CONVEGNO DI BOSE

MISSIONI TRA ORIENTE E OCCIDENTE

 

Un recente convegno di Bose, dedicato alle missioni della chiesa russa, in un mondo segnato dall’indifferenza e dal conflitto tra opposti fondamentalismi, rilancia una evangelizzazione oltre ogni spirito di proselitismo delle chiese tra loro.

 

«Fino a poco tempo fa, la Chiesa ortodossa orientale era ritenuta in occidente una chiesa non missionaria», scriveva nel 1961 padre Alexander Schmemann in un articolo dal titolo significativo, L’imperativo missionario.

Il XIV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, tenutosi dal 14 al 20 settembre 2006 presso il monastero di Bose, organizzato con il patrocinio del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli e del Patriarcato di Mosca, ha in realtà messo in luce – sul piano ecclesiologico e storico – la vitalità e la forza creativa dell’esperienza missionaria della Chiesa russa, che nei mille anni della sua storia ha saputo annunciare il Vangelo negli immensi spazi del nord e della Siberia, fino al Giappone e all’Alaska: un’esperienza attualissima di ascolto della ricerca di Dio che abita ogni uomo e ogni cultura.

Al convegno, articolato in due sessioni, bizantina (Nicola Cabasilas e la divina liturgia) e russa (Le missioni della Chiesa ortodossa russa), hanno preso parte, accanto a specialisti di livello internazionale, metropoliti, vescovi e monaci delle Chiese ortodosse, della Chiesa cattolica e delle Chiese della Riforma.1 Il convenire stesso di cristiani d’oriente e d’occidente, in uno scambio fraterno su aspetti essenziali della vita spirituale cristiana, ha testimoniato la concreta possibilità di «far emergere i comuni valori di fede dell’oriente e dell’occidente, pur nella distinzione dei cammini di vita cristiana e dei differenti approcci all’unico Vangelo», auspicata da Benedetto XVI nel suo messaggio pervenuto per il tramite del segretario di stato card. Sodano.

 

COME E PERCHÉ

FARE MISSIONE

 

Il convegno si è aperto con una domanda. «Penso sia particolarmente attuale, ha detto nella prolusione il priore di Bose, Enzo Bianchi, questo nostro metterci in ascolto della vita missionaria della Chiesa ortodossa russa, in un tempo in cui la domanda di senso che abita l’uomo contemporaneo non può essere elusa dai cristiani. La difficoltà oggi non è solo come fare la missione, ma soprattutto perché fare la missione». Per la chiesa russa la risposta a questo interrogativo sta nella difficile ricerca di un equilibrio tra fedeltà alla tradizione e audacia evangelica di fronte alle nuove sfide. Se infatti nel XX secolo, come ha ricordato il patriarca di Mosca Alessio II nel messaggio augurale al convegno, «le feroci persecuzioni da parte del potere ateo sembravano aver reso impossibile testimoniare Cristo», il processo di rinascita spirituale, reso possibile agli anni ’90 proprio dal seme di cristianesimo di un’innumerevole schiera di martiri e confessori, pone compiti nuovi: «Innanzitutto emerge la necessità del dialogo con la società contemporanea… ma, al tempo stesso, di restare fedeli alla santa Scrittura e alla Tradizione della Chiesa».

La Federazione russa, con i suoi 143 milioni di abitanti, è infatti oggi un composito mosaico di etnie, credi e religioni, in cui, dopo la drammatica esperienza dell’ateismo di stato, la Chiesa ortodossa russa è divenuta un punto di riferimento per la ricostruzione morale del paese. È significativo che il X concilio mondiale del popolo russo (forum sociale e politico, presieduto dal patriarca Alessio e ideato nel 1993 dallo stesso patriarcato come strumento per il dialogo con la società civile, composto da rappresentanti di tutte le forze politiche, varie associazioni e religioni tradizionali, ortodossia, islam, giudaismo e buddismo), avesse quest’anno come tema: La fede, l’uomo, la terra. La missione della Russia nel XXI secolo (Mosca 4-6 aprile 2006).

L’assemblea ha elaborato e sottoscritto una Dichiarazione sui diritti e la dignità dell’uomo, proposta come declinazione specifica della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, in quanto tiene conto della peculiare civiltà russa e di una piattaforma etica espressamente ispirata ai valori religiosi.

In una società civile ancora debole, ideologicamente disorientata dopo la rapida disillusione verso le democrazie occidentali, e spesso attratta dal ritorno del mito autoritario, l’ortodossia rappresenta un ideale positivo per la ricostruzione di un’identità nazionale e culturale. Se tuttavia la percentuale di quanti si dichiarano ortodossi tocca il 70-80%, analisi sociologiche più dettagliate mostrano che solo il 10% crede alla risurrezione dei morti, e un numero ancora inferiore frequenta regolarmente la chiesa (2%).

Un’indagine del 2005, in parte presentata dall’arcivescovo Ioann di Belgorod, presidente del dipartimento missionario del Patriarcato di Mosca, rivela che se il 73,1% dei russi crede alla medicina tradizionale, solo il 12,1% crede alla seconda venuta di Cristo, mentre per la maggioranza (62%) la patria è un valore più sacro rispetto alla libertà della persona (25%).

Ecco perché oggi, secondo l’arcivescovo Ioann, uno dei compiti primari della missione della Chiesa ortodossa russa è «il lavoro missionario con coloro che cercano Dio, ma anche con coloro che, pur essendo già battezzati, non hanno ricevuto un adeguato insegnamento sui fondamenti della fede e della vita cristiana».

«La cultura laica contemporanea, ha proseguito l’arcivescovo Ioann, sempre più si orienta verso il neopaganesimo e, al tempo stesso, il grado di assimilazione dei valori portanti delle culture nazionali geneticamente legate all’ortodossia va diminuendo». È perciò essenziale saper attingere dal Vangelo la creatività necessaria a una nuova inculturazione.

 

SEGUENDO L’ESEMPIO

DEI SANTI MISSIONARI

 

L’identificazione tra ciò che è russo e ciò che è ortodosso, oggi volentieri propagandata dai mass-media in Russia, provoca simmetricamente il rigetto dell’ortodossia nelle popolazioni non russe delle repubbliche centro-asiatiche o siberiane, che dopo l’ateismo sovietico ritornano al paganesimo quale elemento fondante della cultura autoctona. Se tuttavia l’equazione tra stato russo e ortodossia da Pietro il Grande alla rivoluzione (un’ortodossia asservita allo stato), ha fatto sì che il cristianesimo fosse spesso poco più che uno strumento di colonizzazione, russificazione e sfruttamento degli immensi territori dell’Asia centrale, della Siberia settentrionale e centro-orientale, la storia dei santi missionari russi offre un modello alternativo di incontro dell’annuncio cristiano con popoli e culture diversi.

Il convegno di Bose ha permesso di conoscere meglio questa appassionante avventura del Vangelo, che giunge fino ai nostri giorni. È stata innanzitutto l’esperienza missionaria dei monaci, i primi evangelizzatori delle terre russe: nel XIV sec. Stefano di Perm’, missionario tra le popolazioni zyriane del nord, inventa un alfabeto, traduce la Bibbia e la liturgia nella lingua locale; tra il XVIII e il XIX sec. l’eremita German incarna l’ideale di Cristo presso gli indiani aleutini dell’Alaska, rispettandone le tradizioni culturali e difendendone coraggiosamente i diritti contro la violenza della colonizzazione commerciale e militare russa; lo stesso seppero fare il dotto archimandrita Makarij Glucharev, traducendo la Bibbia in lingua altaica per le tribù dell’Altaj e, contemporaneamente, portando a termine la prima traduzione della Scrittura dall’ebraico in russo, o il vescovo Nikolaj Kasatkin, fondatore della chiesa ortodossa del Giappone. Se gli indiani di Unalaska non hanno mai veduto il grano, il vescovo Innokentij Veniaminov traduce per loro la preghiera del Signore chiedendo al Padre di “darci il nostro pesce quotidiano”. L’archimandrita Spiridone, missionario in Siberia all’inizio del novecento, annotava nel suo diario la risposta di un lama: «Se i cristiani credessero e vivessero così come il Cristo ha insegnato, non sarebbe più necessario che predicassero, perché la realtà è più forte delle parole».

È stata proprio la coscienza evangelica di queste esperienze missionarie che ha preparato quel momento di svolta epocale che per la chiesa russa è stato il concilio di Mosca del 1917-1918, all’indomani del crollo dell’autocrazia e alla vigilia del tempo delle persecuzioni. A questo momento di svolta hanno fatto espressamente riferimento gli interventi della giornata conclusiva dell’incontro di Bose. «Oggi ci troviamo a uno spartiacque, all’inizio di una nuova epoca» ha detto p. Georgij KocËtkov, rettore dell’istituto ortodosso cristiano San Filaret di Mosca, citando poi le parole del metropolita Anthony (Bloom), recentemente scomparso: «Io ho incontrato Cristo, e da allora non ho che un desiderio: condividere con gli altri uomini questo miracolo … che io conosco Cristo, che egli è il mio Salvatore, è il tuo Salvatore, è il senso della tua vita così come è il senso della mia … Dobbiamo riscoprire il nostro essere missione in modo nuovo: non dobbiamo metterci nella condizione di insegnare agli altri uomini, ma noi stessi dobbiamo diventare altri, diventare uomini nuovi. Così che la gente, guardando a noi, si metta a domandare». In questo senso, secondo Nikita Struve, acquista tutto il suo valore anche la testimonianza della diaspora ortodossa in occidente: «La chiesa nell’emigrazione godeva di un privilegio unico dall’epoca dei primi cristiani: quello di una libertà quasi totale nei confronti di tutte le strutture statali… Questa chiesa doveva dare una testimonianza disinteressata, da cui avrebbero dovuto trarre profitto sia l’occidente sia la Russia del futuro».

In conclusione del convegno, si è delineata una convergenza ecumenica sul senso della missione in un mondo segnato dall’indifferenza e non di rado dal conflitto tra opposti fondamentalismi: una missione che sappia superare non solo ogni spirito di proselitismo delle chiese tra loro, ma anche quella competizione che non è evangelica, perché umilia e non riconosce la qualità ecclesiale di una chiesa sorella. E l’unico cammino, ha rilevato p. Emmanuel Clapsis, è quello di «una spiritualità che le chiese cristiane intendono incarnare nel mondo presente e che riflette l’opera dello Spirito santo in ogni aspetto dell’esistenza umana… non semplicemente la relazione dell’io interiore con Dio». Ma questo implica proprio l’incontro difficile con l’altro, e anzitutto con il fratello: «Amare l’altro nella sua irriducibile differenza, e condividere le risorse e il potere che regolano la vita personale e comune, è sempre un amore difficile». L’unico rimedio alla paura dell’alterità è «il potere dell’amore che lo Spirito Santo conferisce». Come ha sottolineato Enzo Bianchi nelle conclusioni, «solo se i cristiani saranno capaci di trovare autentiche vie di comunione tra di loro, potranno essere credibili anche nell’incontrare quanti vivono nell’indifferenza religiosa, o appartengono a tradizioni religiose diverse; solo ritrovando il primato dell’agape fraterna, i cristiani sapranno farsi conversazione e dialogo, sapranno scorgere nell’incontro con l’altro un’occasione per creare spazî di vita e di accoglienza per tutti gli uomini».

 

Adalberto Mainardi

monaco di Bose

 

1 Per la Chiesa Cattolica erano presenti il card. Silvestrini, e p. «ust del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, oltre a vari vescovi. Il Patriarcato di Costantinopoli era rappresentato dai metropoliti Gennadios d’Italia ed Emilianos di Silyvria e dal prof. Tachiaos, mentre la delegazione del Patriarcato di Mosca era guidata dall’arcivescovo Ioann di Belgorod. La Chiesa ortodossa di Grecia era rappresentata dal metropolita Ioannis di Thermopyli. Significative le delegazioni di altre componenti ortodosse (Antiochia, Serbia, Bulgaria, Romania, Armenia, Bielorussia, America e Giappone), della Chiesa d’Inghilterra e del Consiglio ecumenico delle Chiese di Ginevra. Numerosi monaci e monache da vari centri di spiritualità europei.