CAPITOLO
GENERALE DEI GIUSEPPINI
CONDIVIDIAMO
UN SOGNO
«Sono i grandi
sogni che fanno partire le carovane». Questa consapevolezza ha accompagnato il
capitolo generale dei giuseppini del Murialdo i quali prendono il nome dal
“sognatore” del Vangelo: Giuseppe di Nazaret.
Il
capitolo come sogno: questo è il primo spunto di novità. Un evento che inizia
il giorno di Pentecoste (04.06. 2006) inevitabilmente fa risuonare alto ciò che
è all’origine della Chiesa: «Dice il Signore, io effonderò il mio Spirito sopra
ogni persona; i vostri figli e le vostre figlie profeteranno, i vostri giovani
avranno visioni e i vostri anziani faranno dei sogni» (At 2,17). Dunque si è
Chiesa in quanto “visionari” e “sognatori” e non unicamente perché figli di
questi. Anche i carismi dei vari istituti sono nati da un “sogno” del
fondatore. Sognare è cantare il futuro di Dio e nostro, nonostante i tanti
limiti che si intravedono, con la consapevolezza che «il futuro appartiene a
chi non ha nulla da perdere, da difendere, da trattenere».1
I
capitolari consapevoli che non c’è mai stata un’epoca come questa in cui ci si
deve letteralmente inventare il futuro non si sono spesi molto nell’impegno
difensivo ma piuttosto in quello evolutivo, e alla fine la preoccupazione non è
stata quella di formulare degli imperativi (decreti, deliberazioni, atti…) ma
di consegnare ai confratelli un sogno per farne dei sognatori, piuttosto che
dei «notai». Ma il sogno per non esaurirsi nella sfera onirica ha bisogno di
configurarsi in progetti che, affondando le radici nel carisma, trovino senso
nella cultura attuale, non come prolungamento di vicende precedenti ma immaginazione
di ciò che ancora non c’è, a partire dai segni di vitalità in atto. Fare questo
è accogliere quanto suggerito da Ripartire da Cristo (12): «Davanti alla
progressiva crisi religiosa che investe tanta parte della società, le persone
consacrate, oggi in modo particolare, sono obbligate a cercare nuove forme di
presenza e a porsi non pochi interrogativi sul senso della propria identità e
del loro futuro».
COMUNITÀ
DI RELAZIONI
FRATERNE
E AMICIZIA
«Il
valore della comunità non sta soltanto nella “vita comune”, bensì molto di più
nella “comunione di vita”. Perciò una comunità è tale … se vive la koinonia,
cioè se dà testimonianza credibile di stare con Cristo, di dialogo fraterno
reciproco e sereno, se vive la comunicazione dei beni materiali e spirituali,
se sa porre gesti di riconciliazione e svolge una missione partecipata». A
partire dal fatto che «Dio guarda me con tenerezza e misericordia … anche noi
siamo chiamati a far nostro tale sguardo, intessendo relazioni di fraternità e
amicizia come segno della tenerezza e misericordia di Dio». «Da questo vi
riconosceranno come miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv
13, 35). Dunque al centro della comunione di vita è posto ciò che è al centro
della vita: l’amore (“rimanete nel mio amore”). Amare e sentirsi amati, è
sentire bisogno di famiglia, è sentire bisogno di normalità. Frutto di tutto
ciò è la gioia della comunione (intesa secondo un criterio di maturità),
irrinunciabile perché: «una fraternità senza gioia è una fraternità che si
spegne».2
Una
siffatta comunità diventa palestra di spiritualità e nel contempo laboratorio
di nuova umanità, cioè capace di rispondere al desiderio di relazioni vere,
responsabilità, simpatia, amicizia. Lo stesso amore di Dio si è vestito del
calore umano dell’amicizia (“voi siete miei amici”), e lo ha fatto per meglio
rivelarsi perché questa va ben al di là dell’insegnamento. La VR non ha
soltanto la funzione di costruire la persona secondo categorie evangeliche, ma
anche la costruzione di una persona che sia “creatura nuova” nell’oggi, non
avulsa dalla maturazione delle nuove istanze che vanno meglio a esprimere
compiutamente la persona. Allora l’impegno conseguente consiste nel passare
dall’essere confratelli a essere fratelli, vale a dire dall’essere struttura
all’essere modello di relazioni, connotato da semplicità, solidarietà,
preghiera, lavoro, benevolenza, piuttosto che da paternalismo, legalismo e
ritualismo: è su queste basi che prende forma la koinonia, senza la quale non
esiste comunità ma un apparato senz’anima, maschera di comunione che ci rende
simili a clown. Tutto ciò è possibile a partire dall’ abbandono di un modello
unico e statico di vita comunitaria, muovendosi verso modelli molteplici e
dinamici, riflesso di qualcosa che è mutato nei rapporti tra Chiesa e mondo:
«aderiamo con disponibilità a sperimentazioni di nuove forme e modalità di vita
comunitaria… promovendo percorsi nuovi di comunità aperte alla condivisione di
vita con i laici».
CARISMA
CONDIVISO
NELLA
COMUNIONE
I
capitolari si sono interrogati come ovviare a una certa autosufficienza
a-relazionale della vita religiosa, che pensa di trovare in se stessa tutto il
necessario per raggiungere i propri fini. La risposta che si sono dati è che
una congregazione oggi non può pensare se stessa a prescindere
dall’ecclesiologia di comunione e dalla comunione di vocazioni diverse. Per i
giuseppini, questo pensare ricondotto a progetto, prende il nome di Famiglia
del Murialdo: una «Famiglia» definita attraverso la forma dei “cerchi concentrici”
attorno al carisma, secondo il grado di prossimità. Radialmente, il primo
cerchio è formato da chi sceglie a tempo pieno la forma di vita consacrata,
stabilendo vincoli giuridici stretti con l’istituzione (giuseppini, murialdine,
istituto secolare): poi ci sono concentricamente a cerchi sempre più ampi,
coloro che vocazionalmente e comunitariamente fanno proprio il carisma
spirituale e/o la missione, a cui si impegnano mediante una promessa (LdM e
forme analoghe); questi due cerchi costituiscono la famiglia carismatica (in
senso stretto); in successione giovani, che forti di un cammino evangelico,
scelgono di vivere il carisma spirituale e apostolico in una qualche forma di
fraternità, per un determinato tempo; infine i collaboratori (in forme di impegno
diversificato) e le persone che condividono il sistema di valori. Le forme e
rispettive definizioni variano a seconda delle aree geografiche. A partire da
queste considerazioni il capitolo ha stabilito che «il governo ai vari livelli
(generale, provinciale, locale) impegni le comunità giuseppine ad aprirsi, a
leggersi, a integrarsi e a sperimentarsi sempre più in una comunione di vita,
in congregazione, allargata nella Famiglia del Murialdo, curando la formazione
reciproca, l’ascolto condiviso della Parola di Dio, la celebrazione
comunitaria, la progettazione e la missione partecipata». Il tutto «non solo
per incoraggiare la riflessione, ma anche sostenere altre forme di vita
fraterna in comunità tra confratelli o tra confratelli e laici»…«con disponibilità
a ripensarsi oltre l’opera».
SPIRITUALITÀ
NELLO
STILE DI VITA
Spiritualità
è aver sete del Dio vivente e sentirsi da lui amati; è la gioia di un
innamoramento, di un «che bello» a pieno cuore (Murialdo). Sperimentare ciò è
fondamentale affinché la vita del consacrato, con l’andare degli anni, non vada
verso una tiepida moderazione e si trasformi in un noioso adempimento di
costumi. Ma nel racconto del samaritano traspare che non è sufficiente
concentrarsi su se stessi o sulla propria perfezione, ma che siamo chiamati a
una vita nello Spirito che sappia congiungere passione per Dio e passione per
l’uomo. Il progetto di salvezza ha posto Cristo sulla strada della solidarietà
e a questo fine ha chiamato altri a realizzare le stesse sue opere in favore
dell’uomo, diventando racconto di un Dio che non si dimostra ma si mostra.
Allora spirituale è colui al quale lo sguardo amorevole e tenero di Dio sulla
sua vita lo rende capace di realizzare non solo la propria umanità, ma molto di
più, l’umanità di Cristo, spendendosi in ciò che coglie con gli occhi del
cuore. «Lo vide e ne ebbe compassione; gli si avvicinò e si prese cura di lui»
(Lc 10, 33). «Prendiamo ancor più coscienza che solo nell’atteggiamento del
samaritano, che fu capace di uscire da se stesso per aprirsi all’altro
mettendosi incondizionatamente al suo servizio, si troveranno i cammini per
avere vita e vita in abbondanza». Questa è la spiritualità cercata «una
spiritualità gioiosa che produce, in particolare, la capacità di vedere e
valorizzare il bello ovunque e in ciascuna persona» e «come l’incontro di Gesù
con la samaritana ha risvegliato in lei il desiderio di salvezza e l’ha resa
capace di annuncio; così l’invito di Gesù: “alzate i vostri occhi e vedete...”
(Gv 4, 35) … ci domanda di denunciare il male e di agire, specialmente là dove
Cristo con-fonde il suo volto con quello dei giovani poveri e abbandonati». «La
compassione di Dio per l’uomo vuol essere la nostra profezia nel mondo di oggi»
dando rilievo alla funzione umanizzante della spiritualità, consapevoli che
spiritualità e umanità vera non possono non convergere.
Questi
e vari altri testi hanno fatto crescere nei capitolari l’intuizione che la vita
cercata non è legata esclusivamente a opere, costumi o pratiche, ma a quelle
parole nelle quali Gesù ha messo tutta la forza del suo racconto: la
compassione e la misericordia.
Inculturalità
Già
la scelta dei consiglieri generali, per la nazionalità di provenienza, si è
presentata come un segno immediatamente leggibile di una congregazione che
scommette sulla autentica inculturazione del carisma in aree geograficamente
diverse da quella che è all’origine di esso. Le espressioni del capitolo che
dicono questo fanno riferimento a un modo nuovo di intendere la funzione del
carisma secondo il quale esso è l’alveo entro cui scorre un fiume, che è tale
se non si configura ovunque allo stesso modo, perché è se stesso solo in una
dinamica di continua trasformazione, cioè si dà temporalmente, attraverso una
processualità di mutazioni3 a seconda del luogo (cultura) attraversato. Questa
visione è fissata dal dettato dei capitolari: «Abbiamo visto il nostro fiume
arricchirsi di sempre nuova acqua… un fiume che trova la sua forza nell’unità.
Capace di accogliere chi confluisce ma anche di accompagnare chi dà origine a
nuovi rami»; «un fiume fatto di tante gocce, ognuna preziosa, ognuna a suo agio
nell’insieme. Ognuna diversa, ognuna essenziale per realizzare la missione.
Ognuna con la sua forza originale e ognuna con tutta la capacità di stare e
procedere con le altre in unità …di accogliere ogni opportunità, di percorrere
ogni strada che la Provvidenza fa intuire, per arrivare un po’ più in là, per
portare la sua vitalità oltre il già raggiunto». «Un fiume che sapientemente si
apre in mille anse … che attraversa tante terre e in ognuna di esse sa cogliere
le configurazione del territorio e integrarsi in esso, arricchendosi
dell’apporto di ogni diversità, senza però perdere la sua specificità che gli
viene dalle sue fonti».
AUTORITÀ
COME “ANIMAZIONE
DELLA
SUSSIDIARIETÀ”
«In
una famiglia religiosa il servizio dell’autorità ha senso se raggiunge lo scopo
di sostenere l’attuazione della fraternità e della corresponsabilità,
rafforzando l’unità attorno al carisma, favorendo la maturazione del senso di
appartenenza di ogni confratello». «La prima finalità a cui l’autorità risponde
non è tanto quella del controllo, della programmazione, dell’organizzazione,
del contenimento del livello inferiore, quanto piuttosto quella del sostegno,
dell’animazione, della guida e del discernimento sulle linee indicate dal
capitolo, nella valorizzazione massima possibile delle forme di
corresponsabilità e partecipazione». Inoltre «nell’esercizio concreto del
servizio dell’autorità, la congregazione ricerca e attua, a tutti i livelli,
soluzioni ispirate alla sussidiarietà4 nella complementarità». Sussidiarietà
non secondo la concezione liberista del “lasciar fare” inteso come “vedetevela
da soli”, ma piuttosto secondo la concezione della dottrina sociale della
Chiesa sviluppatasi negli anni successivi alla Quadragesimo anno, che induce
alla “libertà di fare”, attribuendo all’istituzione il compito di sostenere,
previo discernimento, questa libertà che non è da intendersi in ab-soluto ma in
relazione con il tutto: tra il lasciare fare e il fare direttamente
l’istituzione ha il compito di aiutare a fare, e di energizzare. Il servizio di
autorità è chiamato a passare da un servizio di attribuzione a sé di
responsabilità a «essere un servizio alla libertà dei membri perché possano
rispondere con generosità alla loro vocazione»,5 nel rispetto della
interdipendenza tra comunitarietà e soggettività. Per san Paolo non c’è
comunità senza interdipendenza di doni secondo cui ognuno ha “autorità” sugli
altri e conseguentemente ognuno deve essere “obbediente”. Il servizio
dell’autorità in funzione della crescita delle persone deve essere un’opera di
amore: «amare qualcuno è riconoscere il suo dono, aiutarlo a esercitarlo e ad
approfondirlo».6 Una comunità, dice J.Vanier, è bella quando ognuno esercita
pienamente il suo dono, e nello stesso tempo una comunità è veramente tale solo
quando ognuno si rende conto di avere terribilmente bisogno del dono degli
altri. Perché ciò sia reso possibile è necessario, oltre qualcosa di più
profondo, che l’obbedienza venga liberata concettualmente, ma anche nella
terminologia, dalla combinazione superiore-suddito, perché altrimenti, anziché
privilegiare il riferimento alla volontà di Dio, in ogni caso a disobbedire non
può essere che il “suddito”. La comunione di vita che abbracci soggettività e
comunitarietà è una risposta alle domande-sfida provenienti da ogni forma di
vita comunitaria.
…ed
ora vai
Il
capitolo «è stato celebrato per la prima volta in Brasile, nel nuovo mondo:
anche questo segno di novità e speranza». È stato un mese non solo ricco di
ricerca, ma anche «abbiamo pregato insieme, abbiamo goduto dei momenti di
festosa convivialità; abbiamo sofferto i momenti della tensione, abbiamo
liberato le emozioni attraverso gli applausi e anche le lacrime». Verrebbe ora
da dire che è stato un buon capitolo, se non fosse che questo non si misura
dalle dichiarazioni di intenti ma dai processi che riesce a mettere in atto,
vale a dire dalla capacità dell’insieme di assimilare il nuovo, che non esime
da rotture, per il fatto che oggi la vita religiosa non è abile solo per
concentrazione di esperienze ma per quanti adattamenti è capace.
1
Bini, La vita consacrata oggi, 8.
2
Vita fraterna in comunità, n. 28.
3
Guzzi M., Religiosi in Italia 4 (2002) 166.
4
Ma perché questo non fosse relegato nel limbo degli auspici o l’applicazione
della sussidiarietà non dipenda dalla discrezionalità del provinciale, ha
esigito che la definizione dei criteri e le modalità di attuazione venissero
espresso nel Regolamento delle Province.
5
6
Cf. Vanier J.