QUALE
FUTURO PER GLI ISTITUTI MISSIONARI?
UN
TEMPO DI TRANSIZIONE
La missione sta
attraversando un’epoca di radicale transizione, ma continuiamo a vivere come se
questa non ci riguardasse. Ma è un errore. È importante piuttosto capire quali
sono questi processi di transizione, dove ci condurranno e i compiti che siamo
chiamati a svolgere.
È
diventato abituale affermare che il passaggio del secolo che stiamo vivendo
rimarrà nella storia come un’era di grandi transizioni, di cambiamenti epocali,
tanto a livello di Chiesa come di società. Naturalmente, non tutti abbiamo la
stessa percezione dei cambiamenti in corso, del loro significato e delle loro
conseguenze. A
quanto
pare, le transizioni che si sono verificate nella società,
soprattutto
nel nord, sono comprese più facilmente. Ma per ciò che si riferisce ai
cambiamenti nella Chiesa, le percezioni sono più diffuse: si trova qualche
difficoltà nel comprendere la totalità dei processi di cambiamento. Abbiamo la
nozione delle situazioni che si alterano, ma non si ha la percezione chiara
della direzione verso la quale si va. È per questo che nella Chiesa in
generale, e negli istituti missionari in modo particolare, proviamo di fatto
una certa riluttanza nell’inserirci nei processi di transizione, nonostante se
ne parli con frequenza.
Continuiamo
la nostra vita individuale e istituzionale come se le transizioni non stessero
verificandosi o non ci riguardassero. Per questo, da una parte può sembrare
scontato parlare di transizioni in corso nella Chiesa, nel senso che tutti ne
abbiamo conoscenza... Ma, d’altra parte, il compito di riflettere su di esse
non è terminato. Bisogna soprattutto continuare a tentare di capire dove questi
processi di transizione ci condurranno e quale parte siamo chiamati a svolgere,
come individui e come istituti. È in questo senso che mi propongo qui di
riflettere sul tema Missione in tempo di transizione, con l’obiettivo di
rivisitare i processi di transizione ecclesiale in corso che più riguardano la
missione, e tentare di capire quale sarà il futuro degli istituti missionari ad
gentes alla luce di questi processi.
TRANSIZIONE
CONCETTUALE
La
prima grande transizione che caratterizza la missione oggi, è una transizione
nei concetti, una nuova maniera di parlarne, che frattanto è sorta nella Chiesa
e per la quale i missionari non erano certamente preparati. Il sorgere di una
maniera nuova di parlare e di riflettere sull’evangelizzazione, sulla missione
della Chiesa oggi, li ha colti di sorpresa. La transizione alla quale mi
riferisco è quella concettuale portata dalla nuova evangelizzazione: un
concetto e una pratica introdotti da Giovanni Paolo II. I missionari hanno
cercato inizialmente di smarcarsi, di definire meglio i concetti, di rivendicare
come propri e specifici i concetti e la pratica della prima evangelizzazione,
la missione con la lettera maiuscola. Ma, nonostante il chiarimento, il fatto è
che la proposta di Giovanni Paolo II ha avuto successo, ha dimostrato potere di
attrazione e di ispirazione, ha messo radici e conquistato seguaci, ha
catalizzato i fermenti di evangelizzazione in seno alle chiese locali e si sta
imponendo come visione della missione della Chiesa del nostro tempo. Il merito
della proposta del papa pare essere stato duplice. Da un lato, egli ha proposto
qualcosa di nuovo, in termini di visione teologica e di metodologia, per
rilanciare la missione della Chiesa. D’altra parte, e di fatto, ha anticipato i
problemi dell’evangelizzazione con i quali si stanno confrontando le chiese
locali, in particolare quelle del nord, e ha suggerito loro una risposta. I
missionari, che erano i proponenti abituali di una visione teologica della
missione, non si sono accorti per tempo che la visione e la proposta che
tradizionalmente offrivano correva il rischio di non catalizzare
sufficientemente i fermenti di novità che il concilio Vaticano II ha
risvegliato nella Chiesa. E, soprattutto, i missionari non hanno anticipato la
crisi delle chiese locali del nord e non hanno saputo prevedere in tempo le
conseguenze di questa crisi per il concetto e la pratica della missione. Non
hanno dato risposta alla decadenza della vita cristiana nelle società del nord
e alla sfida, inevitabile, dell’evangelizzazione delle società emergenti, continuando
a pensare e a realizzare una missione dal nord al sud, assumendo
l’evangelizzazione del nord come dato di fatto, o lasciando questa sfida come
responsabilità meramente pastorale delle chiese locali.
I
missionari hanno riflettuto e cercato di dare una risposta alla sfida
dell’evangelizzazione delle masse di emigranti provenienti dal sud, che
frattanto si sono fissati in Europa. Ma non hanno affrontato i problemi
dell’evangelizzazione del nord come tale. La proposta del papa, con un appello
e una mistica nuovi, ha dato risposta alle ansie delle chiese locali e ha
mobilitato le potenzialità dei movimenti e delle nuove comunità. I missionari
ad gentes non hanno neppure anticipato il processo di implosione delle chiese
locali del sud. Sensibili alla crescita delle chiese verso l’esterno e alla
presenza del Vangelo nei processi di trasformazione sociale, i missionari non
hanno previsto un certo crollo che sta interessando dal di dentro le chiese del
sud, tanto dell’Africa come delle Americhe.
La
proposta del Papa ha dato risposta a questa situazione, corrispondendo alle
ansie sentite nelle chiese di questi continenti di una maggior qualità di vita
cristiana e di nuovi modelli di presenza cristiana nella società. La proposta
del papa ha articolato la necessità di una rievangelizzazione, anche al sud,
avendo come protagoniste le stesse chiese locali del sud. Per ultimo, la
proposta di nuova evangelizzazione è venuta ad anticipare e rispondere al nuovo
contesto creato dalla globalizzazione. Il discorso di una missione di matrice
geografica o altra, è sorpassato dalla globalizzazione. La missione cristiana
oggi nel mondo è globale, come globali sono le società dove la chiesa vive. Il
linguaggio e la pratica della nuova evangelizzazione sono venute a
corrispondere in modo più adeguato a questa situazione venutasi a creare con la
globalizzazione.
PASSAGGIO
DELLA MISSIONE
ALLA
CHIESA LOCALE
La
seconda grande transizione, che è necessario registrare, è stata il passaggio
della missione alle chiese locali. Più che passaggio, è stato un ritorno alle
chiese locali, dopo secoli nelle mani dei pontefici, che l’affidavano ai vari
istituti religiosi e missionari ad gentes, secondo la strategia centralizzata e
pianificata a partire da Roma. Nell’anno in cui scrivo questo testo (2006)
ricorrono i 50 anni dell’enciclica Fidei donum di Pio XII. Non mancheranno, da
parte dei missionari Fidei donum iniziative per commemorare l’enciclica e per
mostrare la sua importanza per la storia missionaria della seconda metà del
secolo XX. Non sarà esagerato dire che l’aspetto più profetico è stato il fatto
che l’enciclica fu il primo passo significativo di un processo di ritorno della
missione alle chiese locali, a cominciare dal loro clero.
Questo
processo di ritorno della missione alle chiese locali si accelerò con il
concilio Vaticano II, che lo consacrò. E le chiese locali, tanto nel nord come
nel sud, hanno sviluppato una coscienza missionaria. Esse si sono organizzate,
hanno creato i loro segretariati missionari, hanno suscitato dinamiche di
animazione missionaria, hanno promosso iniziative di condivisione con le altre
chiese. In alcune diocesi e conferenze episcopali l’organizzazione è diventata
così capillare, che non ha lasciato spazio agli istituti. In alcuni casi,
questi sono stati perfino considerati superflui e come se avessero già
terminato la loro missione storica che erano stati chiamati a esercitare nel
passato. In questo passaggio, il fatto significativo che più importa
sottolineare, oltre alle iniziative, è il sorgere di questa nuova coscienza
missionaria e il senso di responsabilità nelle chiese locali, tanto a nord come
a sud. La verità ci obbliga a dire che gli istituti missionari hanno esercitato
un compito positivo nel sorgere di questa coscienza, grazie ai programmi di animazione
missionaria che poterono svolgere nelle chiese locali dove si trovarono
presenti. Ma queste dinamiche li hanno superati.
Oggi
le chiese locali scambiano direttamente il personale e i mezzi per le
iniziative di evangelizzazione senza ricorrere alla mediazione degli istituti.
E i vescovi delle chiese locali, tanto a nord come a sud, cercano personale e
mezzi tra di loro: oggi vescovi africani ed europei cercano clero e missionari
dialogando direttamente con i propri colleghi latino americani o asiatici,
contattando eventualmente la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli al
momento di trovare qualcuno che paghi le spese. Gli istituti missionari e
religiosi hanno cessato da molto tempo di essere considerati fornitori di clero
e personale, a causa della crisi di vocazioni e dell’indice di invecchiamento
che li caratterizza. Questa nuova coscienza missionaria delle chiese locali può
essere considerata l’elemento ecclesiale più significativo della seconda metà
del secolo XX per quanto riguarda la missione.
PASSAGGIO
DELLA
MISSIONE AI LAICI
Il
terzo grande cambiamento, ancora in corso, riguarda il passaggio della missione
ai laici, in seguito al loro emergere nella vita e nella missione della Chiesa.
In relazione a questo passaggio, possiamo dire che è stata quella che gli
istituti missionari hanno maggiormente anticipato e cercato di accompagnare.
Molti di essi hanno cercato di valorizzare questo passaggio, anche perché esso
conteneva la promessa di una certa risposta alla mancanza di personale missionario
per le iniziative di trasformazione sociale. Molti istituti hanno cercato di
animare questo accesso dei laici alla missione, visto come condivisione del
proprio carisma, e hanno organizzato le forme più varie di coinvolgimento
laicale nella sua vita e missione. Questo passaggio della missione ai laici
animata dagli istituti, ha incontrato due difficoltà che ancor oggi aspettano
una soluzione.
Primo,
il suo elevato costo economico, che minaccia la sostenibilità di molte
iniziative. Secondo, il fatto che frattanto c’è stato un risveglio della
società civile e si è intensificato il fenomeno delle Ong, che cercano di dare
una risposta alle sfide della trasformazione sociale. Con l’apparire massiccio
delle Ong, il processo di trasformazione sociale è passato ad avere nuovi
protagonisti e sta passando in nuove mani.
Ma
il passaggio più significativo della missione ai laici è quello che si sta
verificando in seno alle chiese locali ed è guidato dalle nuove comunità e
movimenti. Molte chiese locali preparano i loro gruppi di laici per le
iniziative della missione nel loro territorio e per le iniziative di
condivisione con altre chiese locali. In vari paesi, il fenomeno dei laici
missionari sta diventando difatti molto significativo, l’unico a mostrare una
certa vitalità e creatività nel panorama missionario. Inoltre, le nuove
comunità e movimenti si sono costituite, di fatto, protagoniste di molte
iniziative di evangelizzazione in seno alle chiese locali.
Il
fenomeno merita di essere studiato da parte degli istituti... Ma questi hanno
evitato di farlo. In parte perché non ci sono dati pubblici sulla crescita
delle nuove comunità e movimenti. In parte, pure, per un atteggiamento di
sospetto e di critica che gli istituti alimentano in relazione ai movimenti in generale,
a causa delle loro connotazioni ideologiche e di altro genere. Ma, oltre alle
differenze di atteggiamenti e valutazioni, i fatti parlano da soli. Mentre gli
istituti missionari e religiosi, fino dal decennio degli anni ‘70, devono
affrontare una inarrestabile crisi di vocazioni, l’invecchiamento del personale
e la riduzione delle attività per mancanza di vocazioni, i movimenti e le nuove
comunità hanno registrato una crescita a tutti i titoli straordinaria. Gli
istituti si giustificano con la diminuzione delle vocazioni nelle chiese del
nord, da dove essi sono in maggioranza originari. Ma la verità è che nelle
chiese del nord continuano a esserci vocazioni... Non ci sono per gli istituti,
ma ci sono vocazioni per i movimenti e le nuove comunità.
I
nuovi movimenti e le comunità in molte istanze hanno conquistato la bandiera
della missione e sono quelli che più mostrano oggi creatività ed efficienza in
termini di annuncio del kerigma e di proposta dell’esperienza cristiana. Il
loro recente congresso (Roma, Pentecoste 2006) ha mostrato la capacità di cui
dispongono per pensare itinerari kerigmatici e di trasmissione del messaggio
cristiano nei contesti del mondo odierno in una sintonia nuova con la
tradizione cristiana e in una grande capacità di presenza nei più svariati
ambienti e di dialogo con le varie generazioni. In varie situazioni di sfida
per la missione cristiana oggi nel mondo i laici riescono a essere protagonisti
di iniziative di evangelizzazione di grande significato ed evidente fecondità apostolica.
La loro struttura agile e in gran parte locale permette loro una varietà di
presenza e di azione missionaria, non possibili a membri degli istituti
missionari. La loro metodologia, il carattere inclusivo dei loro itinerari
spirituali e la varietà di appartenenza conferiscono loro una grande vitalità e
una grande coniugazione di energie apostoliche. Per tutto questo processo di
crescita, oggi in alcune chiese locali, tanto nel nord come nel sud, i
movimenti e le nuove comunità appaiono come l’icona del futuro, il modello
sostenibile della chiesa e della missione del futuro.
APERTURA
DEGLI ISTITUTI
ALLA
MISSIONE
Un
altro cambiamento significativo nel tessuto ecclesiale è stata l’apertura degli
istituti religiosi alla missione ad gentes. Questa apertura si è realizzata con
la copertura del magistero ecclesiastico che con documenti e ripetute prese di
posizione, ha incentivato gli istituti religiosi ad aprirsi alla missione
universale e ha sottolineato il carattere missionario della vita consacrata. Geograficamente
questo ha significato lo spostamento di molti istituti religiosi, maschili e
femminili, di antica e recente fondazione, dall’Europa e dalle Americhe verso
l’Africa e l’Asia. Nel caso dei grandi ordini si è trattato di un ritorno alla
tradizione missionaria che li ha caratterizzati nel passato e che ora passano a
testimoniare in chiese locali di più recente fondazione.
L’arrivo
di altri istituti religiosi ha portato loro la ricchezza di nuovi carismi e ha
aumentato in questo modo la loro capacità di risposta alle sfide della crescita
interna ed esterna, in particolare dell’evangelizzazione. Per gli istituti
religiosi che si sono lanciati nello spostamento verso sud, questa apertura ha
portato anche alcuni vantaggi: ha offerto un’opportunità di crescita per quanto
si riferisce alle vocazioni. In questa apertura alla missione ad gentes, alcuni
istituti (particolarmente europei e femminili) di recente fondazione hanno
fatto la loro prima esperienza di internazionalizzazione e hanno affrontato la
prima sfida dell’inculturazione.
È
ancora presto perché si possa valutare questo processo e verificare l’impatto
dello spostamento degli istituti religiosi verso le chiese del sud, spostamento
fatto in nome della missione. Ma il minimo che si può dire è che la presenza
della vita consacrata nelle giovani chiese del sud può essere solo un elemento
portatore di promesse di crescita e maturità, tanto per gli istituti come per
le chiese locali. Questa promessa vale tanto per i grandi ordini del passato
come per gli istituti di fondazione più recente che hanno avuto, grazie allo
spostamento verso le chiese del sud, il movimento di maggiore crescita
vocazionale delle loro brevi storie.
Gli
istituti missionari hanno accompagnato questa transizione con molto interesse e
grande apertura. In alcune circostanze sono stati loro a chiamare altri
istituti religiosi, per alleggerire la pressione della mancanza di personale,
consegnando loro opere e iniziative che avevano iniziato. Ma da questa nuova
situazione e da questo passaggio di opere agli istituti religiosi non sono
avanzati missionari per nuove iniziative di evangelizzazione, nella linea dei
loro carismi. In molte istanze ciò che è risultato è stato solo un mimetismo
degli istituti missionari, che più avanti commenteremo. Questi hanno finito,
per rimanere nelle chiese locali assumendo la maniera degli altri istituti
religiosi, non distinguendosi da loro nelle iniziative, lasciandosi livellare e
finendo per essere confusi con loro.
DALL’ESCLUSIONE
ALL’INCLUSIONE
Ci
rimane da ricordare, per ultimo, la transizione teologica, o meglio,
soteriologica, che è in relazione con le motivazioni della missione cristiana
nel mondo di oggi. Veniamo da un passato in cui si sentiva l’urgenza intensa
per l’evangelizzazione dei popoli, urgenza che proveniva dai concetti
soteriologici vigenti e dalla necessità della missione in vista della salvezza,
urgenza che si affermava nell’assioma “fuori della chiesa non c’è salvezza”. II
Vaticano II ha superato questo assioma dal punto di vista teologico. L’urgenza
incominciò a sfumare e le motivazioni per la missione universale incominciarono
a essere riviste. In questo senso la seconda metà del secolo XX è stata un
tempo di revisione delle motivazioni teologiche della missione universale. Abbiamo
continuato a leggere i vangeli dell’invio ma dandogli un nuovo senso. Abbiamo
motivato la missione nei valori della condivisione della nostra tradizione
religiosa e della testimonianza del vangelo di Cristo.
Le
dinamiche di conquista del passato sono state superate dagli atteggiamenti di
coesistenza, segnati dal dialogo di vita e di fede, dalla proposta umile e
sincera del cammino cristiano. I missionari hanno continuato a partire per
conoscere e compartecipare, per condividere il Vangelo e accogliere i valori
spirituali degli altri. II loro andare agli altri, nel nome di Gesù, non è una
minaccia per nessuno: è un atto di comunione e di incontro nel quale, tanto
essi come i popoli, condividono ciò che hanno di più prezioso, le loro
esperienze religiose. I missionari hanno accompagnato positivamente questo
cambiamento nelle motivazioni della missione universale.
Le
difficoltà maggiori sono sorte a livello delle metodologie e degli obbiettivi
della missione, giacché questi hanno dovuto essere reinventati. Non sarà
esagerato, perciò, ammettere che gli istituti missionari hanno continuato a
essere legati a metodologie che si appoggiavano su vecchie motivazioni e hanno
avuto qualche difficoltà nel trovare metodologie nuove per annunciare il
vangelo con rinnovata bellezza e proporre forme di esperienza cristiana più in
sintonia con i tempi.
Anche
in questo caso, i movimenti e le nuove comunità hanno avuto un vantaggio
notevole: liberi da tradizioni missionarie legate alle motivazioni del passato,
essi si sono lanciati nella missione universale partendo dalle loro motivazioni
carismatiche della fondazione e proponendo nuove esperienze di vita cristiana.
In questo senso, possiamo dire che le motivazioni per la missione dei movimenti
e delle nuove comunità non hanno a che vedere con elementi esterni, relazionati
sia con la necessità della salvezza sia con le esigenze dei processi di
trasformazione sociale. Esse sono fondamentalmente interne e decorrono
dall’esperienza cristiana che fanno e che cercano di trasmettere e condividere
con gli altri.
LA
POSIZIONE
DEGLI
ISTITUTI
A
questo punto si impone la domanda: dove si collocano gli istituti missionari in
questi processi di transizione ecclesiale? In qualche modo, qua e là nel testo,
c’è già stato un accenno alla posizione degli istituti, ma conviene logicamente
affrontare la questione e svilupparla di più. Sottolineiamo, allora, alcuni
elementi di questa varia collocazione.
Storicamente
e guardando alla seconda metà del secolo XX possiamo, prima di tutto,
verificare che gli istituti missionari si sono collocati in questo quadro di
transizione ecclesiale con una fuga in avanti, una posizione profetica,
coinvolgendosi soprattutto nei processi di trasformazione sociale e
sottolineando questa dimensione nella loro visione e metodologia missionarie.
Da un lato, le situazioni sociali che hanno affrontato, in Africa, in Asia e
nelle Americhe, erano tali da chiedere questo coinvolgimento, a causa dello
stato di povertà, sottosviluppo ed esclusione sociale in cui questi continenti
si trovavano all’uscire dall’epoca coloniale e alla fine della seconda guerra
mondiale. Dall’altro lato, questo coinvolgimento ha avuto la copertura della
riflessione teologica e del magistero ecclesiale: lo sviluppo fu considerato il
nuovo nome della pace e parte integrante dell’evangelizzazione.
Nella
storia della missione universale, rimarrà registrato il merito di questo
coinvolgimento dei missionari della seconda metà del secolo XX nei processi di
trasformazione sociale. Questo coinvolgimento, però, ha distratto i missionari
dal compito di aggiornare le loro metodologie specificamente missionarie, e di
farle evolvere più in sintonia con i processi di transizione ecclesiale. Essi
hanno finito col trovarsi a fare di tutto, prevalentemente in relazione con i
processi di trasformazione delle società, ma anche in relazione con l’evolversi
pastorale delle chiese, diluendo così il senso e la prassi del proprio carisma
(tutto finì con essere missione, ma ben poco continuò a essere missione!).
Per
questo, e in secondo luogo, dobbiamo sottolineare anche il processo di
mimetizzazione degli istituti missionari in seno alle chiese locali, processo
che li sta facendo passare per istituti religiosi tout court. Roma ha fatto il
primo passo in questo processo mettendo, nel rinnovamento della Curia, gli
istituti missionari che sono pure congregazioni religiose, alla dipendenza
della Congregazione per i religiosi (e non alla dipendenza della Congregazione
per l’evangelizzazione dei popoli, all’ombra della quale nacquero e si
affermarono nella chiesa). Ma, prima che Roma lo facesse, gli istituti
missionari si erano già adeguati a questa situazione mimetizzandosi tra gli
istituti religiosi e lasciandosi confondere con essi, per l’assenza di una
metodologia kerigmatica e di un modo proprio di essere e di vivere il loro
carisma missionario.
In
terzo luogo, i missionari degli istituti ad gentes vennero a trovarsi isolati
in “ambienti particolari” di prima evangelizzazione, per i quali le chiese
locali non disponevano, né dispongono, di risorse umane e di altro genere. Mi
riferisco alle situazioni di povertà ed esclusione sociale, alla quale la
presenza dei missionari ad gentes continua a essere legata, presenza che deriva
da un legame intrinseco con il proprio carisma (gli istituti ad gentes
proclamano tutti uno speciale legame prioritario del Vangelo “ai più poveri e
abbandonati”, e il lettore starà già pensando che era ora che io usassi
l’espressione e menzionassi questa priorità). Mi riferisco, per esempio in
Africa, ai gruppi umani ed etnici che sono rimasti al margine dei processi di
trasformazione sociale e ai quali i missionari degli istituti ad gentes si
sentono particolarmente legati come gruppi umani di prima evangelizzazione.
Mi
riferisco, per esempio, alle situazioni geografiche di grande isolamento e di
instabilità sociale a cui i missionari hanno saputo mantenersi fedeli anche a
rischio della propria vita. Mi riferisco, per ultimo, alle situazioni di
esclusione sociale, alle periferie delle favelas e delle zone di povertà delle
grandi città latinoamericane e africane, per le quali i missionari degli
istituti ad gentes si attivarono negli ultimi decenni. L’isolamento degli
istituti ad gentes in questi ambienti è ambivalente. Da un lato, è espressione
del proprio carisma e rivela il profetismo degli istituti davanti a queste
situazioni più esigenti in termini di evangelizzazione, di presenza e di
annuncio della novità cristiana.
Ma,
per un altro verso, questa situazione corre il rischio di mantenere i
missionari al margine dei processi di cambiamento ecclesiale. Se la Chiesa
esiste per evangelizzare e l’evangelizzazione è la ragion d’essere della
Chiesa, come è proclamato nei documenti del magistero, allora questo isolamento
dovrebbe essere rivisto: la periferia appartiene al missionario come frontiera
della sua missione, ma egli non dovrebbe perdere la capacità di stare nel
centro, nel cuore della Chiesa, ed in esso poter accompagnare i processi di
trasformazione ecclesiale, tanto a livello di chiesa locale come di chiesa
universale.
L’ESPORTAZIONE
DI
UN MODELLO
In
questo dinamismo di collocazione dinanzi ai processi di transizione in atto
nella Chiesa, e coscienti della crescente importanza delle chiese locali del
sud, gli istituti missionari hanno cercato, soprattutto a partire dagli anni
‘70, di portare al sud i modelli della loro presenza e attività nel nord. Mi
riferisco al fatto che essi, oltre a dedicarsi all’evangelizzazione come
avevano sempre fatto in Africa, nelle Americhe e in Asia, hanno iniziato a
dedicarsi anche all’animazione missionaria e alla promozione vocazionale e
formazione dei candidati in queste chiese.
All’inizio
questa esportazione di modello da nord a sud pareva avere senso, soprattutto
nel campo vocazionale. Mentre le chiese del nord incominciavano a dar segno di
crisi vocazionale, quelle del sud offrivano potenzialità straordinarie di
crescita soprattutto fra la gioventù. I risultati nella formazione in queste
chiese locali (come il Messico in America, la Nigeria in Africa, l’India e le
Filippine in Asia) furono certamente incoraggianti per alcuni istituti che
formarono un numero molto significativo di candidati in queste chiese locali.
Ma, col passare degli anni, si è arrivati alla fine del secolo con la
percezione che il semplice travaso di modello da nord a sud cominciava ad
apparire problematico e insostenibile.
Fu
precisamente nella formazione che questi fattori-limite cominciarono ad
apparire. Sorsero diffusi problemi di mancanza di identificazione dei candidati
con la vocazione missionaria. L’indice di abbandono dei candidati e dei membri
oriundi dalle chiese del sud finì per rivelarsi molto alto (per esempio in
Messico, Brasile). In alcune chiese locali apparvero presto i sintomi della
crisi vocazionale e della diminuzione delle vocazioni missionarie (per esempio,
nelle Filippine).
Allo
stesso modo, nel lavoro di animazione missionaria sono cominciati ad apparire i
segni dell’insostenibilità del modello. In alcune circostanze i progetti di
animazione missionaria si sono dimostrati irrilevanti per le chiese locali e
difatti non le hanno mobilitate. I missionari hanno avuto un certo successo nei
mezzi di comunicazione sociale, ma non sono riusciti a lanciare iniziative
significative di evangelizzazione in seno alle chiese locali dove le stesse
apparentemente sarebbero più necessarie. Per tutte queste ragioni, gli istituti
ad gentes appaiono oggi portati a ripensare il loro modello di presenza nelle
chiese del sud, a cominciare dalla formazione. Sotto molti punti di vista, il
modello di vita degli istituti ad gentes, nato e affermatosi nelle chiese
locali del nord, non trova condizioni di sopravvivenza nelle chiese del sud
senza un grande adattamento. Il futuro dirà se gli istituti missionari avranno
la creatività per farlo.
DOVE
STA
IL
FUTURO?
Siamo
giunti, così, alla parola chiave che racchiude la conclusione del processo sul
quale abbiamo tentato di riflettere: il futuro! Questo darà la risposta alle
domande suscitate da questa riflessione. Naturalmente dobbiamo anche cercare di
capire quale sarà il futuro degli istituti missionari alla luce di questo
processo di cambiamento che riguarda la Chiesa universale e le chiese locali in
questo inizio del secolo XXI.
Questo
processo colloca agli istituti la sfida di riproporre la loro identità nel contesto
ecclesiale che viviamo. Alcuni hanno usato la parola “rifondazione” per
riferirsi a questa impresa globale che incombe sugli istituti missionari. La
parola può, di fatto, servire per esprimere ciò che importa fare da parte loro:
partendo dall’esperienza della fondazione, affermare in questo nuovo contesto
ecclesiale il loro carisma come carisma di evangelizzazione. Ma come è
possibile, che cosa bisogna fare per riuscirvi?
Le
risposte saranno diverse, secondo i punti di vista. Qui ne espongo una, naturalmente
discutibile. I fondatori degli istituti missionari furono persone che fecero
una esperienza profonda, unica e pertanto carismatica, di Dio, di Cristo, nei
contesti della Chiesa e della società del loro tempo. Nel vivere e approfondire
questa esperienza essi trovarono un metodo per condividerla nella Chiesa,
esercitando una forza di convocazione e di attrazione.
A
partire da questa esperienza furono capaci di creare un movimento di
evangelizzazione a favore dei popoli e delle culture, da cui sorsero gli
istituti missionari che oggi abbiamo (il fondatore di quello a cui appartengo,
san Daniele Comboni, sognò un movimento di evangelizzazione in relazione
all’Africa centrale, un ampio movimento a cui cercò di interessare vari settori
della Chiesa del suo tempo, motivato teologicamente e spiritualmente nella
contemplazione del Cuore trafitto di Cristo buon pastore).
Alla
luce di questa “parabola fondazionale”, gli istituti missionari avranno futuro
e funzione propria nella misura in cui saranno e appariranno come espressione
di una significativa esperienza di Dio, di Cristo e del Vangelo, nelle chiese
locali dove si trovano e nelle società in cui vivono. Avranno futuro nella
misura in cui daranno corpo a questa esperienza in una metodologia che permetta
loro di condividerla con le chiese locali e rivelino così una forza di
convocazione, creando un movimento di evangelizzazione che dia risposta alle
loro necessità e sfide missionarie.
In
questo senso, credo che la lettura teologica della parabola fondazionale
consiglierebbero gli istituti missionari ad gentes a guardare di più agli
attuali movimenti ecclesiali. Questo perché gli istituti missionari, suscitati
dallo Spirito, nacquero come movimenti ecclesiali che diedero risposta alle
sfide dell’evangelizzazione in una situazione particolare e solo dentro questa
premessa teologica ed ecclesiale potranno mantenere oggi e sempre il loro
significato e la loro identità di istituti in seno alle chiese locali.
Oltre
a ciò, le motivazioni per la missione hanno smesso di essere esterne, come in
certo modo lo furono in passato, sia in relazione ai processi di trasformazione
sociale (le urgenze della giustizia sociale) che in relazione alla necessità di
entrare nella Chiesa (l’urgenza della salvezza). Le motivazioni per la missione
cristiana nel mondo hanno cessato di essere esterne per diventare interne; cioè
affermarsi dal di dentro, sgorgare da un’esperienza di vita cristiana che viene
proposta agli altri.
È
in questo dinamismo di proposta di vita cristiana che la missione oggi ha la
sua giustificazione e, giustamente, la sua promessa di fecondità. I nuovi
movimenti e comunità fanno fondamentalmente questo: sono capaci, primo, di
vivere e di dar corpo a una grande varietà di esperienze e vie di vita
cristiana e, in secondo luogo, di elaborare una metodologia che propone queste
esperienze come vie di vita cristiana, personale e comunitaria, ecclesiale.
LE
OPZIONI
CHE
SI IMPONGONO
Stando
così le cose, che cosa dovranno promuovere in se stessi gli istituti missionari
per avere significato e garantire la propria fecondità nei processi di
transizione ecclesiale in corso? Le sfide sembrano essere essenzialmente due:
rivisitare con una rinnovata mistica (“mettendo al centro l’Amore,” per usare
l’espressione di Benedetto XVI) la loro esperienza fondazionale, di vita
cristiana e sequela per la missione; scoprire una metodologia specificamente
evangelizzatrice che proponga questa esperienza di vita come cammino ecclesiale
significativo per le chiese oggi. Queste due sfide esigeranno varie opzioni
concrete che enumero brevemente e che meriterebbero uno sviluppo più ampio.
Primo:
un ritorno chiaro al kerigma, alla Parola. L’annuncio del Vangelo, la
proclamazione del kerigma cristiano (il senso dell’esistenza umana in Cristo),
hanno sempre fatto parte dell’identità della missione. Quello a cui abbiamo
assistito ultimamente è consistito nel far tacere il kerigma. Gli istituti non
hanno generato in seno alle chiese locali le “scuole della Parola” o i “centri
di vita e di iniziazione cristiana” che l’evangelizzazione richiede.
In
secondo luogo, valorizzare soprattutto la testimonianza, che di per se stessa
diventa annunzio, elemento di attrazione e convocazione. Nel sottolineare la
testimonianza, l’essere sul fare, mi sento nella (buona) compagnia col più
recente magistero della Chiesa. Da Paolo VI nella EN, a Giovanni Paolo II
(Nella RH e nella NMI) la dimensione della testimonianza ha continuato a essere
costantemente sottolineata e ricordata ai missionari.
Terzo:
vivere la missione come esperienza di fraternità, una missione pensata e
vissuta in fraternità nella comunità, nella chiesa locale in cui si vive.
Questo senso di comunione con la chiesa locale, che rende possibile la sinergia
e la collaborazione, appare fondamentale per il futuro degli istituti
missionari. Giovanni Paolo II ha sottolineato questo ritorno alla comunione
ecclesiale da parte degli istituti e dei movimenti, invitandoli a incontrarsi e
a collaborare in nome della missione, e parlando della missione come “scuola di
comunione”.
Quarto
e ultimo in ordine di posto ma non di importanza: pensare la missione come
movimento ecclesiale ampio, comprendente un pluralismo di ministeri e dando più
rilievo ai ministeri non ordinati, particolarmente a quelli laicali e ai ministeri
della donna. Il significato ecclesiale degli istituti ad gentes, come abbiamo
sottolineato, dipende da questa capacità di vedere e collocare la loro missione
nel contesto di una grande varietà di ministeri e carismi che certamente
caratterizzerà la chiesa del futuro, e di trasformarsi così in strumento dello
Spirito nell’animazione delle iniziative di evangelizzazione che nasceranno
nelle chiese locali del secolo XXI.
Ciò
che abbiamo detto richiederà dagli istituti missionari ad gentes l’adozione di
due concetti guida. Il primo è quello della “fedeltà creativa”. Dopo il
concilio Vaticano II si è insistito sul ritorno al carisma fondazionale. Ma
questo ritorno non può essere solo un movimento all’indietro, uno sforzo di
ricupero. Deve essere anche movimento in avanti, una capacità di vivere il
carisma in modo nuovo nel contesto dei cambiamenti ecclesiali in corso. Il
concetto di “fedeltà creativa”, che è stato usato da alcuni superiori generali
(per esempio, dal p. Kolvenbach nella preparazione della prossima congregazione
generale dei gesuiti), può aiutare a discernere le vie nuove che si devono
seguire. Il secondo concetto è quello della “minoranza significativa”. Gli
istituti missionari ad gentes dovranno comprendersi come minoranze
significative nel contesto delle chiese locali, lasciando da parte sogni e
funzioni di altra natura. Più importante del numero dei loro membri, o la
molteplicità delle loro opere, sarà il contributo che, come minoranza
significativa, daranno alle chiese locali nei loro sforzi per rispondere alle
sfide della missione cristiana oggi nel mondo.
P. Manuel Augusto Lopes Ferreira, mccj