CINQUE RELIGIOSE SI CONFESSANO

“MI PIACE ESSERE SUORA”

 

Cinque brevi storie di “ordinaria” chiamata alla vita consacrata. Dalle prime esperienze di volontariato a una scelta impegnativa per tutta la vita. Le difficoltà non mancano neanche dopo una scelta definitiva. Inserite nella storia e alle prese con un mondo da amare prima ancora che da temere.

 

Una felice sorpresa. In piena estate, 7 luglio u. s., il settimanale diocesano di Brescia, La voce del popolo, esce con il paginone centrale dal titolo accattivante Mi piace essere suora. Cinque religiose si confessano. Lo fanno con semplicità, lontanissime dallo scoop alla moda. Semmai lo scoop è quello anche solo di aver pensato un servizio del genere per un settimanale che solo saltuariamente, come tutti i settimanali diocesani, si interessa della vita consacrata.

In questo servizio non attendiamoci nessuna folgorazione, nessuna “caduta da cavallo”. Sono storie di ordinaria vocazione alla vita consacrata, scritte da persone che un po’ tutti abbiamo incrociato nella nostra vita.. Il tono è pur sempre quello di “religiose”. La realtà dei fatti viene facilmente letta e trasfigurata alla luce di quello che solitamente ci si attende, bene o male, da una religiosa. Si comprende fin troppo bene quanto queste religiose siano nei fatti, di sicuro, molto più concrete di quanto non traspaia poi dal loro scritto. Eppure sarebbe un peccato se le loro testimonianze venissero lette solo da altre religiose. E il fatto che questo paginone sia stato pensato per un settimanale diocesano fa ben sperare che oltre alle consorelle, anche i confratelli, religiosi e diocesani, e possibilmente anche i laici, trovino una mezz’ora di tempo per una sua rapida lettura.

 

LA “CARRUCOLA”

DELLA CLAUSTRALE

 

«Mi piace essere suora», esordisce Alberica Vitali delle suore maestre di santa Dorotea. Fin da giovane voleva capire chi sarebbe potuta essere nella vita. Nessun ripensamento, nessuna nostalgia da quando ha compreso di essere «stata pensata come suora da Dio». Da allora «non più ripensamenti o nostalgie», dal momento in cui si è iniziato un percorso di vita in cui è fondamentale il tempo quotidiano della preghiera mattutina, quando davanti passano volti, situazioni umane foriere di interrogativi e di speranze.

Il lavoro viene dopo, «dopo l’essermi trovata dentro la relazione con il Tu di Dio, che mi permette di rilanciarmi verso il mio lavoro, appunto, e di darmi più nuova, più ricca, più lieta». Solo quando il lavoro diventa offerta e strumento di relazione con il Signore, quando questo stato e questo rapporto è vissuto come un fortunato destino, è allora facile comprendere come la scelta vocazionale possa essere diventata una scelta di emancipazione vera e propria.

Nessun ripensamento neanche da parte di suor Miriam delle madri clarisse di Lovere. Nell’atteggiamento di Marta che va incontro a Gesù, non appena viene a sapere che il Maestro si stava avvicinando a Betania, «ho visto fotografata la mia storia – passata, presente e futura – con il Signore». La parola di Dio, nella sua vita, è sempre stata luce per i suoi passi. Anche se convinta che da sempre il Signore è stato accanto a lei, «però, se debbo identificare un momento preciso e decisivo in cui mi sono accorta, effettivamente ed affettivamente, di questa sua presenza non posso che riandare all’estate del 1978, al mare, in una colonia dove mi trovavo come animatrice». Allora era una diciassettenne «con la testa e il cuore gonfi di interrogativi, con una fede cristiana ricevuta in famiglia che cominciava a diventare un bagaglio pesante di cui disfarsi». Pur cercando Dio, lo percepiva lontano, indifferente. Grazie all’invito, una sera, a recitare con due amiche la preghiera di compieta, si è spalancato di fronte a lei un orizzonte nuovo.

Anche se nei suoi ultimi anni di scuola superiore e nei primi anni di università è andato aumentando l’entusiasmo di coinvolgere altri nell’amicizia con Gesù Cristo, tuttavia, il farsi suora non rientrava ancora nei suoi sogni. L’unico germe di attrattiva, dovuto anche al corso di laurea in lingue e letterature straniere, era quello della vita missionaria. E invece, a un certo punto, è entrata in un convento di clausura sulle sponde del Sebino, in quel di Lovere. «Il mio immaginario sulla vita contemplativa claustrale in breve si è sbriciolato, davanti all’evidenza. Le sorelle erano persone normali, che a ricreazione si facevano anche delle fragorose risate e che avevano compreso la loro vocazione in una quotidianità non molto diversa dalla mia». La loro scelta radicale di Dio, nella preghiera, nella fraternità, nella semplicità e nella povertà, alla fine, ha convinto anche lei «ad attaccare il secchio all’antico pozzo del secondo ordine francescano per attingervi al fondo l’acqua viva del Vangelo».

Da ormai ventitre anni «la carrucola va su e giù», in un susseguirsi di eventi avventurosi non sempre facilmente comprensibili dall’esterno. La ricerca del volto del Signore, infatti, «non è un’impresa tranquilla». Non per nulla il Signore si sottrae facilmente a tutte le sempre insorgenti proiezioni e contraffazioni umane. Vivere in povertà e unità di spirito con le consorelle significa sentirsi impegnate in un’impresa «che sicuramente non avrà termine quaggiù». Il cammino di discepola del Signore Gesù, confessa suor Miriam, è solo agli inizi. È un cammino, però, illuminato non solo dagli esempi di quella che Francesco chiamava “la cristiana” (Chiara d’Assisi), ma soprattutto da colei (Maria) che, nel Vangelo, è stata dichiarata “beata” per aver creduto, fin dall’inizio, alla parola del Signore.

 

IL “SEGRETO”

DI UNA VOCAZIONE

 

Anche per Marisa Buffoli, una giovane religiosa delle madri canossiane, professa temporanea da tre anni, non è facile esplicitare le ragioni di fondo della propria scelta vocazionale. Alla sua età, sua madre aveva già quattro figli. Anche lei si è chiesta a lungo perché “farsi suora” e che senso potesse avere la scelta di una vita “così strana”. Però, a un certo punto, quando ci si accorge di avere esaurito tutte le giustificazioni per dire di no, non è più possibile fuggire. Dopo aver terminato gli studi e aver trovano lavoro, osserva, «non ero soddisfatta. Mi pareva che la vita mancasse, non tanto di qualcosa, ma di qualcuno, di un senso per cui valesse la pena alzarsi la mattina, faticare durante il giorno e riposare la notte».

Ma anche una volta fatta la scelta definitiva, «non vi è, almeno per me, alcuna certezza matematica che questo tipo di vita, a cui mi sembra onestamente di essere chiamata, sarà la mia pienezza». Ciò non le toglie comunque «la sicurezza di essere qui, in una comunità religiosa, perché mi sono limitata a rispondere a una chiamata, di cui io stesso scopro, man mano che procedo, i motivi».

Solo due anni fa suor Marisa ha appreso dal padre, gravemente ammalato, il “segreto” della sua vocazione. Lei aveva solo dieci anni quando venne diagnosticato un tumore al fratello maggiore, allora quattordicenne. E proprio in quel frangente, all’insaputa della madre che non ha mai accettato di buon grado la scelta della figlia, il padre le rivela di aver fatto un voto a Dio: in cambio della vita del figlio quattordicenne ammalato di tumore, avrebbe offerto al Signore un puledrino e uno dei suoi quattro figli che, a detta sua, alla fine sarebbe poi stata suor Marisa.

Ovviamente quando è maturata la decisione di consacrarsi al Signore, lei Marisa ignorava del tutto il voto di suo padre. Nel suo paesino aveva conosciuto delle religiose “veramente in gamba” (le Adoratrici di Spinelli). Sono state loro a favorire, nella preghiera e nel servizio soprattutto in una colonia estiva che ospitava molti bambini con situazioni famigliari disastrose alle spalle, l’incontro di Qualcuno. Pur essendo da sempre praticante, la prima seria esperienza personale di Dio l’ha vissuta a 24 anni, durante un’adorazione eucaristica. Solo allora, quella fede ereditata passivamente dall’ambiente, è diventata molto più personale e consapevole. Dopo un cammino di ricerca, tra alti e bassi, è approdata nell’istituto delle suore canossiane.

Ora, anche nella piena consapevolezza che la vita consacrata in genere, come una barca in preda alle onde, sta attraversando un periodo di «traghetta­mento su un’altra riva che ancora non si conosce», non viene meno la certezza che lui, il Signore dei venti e del mare, è lì sulla barca: «Basta svegliarlo».

 

IL “SOGNO”

DI UNA GRANDE FAMIGLIA

 

«Mi rivedo ragazzina, timida e paurosa varcare la soglia della nuova scuola (una scuola cattolica) dopo la conclusione della scuola elementare». Incomincia così la sua testimonianza sr. Mariacecilia Signorotto delle suore dorotee di Cemmo. Si apriva per lei una porta su un mondo sconosciuto, dove, però, fin dall’inizio, ha potuto incontrare «donne appassionate a quanto insegnavano, esigenti e materne, concrete nell’educazione, donne gioiose», che ha avuto la possibilità di incontrare anche in orario extrascolastico, la sera, mentre pregavano insieme, con le braccia aperte.

Terminato il periodo scolastico, non è venuto meno, però, «il legame con queste donne che non finivano di attirarmi». Non sono mancate altre esperienze, altri ambienti, altri rapporti, altri climi non sempre del tutto sereni. Anche «il desiderio di una famiglia numerosa mi ha accompagnato per molti anni».

Quelle donne “misteriose”, un po’ alla volta sono diventate sempre più reali, avvicinabili, anche «più povere di quanto le avessi conosciute», ma pur sempre ricche di fascino, soprattutto per un progetto di vita che sembrava anche alla sua portata. Sono state proprio loro «a condurmi con la pazienza del dialogo, delle proposte e dell’ascolto» all’incontro di quella Persona «che da sempre aveva pensato a me».

E così, un po’ alla volta, è andato concretizzandosi quel “sogno di una grande famiglia” ben più vasto e molto diverso da quello che, in passato, aveva pensato di poter realizzare attraverso il matrimonio. Quelle donne gioiose, anche attraverso la matematica, la stenografia, l’italiano e la ginnastica, le si sono rivelate, in senso pieno, delle “madri”, capaci di trasmetterle «il gusto della vita vissuta pienamente e gioiosamente per Dio e per gli altri».

Certo, oggi si trova a vivere una vita «che non affascina più le ragazzine», una vita nella quale, però, crede con tutta sé stessa. Il frutto della sua maternità è in qualche modo nascosto come il figlio nel tempo della gestazione. È un tempo in cui sr. Mariacecilia si sente chiamata insieme a tante altre donne come lei «a vivere gioiosamente e a porre gesti nei quali gli altri possano essere toccati da una verità luminosa intramontabile e inesauribile nel tempo». Se è vero che «non siamo stati noi ad amare Dio, ma lui ci ha amati per primo», allora è proprio il caso di dire che «non ci sono altre ragioni per continuare a vivere questa vita».

È la stessa ragione di fondo da cui è maturata la consacrazione di suor Cristina Beffa, delle Figlie di san Paolo. «Sessant’anni suonati, osserva, sono davvero tanti», anche se per la verità, aggiungiamo noi, oggi come oggi, possono essere anche pochi. Per convincersene basta affacciarsi in una delle sempre più numerose case di riposo soprattutto degli istituti religiosi femminili. Ma “come e quando”, si chiede, sono passati questi anni? Se, a causa degli “alti e bassi esistenziali” è già difficile pensare al “come”, ancora più problematico è il “quando”, dal momento che gli anni «si sono dipanati formando un cumulo di giorni con una rapidità travolgente, soprattutto dopo i 45». Quello che più conta, comunque, è il fatto di «aver vissuto intensamente e con entusiasmo» la propria esistenza.

Suor Cristina di occupa di comunicazione, uno dei campi in cui è facile toccare con mano il progresso tecnologico dell’umanità, un progresso, come ha scritto papa Ratzinger, che «ha vinto il tempo e lo spazio, permettendo la comunicazione istantanea e diretta tra le persone, anche quando sono diverse da enormi distanze».

Proprio per questo, non si può operare nel campo della comunicazione sociale se non si è pienamente inseriti nella storia. Suor Cristina cerca di immergersi nella nostra storia, di darsi spessore culturale, morale ed etico per essere una piccola profetessa nel mondo dei media. Purtroppo questo mondo è sempre più lontano da Dio. Questo però non le impedisce affatto di amarlo prima ancora di difendersi da esso, di starvi al suo interno «con creatività piuttosto che con paura». Sr. Cristina è una suora paolina, la cui spiritualità, come ben sappiamo, è tutta incentrata in Gesù Maestro Via (modello, stile di vita), Verità (buona notizia) e Vita (lode continua a Dio). In un mondo in cui Dio sembra non esistere più o quanto meno non informa più a cultura, provare a esserci con la positività che deriva dal sentirsi partecipi dell’universo, per lei e per quanti operano nel suo campo, non è di sicuro un traguardo minimo.

 

Angelo Arrighini