CONVEGNO DI CAPIAGO 20-26 AGOSTO 2006

PER UNA PASTORALE  RINNOVATA

 

Il tema del convegno di quest’anno: Per una pastorale rinnovata. La citazione del testo giovanneo: “È lo Spirito che da vita” (Gv 6,63) indicava chiaramente il punto di partenza e il presupposto indispensabile per un autentico rinnovamento dell’azione pastorale.

 

Ormai da alcuni anni il convegno di Capiago (Como) è divenuto un appuntamento estivo tradizionale di incontro, riflessione e preghiera. È il frutto fecondo di una collaborazione tra la comunità dehoniana e il Centro Aletti diretto dal P.M.I. Rupnik s.j. Con l’andare del tempo il convegno si è arricchito di numerose presenze laicali, religiose e presbiterali, segno evidente che le tematiche affrontate insieme al metodo utilizzato per l’approfondimento, coinvolgono la comunità cristiana nella sua totalità e costituiscono un reale ed efficace contributo per un rinnovamento della vita spirituale dei singoli e di conseguenza delle nostre comunità cristiane.

Il percorso di questi anni, infatti, si innesta molto bene in quell’orizzonte teologico delineato prima dal magistero di Giovanni Paolo II° e ora riproposto con determinazione da Benedetto XVI: la nuova evangelizzazione, o la rievangelizzazione dei battezzati non può che ripartire da una rinnovata esperienza di fede dei singoli credenti, da un’adesione a Cristo e alla sua parola che inevitabilmente determina anche un rinnovamento dei contenuti e della modalità di annuncio del vangelo. La prospettiva con la quale, all’interno del convegno, si lavora è dunque sempre positiva, nella consapevolezza che il tempo nel quale siamo situati è sempre un tempo di grazia, un tempo provvidenziale, nel quale ci è chiesto di rendere ragione della speranza che è in noi.

 

IL RECUPERO

DI UNA TEOLOGIA “MISTERICA”

 

Per una pastorale rinnovata era il tema del convegno di quest’anno. La citazione del testo giovanneo: “È lo Spirito che dà vita” (Gv 6,63) indicava chiaramente il punto di partenza e il presupposto indispensabile per un autentico rinnovamento dell’azione pastorale. L’annuncio cristiano così come emerge dall’esperienza delle prime comunità cristiane degli Atti degli Apostoli è opera di Dio, è il suo Spirito che opera all’interno della Chiesa e dei singoli battezzati. La teologia e il pensare teologico non possono e non devono dimenticare questa fondamentale verità. Il teologo parla di Dio in quanto Dio gli parla. La relazione introduttiva di M.I. Rupnik ha evidenziato le difficoltà attuali di questo parlare di Dio, in un contesto post-moderno, ormai altamente refrattario a quei sistemi razionali dai quali la modernità nei secoli scorsi aveva abbondantemente attinto. Lo scollamento tra contenuti della fede e linguaggio è una delle sfide che è necessario cogliere nel contesto attuale. La teologia nell’epoca della modernità aveva mutuato, spesso, dal contesto filosofico-razionale il suo argomentare, portando con sé l’insidia, più volte compiuta, di rendere il discorso circa i misteri della fede distante e incomprensibile ai più.

Da dove ripartire? Occorre recuperare dal grande tesoro della Tradizione quel linguaggio simbolico che attinge alla ricchezza del mistero vissuto e celebrato nella Chiesa. L’educazione alla fede ha una fondamentale direttrice che è la “mistagogia”, intesa nel suo duplice significato: «azione mediante la quale siamo condotti nel Mistero» e al tempo stesso «azione con la quale il Mistero ci conduce» (J.Corbon). La liturgia con i suoi simboli diviene il luogo privilegiato di questa formazione alla fede adulta.

 

IL SACRAMENTO DELLA NASCITA

IL BATTESIMO

 

In questo contesto “mistagogico”, il punto di partenza non può che essere quello del sacramento della nascita, il battesimo, che contiene in sé il fondamento e la grazia di quel percorso che rende il battezzato consapevole della salvezza realizzata da Cristo. La relazione “corposa” di Maria Campetelli, attraverso un’indagine rigorosa e puntuale dei testi liturgici della Tradizione latina e bizantina ha evidenziato i contenuti e anche le modalità attraverso le quali la Chiesa antica aveva pensato e proposto un itinerario di fede per i catecumeni. Da quest’analisi emerge un primo risultato significativo: la centralità del sacramento del battesimo nella vita della Chiesa, da sempre inserito e unito alla celebrazione della Pasqua. Questa centralità del sacramento nel contesto della vita liturgica della comunità cristiana, rivela che il rito del battesimo non può essere vissuto primariamente come un evento privato, ma come luogo privilegiato di educazione alla fede dell’intera comunità. Il rito, infatti, rivela e compie quello che la Chiesa crede che accada attraverso il suo realizzarsi: accade qualcosa, in quanto il rito è epifanico, segno e significato vengono, in tal modo, a coincidere.

Questa consapevolezza ha articolato il percorso attraverso il quale il catecumeno giungeva alla celebrazione di questo evento. La lunga e intensa preparazione alla quale il catecumeno era sottoposto, in special modo nel periodo della quaresima, obbediva a quella tensione tra preparazione e compimento che è un elemento permanente della comunicazione della fede. I singoli momenti del rito nel loro susseguirsi esprimono, pertanto, delle coordinate essenziali della vita spirituale, una dinamica verso una piena maturità di fede. I momenti salienti del rito, come l’iscrizione nel registro dei catecumeni dopo un attento esame (prima domenica di quaresima), il rito dell’esorcismo compiuto dal vescovo con l’imposizione della mano sul catecumeno, a indicare la protezione della Chiesa per il successivo cammino e combattimento, la rinuncia a Satana, l’adesione a Cristo, la confessione di fede (redditio symboli) che culminava nell’unzione e spogliazione del catecumeno e infine nell’immersione nel fonte battesimale, sono elementi essenziali di un percorso spirituale drammatico, di una lotta appunto, nella quale il catecumeno sottratto al dominio del peccato e del diavolo e posto sotto la protezione del vescovo, entrava pienamente nella signoria di Cristo, dopo aver rinunciato a quel mondo di tenebra e aver personalmente aderito a Cristo: la conoscenza su Cristo diveniva conoscenza di Cristo. Il fonte battesimale diviene così contemporaneamente sia il luogo di una nuova nascita (seno materno) sia il luogo di una morte/resurrezione (costato di Cristo/sepolcro).

Questo modo di procedere nell’iniziazione alla fede della Chiesa antica, mostra chiaramente che il modo attraverso il quale si sviluppa il cammino nasce all’interno della fede stessa, esattamente dalla celebrazione del mistero, dalla liturgia celebrata e vissuta dalla Chiesa. La liturgia e il simbolo sono il luogo dove il credente attinge la propria identità e comprende gli elementi essenziali di un percorso che lo porterà a vivere pienamente ciò che nel rito è già stato donato e si è già compiuto.

 

LA SALVEZZA

COME DIVINIZZAZIONE

 

In questo contesto liturgico e spirituale, si avverte la necessità di ripensare in modo più tradizionale anche il discorso sulla grazia che è intimamente legata al sacramento. In altre parole il dono del battesimo comunica la grazia di Dio e consente al battezzato di crescere dinamicamente verso una piena maturità. L’intervento di Michelina Tenace ha sviluppato questa spinosa questione della grazia che nel dibattito teologico, ormai secolare, ha determinato non poche incomprensioni e fraintendimenti.

L’espressione “grazia” è termine teologico e ciò significa che va compreso all’interno del mistero della divino-umanità di Cristo (Incarnazione) e della Trinità. Questa collocazione permette di impostare il discorso sulla grazia in termini relazionali, cioè la grazia non è solo il dono che si riceve, ma il dono della persona. Quando Dio si rivela dona se stesso come Amore-Trinità, quell’amore che è appunto la sua stessa vita. La grazia è dunque l’amore di Dio creativo che trasforma l’uomo.

Qual è l’antropologia che meglio si conforma a questa azione trasformante di Dio che è la sua grazia-amore? Nella riflessione dei Padri il termine privilegiato, anche se non unico, è quello della divinizzazione. Questa espressione deve essere precisata, per non cadere in pericolosi equivoci. La divinizzazione parte dal presupposto fondamentale che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio e che nell’atto di fede noi diciamo di credere in Dio Padre. La conseguenza è che la mia fede non può che essere un atto di adesione filiale, io credo in Dio-Padre e ciò mi rivela che il mio rapporto con Dio è una relazione filiale. Nel Figlio incarnato contemplo come sono chiamato a vivere questo rapporto, vedo in lui la mia vocazione: si nasce figlio per divenire figlio. Si può dunque precisare meglio che il discorso sulla divinizzazione viene a coincidere con quello della filiazione: nell’essere sono figlio (immagine), nell’agire lo divento (somiglianza). I due termini immagine e somiglianza indicano, pertanto, la sinergia che si sviluppa all’interno di una relazione trasfigurante: l’uomo è immagine e con la sua collaborazione diviene sempre più somigliante al Figlio. Questo cammino, evidentemente non è automatico, anzi presuppone la libertà che è resa possibile dalla kenosi dello Spirito. Con questa espressione si vuol affermare che anche quando l’uomo non asseconda l’azione dello Spirito donato, egli rimane, pur nascosto nel cuore dell’uomo: l’uomo rimane immagine di Dio, anche se non viene sviluppata la sua conformazione (somiglianza) a Cristo.

Una simile impostazione permette di sganciare il discorso della grazia da una considerazione oggettivante e di comprenderla all’interno di un cammino relazionale che rende l’uomo sempre più simile al Figlio. Nella tradizione orientale, infatti, i santi sono chiamati i “simili” e la Madre di Dio “similissima”. Nell’uomo che vive vitalmente questa relazione si manifesta “lo splendore di Dio”.

 

CREATIVITÀ PASTORALE

SPUNTI PER IL RINNOVAMENTO

 

Le premesse teologiche hanno delle inevitabili conseguenze per la formazione di una mentalità pastorale: occorre fuggire dalla tentazione di essere immediatamente operativi, l’agire pastorale, infatti, presuppone l’acquisizione di una mentalità e uno stile di vita autenticamente spirituale. La relazione conclusiva di p. Rupnik ha offerto alcuni spunti per la formazione di questa mentalità :

Se il punto di partenza è il mistero così come ci viene presentato e vissuto nella liturgia, è chiaro che s’impone per il credente una vita spirituale autentica che è la conseguenza della presenza e dell’azione dello Spirito nel cuore del battezzato. L’apostolo Paolo parla esplicitamente di questa dimensione spirituale (cf. 1Cor 2) che rimane inaccessibile all’uomo naturale il quale considera follia queste cose: è necessaria questa docilità allo Spirito per essere spirituali e per acquisire un linguaggio spirituale. Lo Spirito rende vitalmente comprensibile la Pasqua di Cristo come via per la piena maturità spirituale e ci aiuta a esprimerla in termini spirituali.

È necessario mantenere aperta una finestra sul mondo contemporaneo. Questa conoscenza ha una via privilegiata: il nostro cuore. Più che i mass-media, è l’ascolto del nostro cuore che ci aiuta a comprendere le grandi speranze insieme alle questioni più rilevanti e spinose che attraversano l’uomo contemporaneo e quindi ciascuno di noi.

Non siamo soli: il cammino di fede è sì ascolto del nostro cuore, ma allo stesso tempo è discernimento. L’incontro e il colloquio con il padre spirituale insieme all’accoglienza di quanto il papa offre alla Chiesa nella sua catechesi sono luoghi privilegiati di questo discernimento.

È necessario “formare” i credenti non cadendo nell’illusione di essere falsamente emancipati perché in Chiesa si parla più di quello che accade fuori che di quello di cui hanno bisogno realmente coloro che in chiesa sono rimasti. Spesso la predicazione rischia di essere annuncio per coloro che non frequentano che formazione di coloro che da sempre sono rimasti in un contesto ecclesiale.

Occorre congedarsi definitivamente da una mentalità che ritiene sia sufficiente un incontro, una conferenza o il successo di una iniziativa per formare uno stile di vita. I valori vitali sono quelli che sostengono lo stile di vita: come uno impiega il suo tempo libero, le vacanze, le mode. Questi aspetti sono indicatori importanti per verificare l’adesione a Cristo.

L’operare della Chiesa deve essere orientato alla maturazione del battezzato e questa maturazione avviene nella liturgia, dove in modo eminente lo Spirito Santo è l’unico protagonista. L’evangelizzatore è uno che accompagna e “assiste” l’opera dello Spirito.

La presenza e la frequentazione dei santi consente di dare “carne” alla teologia, nutre e alimenta l’immaginazione spirituale, che non è romanticismo né idealismo, ma testimonianza del potere trasformante della grazia sull’umanità concreta. Abbiamo bisogno di “vedere” il modello.

L’azione pastorale non pretende di abbracciare tutto e di dire tutto, occorre privilegiare quei contenuti che toccano i temi della paura della morte, della ribellione verso la morte e della realtà della risurrezione della carne: il passaggio da un corpo mortale al corpo di Cristo risorto.

Misurare le forze: molte cose possono essere abbandonate anche oggi, e concentrarsi su ciò che è specifico e insostituibile del proprio ministero sacerdotale e religioso. Alcune modalità che oggi assorbono tanto tempo e energie, devono lasciare il posto a un modello che realmente consente di evangelizzare.

 

Questi punti insieme ad altri possono offrire un sottofondo teologico e spirituale per incominciare a riorientare il nostro cammino personale di fede e di conseguenza riscoprire nuove e antiche vie di annuncio ed evangelizzazione.

 

don Giacomo Morandi