ECHI DAL CONVEGNO DI VERONA

SPERANZA COME “STILE VIRTUOSO”

 

Nella prolusione il card. Tettamanzi ha parlato della speranza come “stile virtuoso” che si collega con lo stile del Vaticano II, improntato all’ottimismo. Si tratta di una speranza che non è un semplice sogno, un’utopia o anche una semplice promessa, ma una realtà che pervade tutto il nostro tessuto ecclesiale.

 

Un convegno nell’orizzonte della speranza: è stata questa la collocazione entro cui ha voluto porsi il quarto convegno ecclesiale nazionale della Chiesa italiana che ha avuto luogo a Verona dal 16 al 20 ottobre, sul tema Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo. E non poteva esserci luogo più appropriato, per questo convenire di tutte le espressioni della chiesa italiana, dell’Arena che nella sua austera circolarità sembrava voler stringere i rappresentanti delle 226 diocesi, presenti nella varietà e molteplicità delle loro vocazioni, in un unico grande abbraccio fraterno di comunione, quale espressione di una Chiesa che esprime all’unisono la sua professione di fede e di speranza, fondata su Cristo risorto. Nella solenne scenografia allestita dagli organizzatori, un significato tutto particolare assumeva l’esposizione di 226 immagini di santi, una per diocesi, che riassumono nei secoli la storia della fede in Italia, quale rinnovato annuncio di quella speranza di cui essi sono stati e continuano ad essere i testimoni privilegiati.

Rinviando a un numero successivo della nostra rivista una panoramica più completa delle intense giornate del convegno, qui vogliamo riferirci soprattutto alla prolusione del cardinale Dionigi Tettamanzi, per mettere in risalto le grandi linee che hanno fatto da guida ai lavori.1

Collegandosi col primo convegno di Roma del 1976, egli ha indicato quale punto di riferimento l’intenzione originaria di quella riunione, ossia tradurre il concilio in italiano, tenendo evidentemente conto dell’accresciuta ricchezza ecclesiale e della modificata situazione sociale-culturale-ecclesiale del periodo successivo. Riferendosi all’argomento dell’attuale convegno, ha detto: «Parliamo non solo “di” speranza, ma anche e innanzitutto “con” speranza. È la speranza come “stile virtuoso” – come anima, clima interiore, spirito profondo – prima ancora che come contenuto». In effetti, ha sottolineato, «è proprio questo lo stile del Vaticano II». Come affermava Paolo VI nell’omelia di chiusura del concilio: «Invece di deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi; invece di funesti presagi, messaggi di fiducia sono partiti dal concilio verso il mondo contemporaneo: i suoi valori sono stati non solo rispettati, ma onorati, i suoi sforzi sostenuti, le sue aspirazioni purificate e benedette».

Una speranza che non è un semplice sogno, un’utopia, ma una realtà che pervade il nostro tessuto ecclesiale. Infatti, ha sottolineato il card. Tettamanzi, «chi ha occhi e cuore evangelici vede e gode del numero incalcolabile di semi e germi e frutti e opere concrete di speranza che sono in atto nei più diversi ambiti delle nostre Chiese e nella nostra società. Ci sono tantissime persone e gruppi che continuano a scrivere “il Vangelo della speranza” nelle realtà e nelle vicende più disagiate e sofferte della vita quotidiana. Possiamo allora applicare qui quanto leggiamo nell’esortazione Christifideles laici: “Agli occhi illuminati dalla fede si spalanca uno scenario meraviglioso: quello di tantissimi laici, uomini e donne, che proprio nella vita e nelle attività d’ogni giorno, spesso inosservati o addirittura incompresi, sconosciuti ai grandi della terra ma guardati con amore dal Padre, sono gli operai instancabili che lavorano nella vigna del Signore, sono gli artefici umili e grandi – certo per la potenza della grazia di Dio – della crescita del regno di Dio nella storia”» (n. 17).

 

CHIESA E SUA MISSIONE

EVANGELIZZATRICE

 

Per avere una coscienza chiara delle sfide che oggi la nostra Chiesa italiana deve affrontare era necessario, ha affermato il cardinale, rivisitare alcuni cammini ecclesiali che si stanno facendo e porsi di fronte ad essi con il nostro essere “testimoni di Gesù Risorto speranza del mondo”. Ne ha indicati tre in particolare.

Il primo cammino, ha detto, «è quello di una maturazione sempre più chiara e forte della coscienza della Chiesa circa la sua missione evangelizzatrice». Si tratta, ha precisato, di «una misione che sta vivendo una stagione di singolare urgenza e indizionabilità», soprattutto se si tiene presente la “distanza” che nel nostro contesto socio-culturale e insieme ecclesiale esiste tra la fede cristiana e la mentalità moderna… Se così, non è allora esagerato dire che l’evangelizzazione e la fede si ripropongono oggi con singolare acutezza come il “caso serio” della Chiesa».

Per rispondere a questa sfida « l’appello del convegno è di tornare e ritornare senza sosta, con lucidità e coraggio, a interrogarci – per agire di conseguenza – su: chi è la speranza cristiana? quali sono i suoi tratti qualificanti? come essa incrocia l’uomo concreto d’oggi nei suoi problemi e nelle sue attese?».

Un secondo cammino in atto nelle nostre Chiese è quello di una maturazione della coscienza e della prassi della comunione ecclesiale: «È il frutto e il segno dell’ecclesiologia di comunione donataci dal concilio e vissuta nel periodo successivo, eco viva e sviluppo concreto dell’antica parola di san Cipriano: la Chiesa è come “un popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”».

Questa maturazione deve oggi affrontare nuove sfide «perché la testimonianza dei cristiani si situa all’interno di un mondo e di una società gravati da molteplici tensioni, contrapposizioni, divisioni, conflitti, solitudini immense e angosce profonde, ecc.; ma anche all’interno delle stesse comunità e realtà ecclesiali che non poche volte faticano o rinunciano a “camminare insieme”, non conoscono la “sinodalità”: non certo come parola, ma come esperienza di vita e di partecipazione ecclesiale. Senza dire, in positivo, che oggi si danno opportunità inedite e urgenze più forti per vivere una comunione ecclesiale più ampia, più intensa, più responsabile e, proprio per questo, più missionaria.

E la risposta alle sfide passa, ancora una volta, attraverso il ricupero e il rilancio della fede professata-celebrata-vissuta, di una fede che genera e corrobora la speranza cristiana…».

Il cardinale si è diffuso a lungo a descrivere il compito che spetta alla nostra Chiesa chiamata a rielaborare e rivivere il tessuto dei profondi legami che intercorrono tra la varietà e l’unità della e nella Chiesa, tra la sua unità e universalità, tutto come riflesso luminoso del mistero dell’infinita ricchezza di Cristo e del suo Spirito. Nasce da questa universalità la missio ad gentes e da qui vengono anche la grazia e la responsabilità di una nuova visione e realizzazione della mondialità e della grande questione della giustizia e della pace.

 

COMUNIONE

MISSIONARIA

 

Un altro punto riguarda la Chiesa in quanto «comunione nella varietà per l’unità e l’universalità in più diretto riferimento alle persone che della Chiesa sono “le pietre vive”: alle persone nella concretezza del loro stato e condizione di vita, di vocazioni, di doni e compiti, di ministeri, ecc. è l’unico popolo di Dio nella sua eccezionale varietà. Sono tutti i Christifideles. Sono i presbiteri e i diaconi, le persone consacrate, i laici.

Se si vuole essere oggi testimoni di Cristo, è necessaria perciò una comunione missionaria tra le diverse categorie di fedeli più compattata e dinamica, più libera e insieme strutturata, più convinta e convincente, più visibile e credibile. Non si dà testimonianza cristiana al di fuori o contro la comunione ecclesiale! È una comunione che fiorisce e fruttifica sempre e solo come triade indivisa e indivisibile di comunione-collaborazione-corresponsabilità, tenendo naturalmente conto della specificità dei vari stati di vita, vocazioni e missioni nella Chiesa.

 

COINVOLGIMENTO

DEI LAICI

 

Un’importanza tutta particolare assume nell’ambito di questo discorso il problema del coinvolgimento dei laici nella missione della Chiesa. «Il nostro convegno, ha sottolineato il card. Tettamanzi, «è chiamato qui a dire una parola, molto attesa e doverosa, sui Christifidels laici, sui laici e sul laicato. Occorrerebbe, forse, un’intera prolusione ad hoc… Inizio con una parola che è di quasi vent’anni fa: è venuta l’ora nella quale «la splendida “teoria” sul laicato espressa dal Concilio possa diventare un’autentica “prassi” ecclesiale» (Christifidels laici, 2). E l’ora è aperta, conserva tutta la sua urgenza, ma va accelerata nel senso di coglierne l’intera ricchezza di grazia e di responsabilità per la missione evangelizzatrice della Chiesa e per il servizio al bene comune della società, in una parola per la testimonianza cristiana e umana nell’attuale situazione del mondo».

Ma, oltre al riconoscimento della responsabilità, ha aggiunto, «è necessario un rinnovato impegno delle nostre Chiese e realtà ecclesiali per sviluppare una più ampia e profonda opera formativa dei laici. Inoltre, «in questa prospettiva si fa logico e straordinariamente bello, confortante, stimolante ricordare a tutti i laici che nella Chiesa identica è la missione evangelizzatrice e ancor più la vocazione alla santità, alla “misura alta” della vita cristiana ordinaria (cf. Novo millennio ineunte, 31). Ciò vale per tutti, anche per i politici cristiani. Mi rimangono indimenticabili le parole di Paolo VI: “La politica è una maniera esigente – ma non la sola – di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri”». (Octogesima adveniens, 46).

Un altro spunto di riflessione, offerto dal cardinale, riguarda la comunione ecclesiale nel suo rapporto con la speranza cristiana. Questa, ha affermato, tocca sì l’individuo e le sue personali attese, ma coinvolge anche le comunità nelle loro aspettative. Sappiamo infatti che la Chiesa stessa si configura come “popolo pellegrinante” verso la comunione piena e definitiva con Dio. E i contenuti tipici della fede cristiana, quelli in particolare, della risurrezione di Gesù crocifisso, la vita eterna e la beatitudine, offrendo una intelligenza nuova e un vissuto nuovo ai membri della comunità cristiana, non possono non ripercuotersi sulla comunione ecclesiale, nel suo dinamismo operativo e nelle sue caratteristiche: è una comunione ecclesiale segnata dalla speranza, dono dello Spirito di Cristo.

Il terzo cammino riguarda la testimonianza di tutti i cristiani e di ogni giorno. Essa deve raggiungere cioè il vissuto e trovare nella cultura lo strumento e la forza di “aprirsi” e dialogare con i linguaggi e le esperienze della vita dell’uomo d’oggi. La cultura, ha spiegato il cardinale deve essere intesa «come capacità della Chiesa di offrire agli uomini e alle donne di oggi un orizzonte di senso, di essere con la stessa esistenza un punto di riferimento credibile per chi cerca una risposta alle esigenze complesse e multiformi che segnano la vita».

 

NEL VISSUTO

QUOTIDIANO

 

In secondo luogo, la testimonianza deve puntare «come a suo specifico sul vissuto, sul vissuto esistenziale, quello “concreto” nel senso di una fitta serie di elementi che “crescono insieme” alla e nella persona, alla e nella comunità, quindi nel senso fondamentale della relazione interpersonale e sociale dentro le vicende e situazioni storiche e i più diversi ambiti di vita.… Essa perciò fa un tutt’uno con la vita quotidiana dell’uomo: il vissuto umano è lo spazio storico e insieme la forma necessaria della testimonianza».

Ma, si è chiesto il cardinale, qual è la forma specifica della testimonianza e più precisamente della testimonianza cristiana? A partire dalla necessaria coerenza di vita, «la prima, necessaria, irrinunciabile, possibile e doverosa testimonianza al Vangelo, ha precisato, è la vita di ogni giorno, una vita nella quale “seguiamo Cristo”, ci “rivestiamo” di lui, siamo mossi dalla sua carità, ascoltiamo la sua parola, obbediamo alla sua legge, entriamo in comunione di vita con lui, diventiamo suoi “amici”, ci lasciamo animare e guidare dal suo Spirito. In una parola, viviamo nella grazia di Dio e camminiamo verso la santità».

Si potrebbe poi aggiungere, ha detto che «testimone è chi vive nella logica delle beatitudini evangeliche, e questo in ogni situazione, anche la più complessa e difficile e inedita; a qualsiasi costo, anche nella rinuncia e nel massimo coraggio, anche di venire incompreso, irriso, emarginato e rifiutato; anche a prezzo del martirio…».

E perché, ha aggiunto, non rilanciare una rinnovata “spiritualità della gioia cristiana”, l’unica capace di scuotere un mondo annoiato e distratto?».

Ha quindi concluso con una celebre citazione ricavata dalla Lettera agli Efesini di sant’Ignazio di Antiochia: «Quelli che fanno professione di appartenere a Cristo si riconosceranno dalle loro opere. Ora non si tratta di fare una professione di fede a parole, ma di perseverare nella pratica della fede sino alla fine. È meglio essere cristiano senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo».

 

A. D.

1 La ragione è dovuta al fatto che mentre scriviamo il Convegno è ancora in fase di svolgimento.