassinata in Somalia il 17 settembre scorso, per tener viva l’attenzione sulle difficili e spesso pericolose situazioni in cui si svolge a tutt’oggi la missione ad gentes in diverse parti del mondo e portarla nel cuore. I missionari sanno molto bene che la loro vita può essere a rischio e l’hanno messo in conto fin dal giorno in cui sono partiti dal proprio paese di origine. Padre Fuentes è uno di questi.
«Da parecchi anni, l’intero nord Uganda è esposto agli attacchi dei ribelli dell’Esercito di Resistenza del Signore (LRA), dal momento che confina con il Sudan del sud, da dove questi operano. Un gran numero di persone sono state mutilate. Migliaia di bambini rapiti e interi villaggi completamente distrutti o ridotti in cenere. In modo particolare negli anni 2002-2003, quando l’esercito dell’Uganda ha ottenuto l’autorizzazione del governo sudanese di intevenire ed eliminare le basi dell’LRA.
Ne è seguita una rappresaglia da parte dei ribelli che ha inflitto un’immane sofferenza alla gente Acholi, nel nord dell’Uganda. Ragazzi tra i 9 e i 16 anni sono stati strappati alle loro famiglie e obbligati ad arruolarsi nel movimento dei ribelli. Chi ha tentato di resistere è stato battuto a morte sotto gli occhi degli altri ragazzi, allo scopo di creare un’atmosfera di panico e di terrore – una tattica per dissuaderli dal fuggire. A questi ragazzi, il tentativo di fuga poteva costare la vita.
Abbiamo visto con i nostri occhi le atrocità perpetrate dall’LRA qualcosa che va al di là di ogni immaginazione. Ho visto personalmente casi di ragazzi con gli orecchi mozzati, le labbra, le braccia e le dita tagliate, con il solo obiettivo di seminare terrore fra la gente. I villaggi all’interno della foresta, i piccoli centri commerciali, e anche le missioni cattoliche e gli stessi missionari, sono diventati un bersaglio ideale per le loro operazioni militari, a caccia di bambini da arruolare, di cibo e di bottino.
Vorrei condividere con i lettori il racconto di tre attacchi di cui sono stato testimone in tre mesi consecutivi, tra giugno e agosto 2002, in questa area sconvolta..
PICCHIATI
E MINACCIATI DI MORTE
All’inizio di giugno del 2002 sapevamo già della presenza di diversi gruppi di ribelli nelle aree circostanti, comandati dagli ufficiali maggiori dell’LRA. Circolavano voci anche della presenza di Joseph Kony, il capo supremo dei ribelli, che si mascherava indossando abiti da donna.
9 giugno 2002. La missione di Namokora, dove vivevo e lavoravo insieme ad un altro sacerdote, fu attaccata e saccheggiata due volte in un solo mese. Quella notte, andammo a dormire con grande paura, con la sensazione che avrebbe potuto succedere qualcosa.
Alle 2 di notte, un gruppo di circa 300 ribelli attaccò il piccolo centro commerciale di Namokora e contemporaneamente anche la missione. Sentendo il gran frastuono dei colpi contro le porte, la gente prese a fuggire verso la foresta, per mettersi in salvo. La robusta porta di ferro della missione fu colpita così violentemente con martelli e asce che crollò insieme all’intelaiatura e una parte del muro. Abbiamo avuto due minuti di tempo per vestirci e rifugiarci nella doccia, ma siamo stati scoperti e condotti col fucile puntato nella sala di soggiorno. Abbagliati da una torcia puntata sugli occhi non riuscivamo quasi a vedere dove mettevamo i piedi. Ci avvertirono che se avessimo tentato qualcosa, di mentire o di disobbedire ai loro ordini, potevamo essere uccisi sul posto. Ho pensato effettivamente di essere giunto alla fine dei miei giorni. Ho pregato fervidamente il Signore per la vita del mio confratello e per me stesso. Sapendo che i ribelli erano capaci di tutto, penso che il Signore ci abbia protetti. Quella notte, i ribelli portarono via la nostra radio trasmittente e alcuni pannelli solari. Io mi arrampicai sul tetto per prenderne alcuni e così impedire ai ribelli di vedere i restanti. Noi siamo stati risparmiati, ma quando abbiamo cercato di resistere nel consegnare loro la radio, siamo stati colpiti con asce e fucili. Molte altre persone, inclusi dei cristiani della parrocchia e del piccolo centro di Namokora, non hanno avuto la medesima nostra fortuna; alcuni sono stati catturati dai ribelli e quanti hanno tentato la fuga sono stati uccisi.
Dopo questo primo episodio, vivevamo continuamente nella paura. Per diversi anni avevo visto persone uccise, mutilate, ferite o picchiate brutalmente. Mi era sempre stato chiesto di portare i feriti all’ospedale e anche di effettuare le sepolture. Per due settimane abbiamo dormito in chiesa, per motivi di sicurezza. Quindi, abbiamo deciso di fare ritorno nella nostra missione sperando che i ribelli non ritornassero.
Ma dopo tre settimane, arrivò un altro gruppo. Era il 22 luglio 2002. La paura e la spaventosa esperienza vissuta quando ci eravamo rifugiati nella doccia durante il primo attacco mi convinsero questa volta di aprire loro la porta. Mi rivolsi loro in Acholi sperando di conquistare la loro fiducia, e spiegai che non eravamo armati, per paura che cominciassero a sparare.
Una volta dentro casa, minacciarono di uccidermi. Mi imposero di inginocchiarmi e di togliermi la camicia – un ordine a cui non obbedii. Mi sedetti invece su una sedia. Poi mi tolsero la camicia e mi perquisirono da cima a fondo, cercando di trovare delle armi. Spiegai loro di nuovo che ero un missionario e che non possedevo nulla del genere. Dopo di ciò, girarono per tutti vani della casa, rubando e portando via tutto quanto potevano. Anche il mio confratello alla fine fu trovato e intimidito. Questa volta non ci colpirono fisicamente, ma siamo stati maltrattati e umiliati.
PERICOLO
PERMANENTE
La missione nella quale io in realtà lavoro si chiama Omyanyima, e dista circa 20 km da Namokora. Nel mese di agosto, la nostra missione fu attaccata dai ribelli, assieme al centro commerciale del luogo, distante circa mezzo chilometro. Tutto è accaduto un sabato sera. Mi ero recato là per l’attività pastorale e per incontrare i catechisti della parrocchia. Poiché le strade erano pericolose, mi recai sul luogo in bicicletta e dormii là.
Alle 6 del pomeriggio un gruppo di circa 70 ribelli si scontrarono con un centinaio di soldati che erano là per presidiare la zona. Purtroppo questi avevano esaurito le munizioni, e così lasciarono il luogo e la gente in mano ai ribelli. Il centro fu completamente saccheggiato, i negozi distrutti e bruciati. Abbiamo contato 380 case ridotte in cenere e circa 30 persone uccise nello scontro fra soldati e ribelli. Per mettermi in salvo, mi sono rifugiato all’interno della chiesa e vi sono rimasto tutta la notte, nella speranza di non essere di nuovo trovato dai ribelli. Finito di saccheggiare il centro, essi vennero a fare lo stesso alla missione. Cominciarono con la casa dei padri e quindi la diedero alle fiamme. Ancora una volta il Signore mi ha protetto e aiutato.
In quei mesi le strade erano molto insicure, così che recarsi da Namokora a Kitgum (una distanza di circa 60 chilometri) era molto rischioso e difficile. Le imboscate alle macchine erano comuni – due o tre episodi lungo la medesima strada alla settimana. Le persone che circolavano in bicicletta venivano prese, picchiate e uccise e le loro biciclette distrutte. Coloro che si recavano nei campi a lavorare lo facevano a proprio rischio. Molto spesso venivano aggrediti e picchiati.
Alcune volte io stesso dovetti fermarmi e fare ritorno alla missione, avendo saputo che c’erano in giro dei ribelli. Più di una volta potei appena sfuggire: quando attaccarono io ero appena passato. Viaggiavamo sempre con molta paura di cadere nelle imboscate e di essere uccisi. Temevo per la mia vita ma, soprattutto, per coloro che viaggiavano con me. Ringrazio il Signore di non essere caduto in un’imboscata lungo la strada dal momento che la possibilità di uscirne vivi è molto scarsa.
AIUTO
RECIPROCO
Potreste domandarmi: perché ha deciso di rimanere, in circostanze così difficili? A dire il vero, per un certo tempo, mi era stato chiesto di lasciare la zona e la missione per recarmi da qualche parte per un po’ di riposo, in un posto più sicuro. Ma decisi di rimanere con la gente. Per loro noi siamo l’unico riferimento e l’unica speranza. In effetti, nei momenti difficili, nella zona e per le strade si vedono in giro solo i missionari. La gente sa di poter contare su di noi per un aiuto o una protezione, in tempo di bisogno. L’aiuto è reciproco, infatti quando le missioni sono state attaccate, è stata la gente a prendersi cura di noi e delle nostre necessità. La forza e il coraggio ricevuti dalla gente ci ha aiutato a rimanere e a essere pronti a soffrire insieme a loro. A differenza di noi, essi non hanno un posto dove fuggire e dove nascondersi, a parte la foresta, dove dormono per giorni e intere settimane, molti con bambini o neonati, con la paura di essere trovati e catturati dai ribelli.
Personalmente mi è stata di grande ispirazione la parabola del buon pastore – premuroso, vigilante e pronto a dare la vita per le sue pecore, specialmente quando il nemico (il lupo), tenta di strapparle o di ucciderle. Vorrei concludere dicendo: noi possiamo offrire loro speranza – quella che a nostra volta riceviamo dal Signore – ma, in contraccambio, noi riceviamo forza e coraggio da questa gente che aspetta tempi migliori, quando cioè potrà vivere in pace e sicurezza».
Marvin Fuentes
missionario comboniano
da World Mission 192 (2006) 31-33.