QUALE FUTURO PER GLI ISTITUTI MISSIONARI?

UN TEMPO DI TRANSIZIONE

 

La missione sta attraversando un’epoca di radicale transizione, ma continuiamo a vivere come se questa non ci riguardasse. Ma è un errore. È importante piuttosto capire quali sono questi processi di transizione, dove ci condurranno e i compiti che siamo chiamati a svolgere.

 

È diventato abituale affermare che il passaggio del secolo che stiamo vivendo rimarrà nella storia come un’era di grandi transizioni, di cambiamenti epocali, tanto a livello di Chiesa come di società. Naturalmente, non tutti abbiamo la stessa percezione dei cambiamenti in corso, del loro significato e delle loro conseguenze. A

quanto pare, le transizioni che si sono verificate nella società,

soprattutto nel nord, sono comprese più facilmente. Ma per ciò che si riferisce ai cambiamenti nella Chiesa, le percezioni sono più diffuse: si trova qualche difficoltà nel comprendere la totalità dei processi di cambiamento. Abbiamo la nozione delle situazioni che si alterano, ma non si ha la percezione chiara della direzione verso la quale si va. È per questo che nella Chiesa in generale, e negli istituti missionari in modo particolare, proviamo di fatto una certa riluttanza nell’inserirci nei processi di transizione, nonostante se ne parli con frequenza.

Continuiamo la nostra vita individuale e istituzionale come se le transizioni non stessero verificandosi o non ci riguardassero. Per questo, da una parte può sembrare scontato parlare di transizioni in corso nella Chiesa, nel senso che tutti ne abbiamo conoscenza... Ma, d’altra parte, il compito di riflettere su di esse non è terminato. Bisogna soprattutto continuare a tentare di capire dove questi processi di transizione ci condurranno e quale parte siamo chiamati a svolgere, come individui e come istituti. È in questo senso che mi propongo qui di riflettere sul tema Missione in tempo di transizione, con l’obiettivo di rivisitare i processi di transizione ecclesiale in corso che più riguardano la missione, e tentare di capire quale sarà il futuro degli istituti missionari ad gentes alla luce di questi processi.

 

TRANSIZIONE

CONCETTUALE

 

La prima grande transizione che caratterizza la missione oggi, è una transizione nei concetti, una nuova maniera di parlarne, che frattanto è sorta nella Chiesa e per la quale i missionari non erano certamente preparati. Il sorgere di una maniera nuova di parlare e di riflettere sull’evangelizzazione, sulla missione della Chiesa oggi, li ha colti di sorpresa. La transizione alla quale mi riferisco è quella concettuale portata dalla nuova evangelizzazione: un concetto e una pratica introdotti da Giovanni Paolo II. I missionari hanno cercato inizialmente di smarcarsi, di definire meglio i concetti, di rivendicare come propri e specifici i concetti e la pratica della prima evangelizzazione, la missione con la lettera maiuscola. Ma, nonostante il chiarimento, il fatto è che la proposta di Giovanni Paolo II ha avuto successo, ha dimostrato potere di attrazione e di ispirazione, ha messo radici e conquistato seguaci, ha catalizzato i fermenti di evangelizzazione in seno alle chiese locali e si sta imponendo come visione della missione della Chiesa del nostro tempo. Il merito della proposta del papa pare essere stato duplice. Da un lato, egli ha proposto qualcosa di nuovo, in termini di visione teologica e di metodologia, per rilanciare la missione della Chiesa. D’altra parte, e di fatto, ha anticipato i problemi dell’evangelizzazione con i quali si stanno confrontando le chiese locali, in particolare quelle del nord, e ha suggerito loro una risposta. I missionari, che erano i proponenti abituali di una visione teologica della missione, non si sono accorti per tempo che la visione e la proposta che tradizionalmente offrivano correva il rischio di non catalizzare sufficientemente i fermenti di novità che il concilio Vaticano II ha risvegliato nella Chiesa. E, soprattutto, i missionari non hanno anticipato la crisi delle chiese locali del nord e non hanno saputo prevedere in tempo le conseguenze di questa crisi per il concetto e la pratica della missione. Non hanno dato risposta alla decadenza della vita cristiana nelle società del nord e alla sfida, inevitabile, dell’evangelizzazione delle società emergenti, continuando a pensare e a realizzare una missione dal nord al sud, assumendo l’evangelizzazione del nord come dato di fatto, o lasciando questa sfida come responsabilità meramente pastorale delle chiese locali.

I missionari hanno riflettuto e cercato di dare una risposta alla sfida dell’evangelizzazione delle masse di emigranti provenienti dal sud, che frattanto si sono fissati in Europa. Ma non hanno affrontato i problemi dell’evangelizzazione del nord come tale. La proposta del papa, con un appello e una mistica nuovi, ha dato risposta alle ansie delle chiese locali e ha mobilitato le potenzialità dei movimenti e delle nuove comunità. I missionari ad gentes non hanno neppure anticipato il processo di implosione delle chiese locali del sud. Sensibili alla crescita delle chiese verso l’esterno e alla presenza del Vangelo nei processi di trasformazione sociale, i missionari non hanno previsto un certo crollo che sta interessando dal di dentro le chiese del sud, tanto dell’Africa come delle Americhe.

La proposta del Papa ha dato risposta a questa situazione, corrispondendo alle ansie sentite nelle chiese di questi continenti di una maggior qualità di vita cristiana e di nuovi modelli di presenza cristiana nella società. La proposta del papa ha articolato la necessità di una rievangelizzazione, anche al sud, avendo come protagoniste le stesse chiese locali del sud. Per ultimo, la proposta di nuova evangelizzazione è venuta ad anticipare e rispondere al nuovo contesto creato dalla globalizzazione. Il discorso di una missione di matrice geografica o altra, è sorpassato dalla globalizzazione. La missione cristiana oggi nel mondo è globale, come globali sono le società dove la chiesa vive. Il linguaggio e la pratica della nuova evangelizzazione sono venute a corrispondere in modo più adeguato a questa situazione venutasi a creare con la globalizzazione.

 

PASSAGGIO DELLA MISSIONE

ALLA CHIESA LOCALE

 

La seconda grande transizione, che è necessario registrare, è stata il passaggio della missione alle chiese locali. Più che passaggio, è stato un ritorno alle chiese locali, dopo secoli nelle mani dei pontefici, che l’affidavano ai vari istituti religiosi e missionari ad gentes, secondo la strategia centralizzata e pianificata a partire da Roma. Nell’anno in cui scrivo questo testo (2006) ricorrono i 50 anni dell’enciclica Fidei donum di Pio XII. Non mancheranno, da parte dei missionari Fidei donum iniziative per commemorare l’enciclica e per mostrare la sua importanza per la storia missionaria della seconda metà del secolo XX. Non sarà esagerato dire che l’aspetto più profetico è stato il fatto che l’enciclica fu il primo passo significativo di un processo di ritorno della missione alle chiese locali, a cominciare dal loro clero.

Questo processo di ritorno della missione alle chiese locali si accelerò con il concilio Vaticano II, che lo consacrò. E le chiese locali, tanto nel nord come nel sud, hanno sviluppato una coscienza missionaria. Esse si sono organizzate, hanno creato i loro segretariati missionari, hanno suscitato dinamiche di animazione missionaria, hanno promosso iniziative di condivisione con le altre chiese. In alcune diocesi e conferenze episcopali l’organizzazione è diventata così capillare, che non ha lasciato spazio agli istituti. In alcuni casi, questi sono stati perfino considerati superflui e come se avessero già terminato la loro missione storica che erano stati chiamati a esercitare nel passato. In questo passaggio, il fatto significativo che più importa sottolineare, oltre alle iniziative, è il sorgere di questa nuova coscienza missionaria e il senso di responsabilità nelle chiese locali, tanto a nord come a sud. La verità ci obbliga a dire che gli istituti missionari hanno esercitato un compito positivo nel sorgere di questa coscienza, grazie ai programmi di animazione missionaria che poterono svolgere nelle chiese locali dove si trovarono presenti. Ma queste dinamiche li hanno superati.

Oggi le chiese locali scambiano direttamente il personale e i mezzi per le iniziative di evangelizzazione senza ricorrere alla mediazione degli istituti. E i vescovi delle chiese locali, tanto a nord come a sud, cercano personale e mezzi tra di loro: oggi vescovi africani ed europei cercano clero e missionari dialogando direttamente con i propri colleghi latino americani o asiatici, contattando eventualmente la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli al momento di trovare qualcuno che paghi le spese. Gli istituti missionari e religiosi hanno cessato da molto tempo di essere considerati fornitori di clero e personale, a causa della crisi di vocazioni e dell’indice di invecchiamento che li caratterizza. Questa nuova coscienza missionaria delle chiese locali può essere considerata l’elemento ecclesiale più significativo della seconda metà del secolo XX per quanto riguarda la missione.

 

PASSAGGIO

DELLA MISSIONE AI LAICI

 

Il terzo grande cambiamento, ancora in corso, riguarda il passaggio della missione ai laici, in seguito al loro emergere nella vita e nella missione della Chiesa. In relazione a questo passaggio, possiamo dire che è stata quella che gli istituti missionari hanno maggiormente anticipato e cercato di accompagnare. Molti di essi hanno cercato di valorizzare questo passaggio, anche perché esso conteneva la promessa di una certa risposta alla mancanza di personale missionario per le iniziative di trasformazione sociale. Molti istituti hanno cercato di animare questo accesso dei laici alla missione, visto come condivisione del proprio carisma, e hanno organizzato le forme più varie di coinvolgimento laicale nella sua vita e missione. Questo passaggio della missione ai laici animata dagli istituti, ha incontrato due difficoltà che ancor oggi aspettano una soluzione.

Primo, il suo elevato costo economico, che minaccia la sostenibilità di molte iniziative. Secondo, il fatto che frattanto c’è stato un risveglio della società civile e si è intensificato il fenomeno delle Ong, che cercano di dare una risposta alle sfide della trasformazione sociale. Con l’apparire massiccio delle Ong, il processo di trasformazione sociale è passato ad avere nuovi protagonisti e sta passando in nuove mani.

Ma il passaggio più significativo della missione ai laici è quello che si sta verificando in seno alle chiese locali ed è guidato dalle nuove comunità e movimenti. Molte chiese locali preparano i loro gruppi di laici per le iniziative della missione nel loro territorio e per le iniziative di condivisione con altre chiese locali. In vari paesi, il fenomeno dei laici missionari sta diventando difatti molto significativo, l’unico a mostrare una certa vitalità e creatività nel panorama missionario. Inoltre, le nuove comunità e movimenti si sono costituite, di fatto, protagoniste di molte iniziative di evangelizzazione in seno alle chiese locali.

Il fenomeno merita di essere studiato da parte degli istituti... Ma questi hanno evitato di farlo. In parte perché non ci sono dati pubblici sulla crescita delle nuove comunità e movimenti. In parte, pure, per un atteggiamento di sospetto e di critica che gli istituti alimentano in relazione ai movimenti in generale, a causa delle loro connotazioni ideologiche e di altro genere. Ma, oltre alle differenze di atteggiamenti e valutazioni, i fatti parlano da soli. Mentre gli istituti missionari e religiosi, fino dal decennio degli anni ‘70, devono affrontare una inarrestabile crisi di vocazioni, l’invecchiamento del personale e la riduzione delle attività per mancanza di vocazioni, i movimenti e le nuove comunità hanno registrato una crescita a tutti i titoli straordinaria. Gli istituti si giustificano con la diminuzione delle vocazioni nelle chiese del nord, da dove essi sono in maggioranza originari. Ma la verità è che nelle chiese del nord continuano a esserci vocazioni... Non ci sono per gli istituti, ma ci sono vocazioni per i movimenti e le nuove comunità.

I nuovi movimenti e le comunità in molte istanze hanno conquistato la bandiera della missione e sono quelli che più mostrano oggi creatività ed efficienza in termini di annuncio del kerigma e di proposta dell’esperienza cristiana. Il loro recente congresso (Roma, Pentecoste 2006) ha mostrato la capacità di cui dispongono per pensare itinerari kerigmatici e di trasmissione del messaggio cristiano nei contesti del mondo odierno in una sintonia nuova con la tradizione cristiana e in una grande capacità di presenza nei più svariati ambienti e di dialogo con le varie generazioni. In varie situazioni di sfida per la missione cristiana oggi nel mondo i laici riescono a essere protagonisti di iniziative di evangelizzazione di grande significato ed evidente fecondità apostolica. La loro struttura agile e in gran parte locale permette loro una varietà di presenza e di azione missionaria, non possibili a membri degli istituti missionari. La loro metodologia, il carattere inclusivo dei loro itinerari spirituali e la varietà di appartenenza conferiscono loro una grande vitalità e una grande coniugazione di energie apostoliche. Per tutto questo processo di crescita, oggi in alcune chiese locali, tanto nel nord come nel sud, i movimenti e le nuove comunità appaiono come l’icona del futuro, il modello sostenibile della chiesa e della missione del futuro.

 

APERTURA DEGLI ISTITUTI

ALLA MISSIONE

 

Un altro cambiamento significativo nel tessuto ecclesiale è stata l’apertura degli istituti religiosi alla missione ad gentes. Questa apertura si è realizzata con la copertura del magistero ecclesiastico che con documenti e ripetute prese di posizione, ha incentivato gli istituti religiosi ad aprirsi alla missione universale e ha sottolineato il carattere missionario della vita consacrata. Geograficamente questo ha significato lo spostamento di molti istituti religiosi, maschili e femminili, di antica e recente fondazione, dall’Europa e dalle Americhe verso l’Africa e l’Asia. Nel caso dei grandi ordini si è trattato di un ritorno alla tradizione missionaria che li ha caratterizzati nel passato e che ora passano a testimoniare in chiese locali di più recente fondazione.

L’arrivo di altri istituti religiosi ha portato loro la ricchezza di nuovi carismi e ha aumentato in questo modo la loro capacità di risposta alle sfide della crescita interna ed esterna, in particolare dell’evangelizzazione. Per gli istituti religiosi che si sono lanciati nello spostamento verso sud, questa apertura ha portato anche alcuni vantaggi: ha offerto un’opportunità di crescita per quanto si riferisce alle vocazioni. In questa apertura alla missione ad gentes, alcuni istituti (particolarmente europei e femminili) di recente fondazione hanno fatto la loro prima esperienza di internazionalizzazione e hanno affrontato la prima sfida dell’inculturazione.

È ancora presto perché si possa valutare questo processo e verificare l’impatto dello spostamento degli istituti religiosi verso le chiese del sud, spostamento fatto in nome della missione. Ma il minimo che si può dire è che la presenza della vita consacrata nelle giovani chiese del sud può essere solo un elemento portatore di promesse di crescita e maturità, tanto per gli istituti come per le chiese locali. Questa promessa vale tanto per i grandi ordini del passato come per gli istituti di fondazione più recente che hanno avuto, grazie allo spostamento verso le chiese del sud, il movimento di maggiore crescita vocazionale delle loro brevi storie.

Gli istituti missionari hanno accompagnato questa transizione con molto interesse e grande apertura. In alcune circostanze sono stati loro a chiamare altri istituti religiosi, per alleggerire la pressione della mancanza di personale, consegnando loro opere e iniziative che avevano iniziato. Ma da questa nuova situazione e da questo passaggio di opere agli istituti religiosi non sono avanzati missionari per nuove iniziative di evangelizzazione, nella linea dei loro carismi. In molte istanze ciò che è risultato è stato solo un mimetismo degli istituti missionari, che più avanti commenteremo. Questi hanno finito, per rimanere nelle chiese locali assumendo la maniera degli altri istituti religiosi, non distinguendosi da loro nelle iniziative, lasciandosi livellare e finendo per essere confusi con loro.

 

DALL’ESCLUSIONE

ALL’INCLUSIONE

 

Ci rimane da ricordare, per ultimo, la transizione teologica, o meglio, soteriologica, che è in relazione con le motivazioni della missione cristiana nel mondo di oggi. Veniamo da un passato in cui si sentiva l’urgenza intensa per l’evangelizzazione dei popoli, urgenza che proveniva dai concetti soteriologici vigenti e dalla necessità della missione in vista della salvezza, urgenza che si affermava nell’assioma “fuori della chiesa non c’è salvezza”. II Vaticano II ha superato questo assioma dal punto di vista teologico. L’urgenza incominciò a sfumare e le motivazioni per la missione universale incominciarono a essere riviste. In questo senso la seconda metà del secolo XX è stata un tempo di revisione delle motivazioni teologiche della missione universale. Abbiamo continuato a leggere i vangeli dell’invio ma dandogli un nuovo senso. Abbiamo motivato la missione nei valori della condivisione della nostra tradizione religiosa e della testimonianza del vangelo di Cristo.

Le dinamiche di conquista del passato sono state superate dagli atteggiamenti di coesistenza, segnati dal dialogo di vita e di fede, dalla proposta umile e sincera del cammino cristiano. I missionari hanno continuato a partire per conoscere e compartecipare, per condividere il Vangelo e accogliere i valori spirituali degli altri. II loro andare agli altri, nel nome di Gesù, non è una minaccia per nessuno: è un atto di comunione e di incontro nel quale, tanto essi come i popoli, condividono ciò che hanno di più prezioso, le loro esperienze religiose. I missionari hanno accompagnato positivamente questo cambiamento nelle motivazioni della missione universale.

Le difficoltà maggiori sono sorte a livello delle metodologie e degli obbiettivi della missione, giacché questi hanno dovuto essere reinventati. Non sarà esagerato, perciò, ammettere che gli istituti missionari hanno continuato a essere legati a metodologie che si appoggiavano su vecchie motivazioni e hanno avuto qualche difficoltà nel trovare metodologie nuove per annunciare il vangelo con rinnovata bellezza e proporre forme di esperienza cristiana più in sintonia con i tempi.

Anche in questo caso, i movimenti e le nuove comunità hanno avuto un vantaggio notevole: liberi da tradizioni missionarie legate alle motivazioni del passato, essi si sono lanciati nella missione universale partendo dalle loro motivazioni carismatiche della fondazione e proponendo nuove esperienze di vita cristiana. In questo senso, possiamo dire che le motivazioni per la missione dei movimenti e delle nuove comunità non hanno a che vedere con elementi esterni, relazionati sia con la necessità della salvezza sia con le esigenze dei processi di trasformazione sociale. Esse sono fondamentalmente interne e decorrono dall’esperienza cristiana che fanno e che cercano di trasmettere e condividere con gli altri.

 

LA POSIZIONE

DEGLI ISTITUTI

 

A questo punto si impone la domanda: dove si collocano gli istituti missionari in questi processi di transizione ecclesiale? In qualche modo, qua e là nel testo, c’è già stato un accenno alla posizione degli istituti, ma conviene logicamente affrontare la questione e svilupparla di più. Sottolineiamo, allora, alcuni elementi di questa varia collocazione.

Storicamente e guardando alla seconda metà del secolo XX possiamo, prima di tutto, verificare che gli istituti missionari si sono collocati in questo quadro di transizione ecclesiale con una fuga in avanti, una posizione profetica, coinvolgendosi soprattutto nei processi di trasformazione sociale e sottolineando questa dimensione nella loro visione e metodologia missionarie. Da un lato, le situazioni sociali che hanno affrontato, in Africa, in Asia e nelle Americhe, erano tali da chiedere questo coinvolgimento, a causa dello stato di povertà, sottosviluppo ed esclusione sociale in cui questi continenti si trovavano all’uscire dall’epoca coloniale e alla fine della seconda guerra mondiale. Dall’altro lato, questo coinvolgimento ha avuto la copertura della riflessione teologica e del magistero ecclesiale: lo sviluppo fu considerato il nuovo nome della pace e parte integrante dell’evangelizzazione.

Nella storia della missione universale, rimarrà registrato il merito di questo coinvolgimento dei missionari della seconda metà del secolo XX nei processi di trasformazione sociale. Questo coinvolgimento, però, ha distratto i missionari dal compito di aggiornare le loro metodologie specificamente missionarie, e di farle evolvere più in sintonia con i processi di transizione ecclesiale. Essi hanno finito col trovarsi a fare di tutto, prevalentemente in relazione con i processi di trasformazione delle società, ma anche in relazione con l’evolversi pastorale delle chiese, diluendo così il senso e la prassi del proprio carisma (tutto finì con essere missione, ma ben poco continuò a essere missione!).

Per questo, e in secondo luogo, dobbiamo sottolineare anche il processo di mimetizzazione degli istituti missionari in seno alle chiese locali, processo che li sta facendo passare per istituti religiosi tout court. Roma ha fatto il primo passo in questo processo mettendo, nel rinnovamento della Curia, gli istituti missionari che sono pure congregazioni religiose, alla dipendenza della Congregazione per i religiosi (e non alla dipendenza della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, all’ombra della quale nacquero e si affermarono nella chiesa). Ma, prima che Roma lo facesse, gli istituti missionari si erano già adeguati a questa situazione mimetizzandosi tra gli istituti religiosi e lasciandosi confondere con essi, per l’assenza di una metodologia kerigmatica e di un modo proprio di essere e di vivere il loro carisma missionario.

In terzo luogo, i missionari degli istituti ad gentes vennero a trovarsi isolati in “ambienti particolari” di prima evangelizzazione, per i quali le chiese locali non disponevano, né dispongono, di risorse umane e di altro genere. Mi riferisco alle situazioni di povertà ed esclusione sociale, alla quale la presenza dei missionari ad gentes continua a essere legata, presenza che deriva da un legame intrinseco con il proprio carisma (gli istituti ad gentes proclamano tutti uno speciale legame prioritario del Vangelo “ai più poveri e abbandonati”, e il lettore starà già pensando che era ora che io usassi l’espressione e menzionassi questa priorità). Mi riferisco, per esempio in Africa, ai gruppi umani ed etnici che sono rimasti al margine dei processi di trasformazione sociale e ai quali i missionari degli istituti ad gentes si sentono particolarmente legati come gruppi umani di prima evangelizzazione.

Mi riferisco, per esempio, alle situazioni geografiche di grande isolamento e di instabilità sociale a cui i missionari hanno saputo mantenersi fedeli anche a rischio della propria vita. Mi riferisco, per ultimo, alle situazioni di esclusione sociale, alle periferie delle favelas e delle zone di povertà delle grandi città latino­americane e africane, per le quali i missionari degli istituti ad gentes si attivarono negli ultimi decenni. L’isolamento degli istituti ad gentes in questi ambienti è ambivalente. Da un lato, è espressione del proprio carisma e rivela il profetismo degli istituti davanti a queste situazioni più esigenti in termini di evangelizzazione, di presenza e di annuncio della novità cristiana.

Ma, per un altro verso, questa situazione corre il rischio di mantenere i missionari al margine dei processi di cambiamento ecclesiale. Se la Chiesa esiste per evangelizzare e l’evangelizzazione è la ragion d’essere della Chiesa, come è proclamato nei documenti del magistero, allora questo isolamento dovrebbe essere rivisto: la periferia appartiene al missionario come frontiera della sua missione, ma egli non dovrebbe perdere la capacità di stare nel centro, nel cuore della Chiesa, ed in esso poter accompagnare i processi di trasformazione ecclesiale, tanto a livello di chiesa locale come di chiesa universale.

 

L’ESPORTAZIONE

DI UN MODELLO

 

In questo dinamismo di collocazione dinanzi ai processi di transizione in atto nella Chiesa, e coscienti della crescente importanza delle chiese locali del sud, gli istituti missionari hanno cercato, soprattutto a partire dagli anni ‘70, di portare al sud i modelli della loro presenza e attività nel nord. Mi riferisco al fatto che essi, oltre a dedicarsi all’evangelizzazione come avevano sempre fatto in Africa, nelle Americhe e in Asia, hanno iniziato a dedicarsi anche all’animazione missionaria e alla promozione vocazionale e formazione dei candidati in queste chiese.

All’inizio questa esportazione di modello da nord a sud pareva avere senso, soprattutto nel campo vocazionale. Mentre le chiese del nord incominciavano a dar segno di crisi vocazionale, quelle del sud offrivano potenzialità straordinarie di crescita soprattutto fra la gioventù. I risultati nella formazione in queste chiese locali (come il Messico in America, la Nigeria in Africa, l’India e le Filippine in Asia) furono certamente incoraggianti per alcuni istituti che formarono un numero molto significativo di candidati in queste chiese locali. Ma, col passare degli anni, si è arrivati alla fine del secolo con la percezione che il semplice travaso di modello da nord a sud cominciava ad apparire problematico e insostenibile.

Fu precisamente nella formazione che questi fattori-limite cominciarono ad apparire. Sorsero diffusi problemi di mancanza di identificazione dei candidati con la vocazione missionaria. L’indice di abbandono dei candidati e dei membri oriundi dalle chiese del sud finì per rivelarsi molto alto (per esempio in Messico, Brasile). In alcune chiese locali apparvero presto i sintomi della crisi vocazionale e della diminuzione delle vocazioni missionarie (per esempio, nelle Filippine).

Allo stesso modo, nel lavoro di animazione missionaria sono cominciati ad apparire i segni dell’insostenibilità del modello. In alcune circostanze i progetti di animazione missionaria si sono dimostrati irrilevanti per le chiese locali e difatti non le hanno mobilitate. I missionari hanno avuto un certo successo nei mezzi di comunicazione sociale, ma non sono riusciti a lanciare iniziative significative di evangelizzazione in seno alle chiese locali dove le stesse apparentemente sarebbero più necessarie. Per tutte queste ragioni, gli istituti ad gentes appaiono oggi portati a ripensare il loro modello di presenza nelle chiese del sud, a cominciare dalla formazione. Sotto molti punti di vista, il modello di vita degli istituti ad gentes, nato e affermatosi nelle chiese locali del nord, non trova condizioni di sopravvivenza nelle chiese del sud senza un grande adattamento. Il futuro dirà se gli istituti missionari avranno la creatività per farlo.

 

DOVE STA

IL FUTURO?

 

Siamo giunti, così, alla parola chiave che racchiude la conclusione del processo sul quale abbiamo tentato di riflettere: il futuro! Questo darà la risposta alle domande suscitate da questa riflessione. Naturalmente dobbiamo anche cercare di capire quale sarà il futuro degli istituti missionari alla luce di questo processo di cambiamento che riguarda la Chiesa universale e le chiese locali in questo inizio del secolo XXI.

Questo processo colloca agli istituti la sfida di riproporre la loro identità nel contesto ecclesiale che viviamo. Alcuni hanno usato la parola “rifondazione” per riferirsi a questa impresa globale che incombe sugli istituti missionari. La parola può, di fatto, servire per esprimere ciò che importa fare da parte loro: partendo dall’esperienza della fondazione, affermare in questo nuovo contesto ecclesiale il loro carisma come carisma di evangelizzazione. Ma come è possibile, che cosa bisogna fare per riuscirvi?

Le risposte saranno diverse, secondo i punti di vista. Qui ne espongo una, naturalmente discutibile. I fondatori degli istituti missionari furono persone che fecero una esperienza profonda, unica e pertanto carismatica, di Dio, di Cristo, nei contesti della Chiesa e della società del loro tempo. Nel vivere e approfondire questa esperienza essi trovarono un metodo per condividerla nella Chiesa, esercitando una forza di convocazione e di attrazione.

A partire da questa esperienza furono capaci di creare un movimento di evangelizzazione a favore dei popoli e delle culture, da cui sorsero gli istituti missionari che oggi abbiamo (il fondatore di quello a cui appartengo, san Daniele Comboni, sognò un movimento di evangelizzazione in relazione all’Africa centrale, un ampio movimento a cui cercò di interessare vari settori della Chiesa del suo tempo, motivato teologicamente e spiritualmente nella contemplazione del Cuore trafitto di Cristo buon pastore).

Alla luce di questa “parabola fondazionale”, gli istituti missionari avranno futuro e funzione propria nella misura in cui saranno e appariranno come espressione di una significativa esperienza di Dio, di Cristo e del Vangelo, nelle chiese locali dove si trovano e nelle società in cui vivono. Avranno futuro nella misura in cui daranno corpo a questa esperienza in una metodologia che permetta loro di condividerla con le chiese locali e rivelino così una forza di convocazione, creando un movimento di evangelizzazione che dia risposta alle loro necessità e sfide missionarie.

In questo senso, credo che la lettura teologica della parabola fondazionale consiglierebbero gli istituti missionari ad gentes a guardare di più agli attuali movimenti ecclesiali. Questo perché gli istituti missionari, suscitati dallo Spirito, nacquero come movimenti ecclesiali che diedero risposta alle sfide dell’evangelizzazione in una situazione particolare e solo dentro questa premessa teologica ed ecclesiale potranno mantenere oggi e sempre il loro significato e la loro identità di istituti in seno alle chiese locali.

Oltre a ciò, le motivazioni per la missione hanno smesso di essere esterne, come in certo modo lo furono in passato, sia in relazione ai processi di trasformazione sociale (le urgenze della giustizia sociale) che in relazione alla necessità di entrare nella Chiesa (l’urgenza della salvezza). Le motivazioni per la missione cristiana nel mondo hanno cessato di essere esterne per diventare interne; cioè affermarsi dal di dentro, sgorgare da un’esperienza di vita cristiana che viene proposta agli altri.

È in questo dinamismo di proposta di vita cristiana che la missione oggi ha la sua giustificazione e, giustamente, la sua promessa di fecondità. I nuovi movimenti e comunità fanno fondamentalmente questo: sono capaci, primo, di vivere e di dar corpo a una grande varietà di esperienze e vie di vita cristiana e, in secondo luogo, di elaborare una metodologia che propone queste esperienze come vie di vita cristiana, personale e comunitaria, ecclesiale.

 

LE OPZIONI

CHE SI IMPONGONO

 

Stando così le cose, che cosa dovranno promuovere in se stessi gli istituti missionari per avere significato e garantire la propria fecondità nei processi di transizione ecclesiale in corso? Le sfide sembrano essere essenzialmente due: rivisitare con una rinnovata mistica (“mettendo al centro l’Amore,” per usare l’espressione di Benedetto XVI) la loro esperienza fondazionale, di vita cristiana e sequela per la missione; scoprire una metodologia specificamente evangelizzatrice che proponga questa esperienza di vita come cammino ecclesiale significativo per le chiese oggi. Queste due sfide esigeranno varie opzioni concrete che enumero brevemente e che meriterebbero uno sviluppo più ampio.

Primo: un ritorno chiaro al kerigma, alla Parola. L’annuncio del Vangelo, la proclamazione del kerigma cristiano (il senso dell’esistenza umana in Cristo), hanno sempre fatto parte dell’identità della missione. Quello a cui abbiamo assistito ultimamente è consistito nel far tacere il kerigma. Gli istituti non hanno generato in seno alle chiese locali le “scuole della Parola” o i “centri di vita e di iniziazione cristiana” che l’evangelizzazione richiede.

In secondo luogo, valorizzare soprattutto la testimonianza, che di per se stessa diventa annunzio, elemento di attrazione e convocazione. Nel sottolineare la testimonianza, l’essere sul fare, mi sento nella (buona) compagnia col più recente magistero della Chiesa. Da Paolo VI nella EN, a Giovanni Paolo II (Nella RH e nella NMI) la dimensione della testimonianza ha continuato a essere costantemente sottolineata e ricordata ai missionari.

Terzo: vivere la missione come esperienza di fraternità, una missione pensata e vissuta in fraternità nella comunità, nella chiesa locale in cui si vive. Questo senso di comunione con la chiesa locale, che rende possibile la sinergia e la collaborazione, appare fondamentale per il futuro degli istituti missionari. Giovanni Paolo II ha sottolineato questo ritorno alla comunione ecclesiale da parte degli istituti e dei movimenti, invitandoli a incontrarsi e a collaborare in nome della missione, e parlando della missione come “scuola di comunione”.

Quarto e ultimo in ordine di posto ma non di importanza: pensare la missione come movimento ecclesiale ampio, comprendente un pluralismo di ministeri e dando più rilievo ai ministeri non ordinati, particolarmente a quelli laicali e ai ministeri della donna. Il significato ecclesiale degli istituti ad gentes, come abbiamo sottolineato, dipende da questa capacità di vedere e collocare la loro missione nel contesto di una grande varietà di ministeri e carismi che certamente caratterizzerà la chiesa del futuro, e di trasformarsi così in strumento dello Spirito nell’animazione delle iniziative di evangelizzazione che nasceranno nelle chiese locali del secolo XXI.

Ciò che abbiamo detto richiederà dagli istituti missionari ad gentes l’adozione di due concetti guida. Il primo è quello della “fedeltà creativa”. Dopo il concilio Vaticano II si è insistito sul ritorno al carisma fondazionale. Ma questo ritorno non può essere solo un movimento all’indietro, uno sforzo di ricupero. Deve essere anche movimento in avanti, una capacità di vivere il carisma in modo nuovo nel contesto dei cambiamenti ecclesiali in corso. Il concetto di “fedeltà creativa”, che è stato usato da alcuni superiori generali (per esempio, dal p. Kolvenbach nella preparazione della prossima congregazione generale dei gesuiti), può aiutare a discernere le vie nuove che si devono seguire. Il secondo concetto è quello della “minoranza significativa”. Gli istituti missionari ad gentes dovranno comprendersi come minoranze significative nel contesto delle chiese locali, lasciando da parte sogni e funzioni di altra natura. Più importante del numero dei loro membri, o la molteplicità delle loro opere, sarà il contributo che, come minoranza significativa, daranno alle chiese locali nei loro sforzi per rispondere alle sfide della missione cristiana oggi nel mondo.

P. Manuel Augusto Lopes Ferreira, mccj