ESSERE MISSIONARI OGGI

 

Nel Vangelo di Marco (3,14-15) si legge che Gesù «ne costituì dodici perché stessero con lui e per mandarli a predicare». Lo «stare» non è la premessa dell’invio, ma molto di più. Il rapporto fra i due momenti è costantemente circolare. È stando con Gesù che si comprende la necessità dell’andare: perché andare,dove, per quale annuncio. Ma è andando che si sta veramente in compagnia di Gesù: la sua vita, infatti, è itinerante, senza fissa dimora. L’universalità è al cuore dell’evento di Gesù: il Crocifisso è il Figlio di Dio che muore per tutti e il Risorto è il Signore del mondo.

L’universalità è dunque una nota che caratterizza il vero Dio, come la misericordia, la bontà o altro. Mancasse questa nota non si potrebbe più parlare del­la figura del Dio di Gesù Cristo. Il «per tutti» è la direzione obbligata, perché qualsiasi gesto pastorale possa dirsi evangelico. Ma allora non si può più pensare alla missio ad gentes come il punto di arrivo degli altri momenti della pastorale, quasi ne fosse l’ultima tappa, ma è l’orizzonte da cui partire per comprende­re ogni forma di pastorale e correttamente con figurar­la.

Missione ad gentes dice un modo di fare missione, non soltanto né anzitutto un luogo dove fare missione. Anzi dice un modo di fare pastorale semplicemente, un modo di essere Chiesa. La nota costante è il «per tutti», l’oltre. L’ad gentes dice una tensione e una mo­dalità. (…)

Ma quali sono i veri motivi che spingono ad annunciare Gesù Cristo? La domanda è cruciale, ma la risposta che so dare è semplice, persino ovvia.

Le ragioni per annunciare Gesù Cristo sono tutte racchiuse nello spettacolo della sua vita. E sono la bellezza, la verità e l’amore. Tre cose che non stanno ferme. Quando ti imbatti in una cosa bella, tu la racconti. E quando ti imbatti in una cosa vera, tu la dici. E se hai capito che la storia di Gesù è come un lampo che ha illuminato per sempre il cammino del mondo e dell’uomo dandogli un senso, allora tu lo racconti. Non puoi fame a meno. E se l’incontro con Gesù Cristo ha cambiato la tua esistenza dandole forza, direzione, gioia di vivere, allora tu inviti gli amici a con­dividerla.

Non c’è forza missionaria semplicemente in un Vangelo per sentito dire, né c’è forza missionaria in un incarico sentito come un ordine che sopravviene dall’esterno. La missione nasce unicamente dal di dentro. Sappiamo che la salvezza di Dio è più larga della conoscenza di Gesù Cristo. Tuttavia è missionario solo chi ha capito che il conoscere Gesù e il non conoscerlo non è la stessa cosa. In ogni caso, utile o no, non puoi non raccontare a tutti ciò che Dio ha fatto per tutti.

 

È abituale, oggi, usare la parola missione per un ventaglio assai ampio di cose: è missione anche l’esercizio della propria professione, l’educazione dei figli, le attività in parrocchia. Quest’uso molteplice del termine svela un’importante verità, e cioè che dietro la varietà dei molti impegni c’è un’anima comune, che è la testimonianza. Ma c’è anche il rischio di perdere il senso forte della missione. La missione per eccellenza, quella a partire dalla quale si comprendono le altre, resta la missione ad gentes. Certo non si regge da sola, o staccata, perché ha bisogno di un tronco che la fa vivere. Ma è la punta più alta, più esposta, che meglio esprime la vitalità e la giovinezza dell’albero. È in essa che si scorgono con più chiarezza le strutture fonda­mentali di ogni missionarietà: per esempio l’esodo, l’annuncio e l’universalità.

Ogni cristiano è chiamato a staccarsi da sé e dal proprio mondo per andare verso il nuovo e l’altro. Il missionario ad gentes si stacca dal suo mondo e dalla sua cultura per avvicinarsi a un mondo diverso. Naturalmente l’esodo non si misura sulla distanza geografica (che pure resta un segno), ma su quella culturale e religiosa. E non si misura sul dare (si può dare, infatti, restando all’esterno, senza uscire da sé), ma nel capire.

L’annuncio di Gesù Cristo è sempre nuovo, anche là dove già è conosciuto. La sua novità, infatti, non è temporale, ma qualitativa. Tuttavia è là dove il suo annuncio risuona per la prima volta che esso mostra con più chiarezza la sua carica rinnovatrice. Un’esperienza, questa, che il missionario non deve tenere per sé, ma comunicare alla sua Chiesa, che incorre sempre nel rischio dell’abitudine. I missionari ad gentes hanno due compiti, non uno: annunciare Cristo a tutti i popoli e ringiovanire le comunità da cui sono partiti. Per questo i missionari devono sempre andare e ritornare, e devono sapere che il ritornare è importante quanto l’andare.

L’universalità è una dimensione che accompagna ogni forma di vita cristiana. Ma è importante riconoscere che di questa universalità la missione ad gentes è il segno più visibile, quasi la prova del nove della cattolicità di una Chiesa: la prova, in altre parole, della verità della sua generosità, della sua convinzione che Cristo è la salvezza di ogni uomo, della sua capacità di trasformare ogni cultura senza violentarla.

Bruno Maggioni

da Fino ai confini della terra

Editrice Ancora, Milano 2006