RICORDANDO
DOM LUCIANO MENDES DE ALMEIDA
LA
COSA PIÙ BELLA? CONSACRARSI AL SIGNORE
Dom Luciano era
un uomo piccolo, calmo, buono e arguto. Aveva presieduto la Conferenza
episcopale brasiliana, ma era privo di ogni sussiego. Aveva una fede
incrollabile e stava ad ascoltare con
grande pazienza e attenzione, si prodigava per i poveri e i soli. Il suo
profilo nei ricordi di Ernesto Olivero, fondatore del Sermig.
Dio
esiste, eccome! Dom Luciano ne è la prova. Lo avresti potuto trovare in una
sperduta casa di campagna o da un re, su un autobus o su un aereo, su un
marciapiede o in una sala di attesa. A vederlo sembrava un uomo qualunque, ma
aveva un sorriso speciale, la sapienza di un grande e la semplicità di un
bambino. La sua pazienza era inesauribile, la sua bontà grande. La sofferenza
fisica è stata la sua compagna negli ultimi anni, ma non gli ha mai impedito di
continuare ad amare.
Adriano
Sofri ha recentemente scritto su Panorama: «Olivero e i suoi lo consideravano
un santo, il più grande che abbiano incontrato. L’ho incontrato anch’io... Dom
Luciano era un uomo piccolo, calmo, buono e arguto. Era un prete importante,
aveva presieduto la Conferenza episcopale brasiliana, ma era privo di ogni
sussiego. Aveva una fede incrollabile e niente di bigotto. Stava ad ascoltare con
grande pazienza e attenzione, si prodigava per i poveri e i soli. Una volta mi
ha scritto: Il mondo ha, senz’altro, un grande valore. Ma mi sono a poco a poco
abituato a confidare nel Signore e a interpretare gli avvenimenti in chiave di
eternità».
DAL
BRASILE
AL
LIBANO
Penso
a cosa sarebbe stata la mia vita se non avessi conosciuto dom Luciano Mendes de
Almeida, vescovo brasiliano, gesuita: eppure avevo già una vita movimentata!
Era il gennaio del 1988. Alla stazione di Porta Nuova aspettavo il presidente
della Conferenza episcopale del Brasile. Nella mia immaginazione doveva
trattarsi di un grande prelato facilmente riconoscibile. Trovai invece un umile
prete dimessamente vestito. Di ritorno da un viaggio in Libano, in missione
presso i capi spirituali per conto della segreteria del sinodo dei vescovi, si
fermava a Torino per conoscere il Sermig. Noi lo avevamo invitato perché ci
parlasse del Brasile, delle tragedie e speranze del suo popolo. Volevamo
cominciare a rendere operante lì un’idea che aveva già ricevuto l’avvallo di
dom Helder Camara: non portare degli aiuti nei paesi poveri – mantenendoli così
dipendenti dai paesi ricchi – ma creare le condizioni di una certa autonomia,
anche intellettuale, morale. Dom Luciano aveva sentito parlare di noi dai
vescovi della Bahia, con i quali già ero in contatto per dei progetti, e aveva
accettato l’invito.
Viaggiava
da tre notti. Era molto stanco. Arrivati all’Arsenale della Pace (la nostra
sede a Torino), gli proposi di andare a riposarsi. Disse: «No, no, parliamo
adesso». Mi impressionò il suo atteggiamento: prima di parlare del Brasile, dei
bambini di strada, ci chiese di aiutare i fratelli libanesi provati duramente
da tredici anni di conflitto. Mi guardò e mi disse: «Lei dovrebbe andare in
Libano a portare un messaggio di pace». Io risposi: «Se Dio vorrà, andremo, e
aiuteremo quelli che soffrono». La nostra amicizia è cominciata da subito,
pensando agli altri!
Pochi
giorni dopo a Roma mi fece conoscere il patriarca maronita, che accettò il suo
suggerimento e mi invitò ufficialmente in Libano, a parlare di pace ai giovani.
VESCOVO,
POLITICO, UMANISTA
A
SERVIZIO DEI POVERI
In
seguito ci incontrammo a San Paolo per i progetti della nostra CIS (Cooperativa
internazionale per lo sviluppo), in brasiliano “Assindes” (Associação
internacional para o desenvolvimento). Allora dom Luciano era vescovo
ausiliario nella zona est di San Paolo e, coordinando la pastorale per i minori
della diocesi, aveva fondato un centinaio di case per bambini abbandonati.
Venne poi nominato vescovo della arcidiocesi di Mariana (Minas Gerais). I volti
dei poveri di Mariana si aggiunsero nel suo cuore ai volti dei poveri di San
Paolo, che continuava a visitare e aiutare. Ogni volta che faceva ritorno a San
Paolo si diceva che i primi a sapere del suo arrivo erano proprio i poveri;
loro osavano fermarlo, parlargli, chiedere qualunque cosa nonostante fosse una
persona importante.
Perdutamente
invaso da un amore totale per il Cristo, era un “uomo senza difese”, ma che
dinanzi ai poveri da difendere parlava e gridava. Sentiva che “la chiamata più
forte” era per lui quella di “condividere con gli altri i momenti difficili, le
sofferenze”. Lo avresti detto retorico vedendolo dare una mano a sparecchiare
la tavola, oppure aiutare un vecchio a portare delle borse. Ma poi ti accorgevi
che lui era così e il sospetto di retorica lasciava luogo alla meraviglia
dinanzi alla sua bellezza interiore. Era un “cristiano qualunque” innamorato
della preghiera e, come diceva lui stesso, “divenuto vescovo per servire i
poveri”. Non era possibile distinguere in lui uomo di Dio, uomo politico,
umanista: era veramente appassionato di tutto ciò che riguardava l’uomo, la sua
vita, la sua storia. Questa era la sua grandezza. Aiutava ogni povero senza
perdere la visione strutturale del problema della povertà e facendo quanto gli
era possibile per migliorare le politiche pubbliche. Fu uno dei padri dello
“Statuto del bambino e dell’adolescente” in Brasile, diede inizio alla
pastorale per gli uomini di strada, si adoperò per le politiche del lavoro e
della casa, per i problemi dei “senza terra”, per la campagna contro la fame.
Era convinto che non bastassero delle buone leggi ma che occorresse formare la
coscienza delle persone e dei governanti e per questo appoggiò la costituzione
di vari movimenti sociali. Era cittadino del mondo e mise instancabilmente la
sua opera a servizio non solo del Brasile ma di tutta l’America Latina e della
Chiesa universale.
È
stato tra i pochi vescovi presenti al funerale di Oscar Romero, martire del
nostro tempo. Quando le bombe hanno cominciato a mietere vittime ha udito
l’urlo della povera gente: «Piccolo Padre, ci assolva perché la morte è
vicina!». In quell’inferno, durato ore e ore, lui pregava in mezzo alla folla.
Lui stesso raccolse i morti nella piazza per comporli in chiesa e benedirli.
Non ebbe paura di mettere per scritto quello che aveva visto. Quando tutto fu
concluso era ormai l’una di notte. Attraverso mille peripezie fu portato al
sicuro all’ambasciata brasiliana: lì si ricordò che la messa era stata
interrotta per le bombe, mentre il sangue incominciava a scorrere e tutto
veniva travolto dalla folla, l’altare, il calice con il vino consacrato... Il
“padre piccolo” decise di riprendere la messa e portarla a termine.
“DEUS
É BOM”
DIO
È BUONO
La
sera del 24 febbraio 1989 una telefonata di padre Aldo Lucchetta dal Brasile mi
fece trasalire: dom Luciano aveva avuto un incidente in macchina e il suo
segretario padre Angelo Morena - che conoscevo molto bene - era morto, mentre
lui era in fin di vita. Quella notte non potei dormire. Non potevo pensare che
dom Luciano morisse, pregai e feci pregare per la sua vita. Sentivo che non
sarebbe morto. Nella notte stessa telefonai a dom Mario Zanetta, vescovo di
Paolo Afonso e tra i promotori della CIS in Bahia, per chiedergli di contattare
chi lo assisteva e fargli sussurrare all’orecchio: «Ernesto dice che le cose si
metteranno per il meglio». Dom Zanetta mi confermò che dom Luciano era
gravissimo. Nel pomeriggio mi arrivò una telefonata: dom Luciano aveva ricevuto
e capito il mio messaggio. Sapevo che tutto il Brasile pregava per lui. In uno
di questi momenti di preghiera un bambino di strada, affacciandosi all’ingresso
della chiesa e vedendo una foto di dom Luciano vicino alla statua della Madonna,
si avvicinò e circondò la fotografia con un braccio come se dom Luciano fosse
presente. Non pianse, sorrise.
Il
14 marzo alle dieci di sera, accompagnato da padre Aldo, arrivai davanti alla
porta della camera 520 dell’ospedale Felicio Rocho di Belo Horizonte. Elisa,
sorella di dom Luciano, mi fece entrare. Lo trovai addormentato, ingessato
dalla testa ai piedi. Il viso era sofferente, ma non traspariva angoscia.
Pregammo. Elisa mi mostrò i primi biglietti che dom Luciano era riuscito, nella
fatica del dolore, a scrivere con la mano sinistra, ridotta a pezzi, ma meno
disastrata della destra: “Deus è bom” era il primo biglietto in assoluto. Poi
dom Luciano si svegliò, aprì gli occhi, mi vide: «Ernesto ... Ernesto».
ALL’ARSENALE
DELLA
SPERANZA
Dom
Luciano ha avuto un ruolo primario nella presenza di una Fraternità del Sermig
in Brasile. Lascio la parola a lui: «Ricordo una mattina presto, metà anni
novanta: nella piazza di São José do Belém. Vidi molta gente riunita e nervosa.
Mi avvicinai a un uomo coricato su una panca. Chiesi cosa stava accadendo e mi
fu risposto: è morto! Di cosa? Fame, freddo! Era morto, di fame e di freddo, in
una piazza di San Paolo del Brasile, una metropoli tra le più grandi del mondo.
C’era una popolazione nascosta, invisibile, che camminava ogni giorno e ogni
notte per le piazze e per le strade alla ricerca di un riparo e di un po’ di
cibo. Il loro numero era così alto che le risposte esistenti non bastavano e
quella morte ci scosse profondamente. Dom Paulo Evaristo Arns, allora
arcivescovo di San Paolo, chiese aiuto e consiglio a noi vescovi e alle
autorità civili: che cosa fare? Quando dom Paulo ricevette l’offerta da parte
del governo dello stato di prendere in gestione l’antica Hospedaria dos
Imigrantes, chiedemmo a Ernesto Olivero se era disponibile a trasformarla in
una casa capace di accogliere; già conoscevamo la trasformazione dell’ex
arsenale militare di Torino in Arsenale della Pace e la passione e serietà del
suo lavoro in Brasile. Accettò, forse nemmeno sapendo bene cosa stava
accettando. Da lì, con molto coraggio e grande abbandono, prese vita l’Arsenale
della Speranza.
L’11
marzo 2006 si è svolta una grande festa per celebrare i primi dieci anni di
vita di quest’opera. Arrivando all’Arsenale della Speranza per partecipare alla
festa ho incontrato un povero che mi ha detto con tanta gioia da commuovermi:
«Anche lei viene per la festa! Che bello! Questa casa è una meraviglia, una
grande meraviglia di Dio!. È a Dio che dobbiamo alzare i cuori per ringraziare
sempre di più, perché il Signore è buono e ci dà la gioia di vivere un po’
della gioia di essere buoni e fare del bene. Nessuna cosa ci fa rallegrare
tanto quanto il poter aiutare gli altri che hanno fame di pane e di amore».
L’ORA
DELLA
FIDUCIA
Anche
gli ultimi mesi di vita, le cure molto dolorose, l’aggravarsi del male non
l’hanno cambiato nell’intimo. Gianfranco della Fraternità della Speranza di San
Paolo – che l’ha assistito nei due mesi di ospedale – mi ha scritto: «In questi
giorni stando con don Luciano più da vicino e con più tempo ho visto la
debolezza vinta da una grande forza! La debolezza è stata, forse per un
momento, la vincitrice, perché sembrava che tutto fosse finito, la debolezza di
un corpo stanco, cansado, di un corpo vinto da un “male”. Ma ancora una volta
la grandezza di don Luciano ha vinto: ancora una volta gli altri sono più
importanti, il grazie continua a essere pronunciato da delle labbra “stanche”
ma forti, il sorriso di un volto stanco che emana luce e speranza, la voce
fievole che ti dice che siamo nelle mani di Dio in ogni momento… sia fatta la
sua volontà, la preghiera è sempre per gli altri che soffrono… e così via…
ancora una volta un esempio di vita! Grazie, caro Ernesto, per averlo
incontrato e messo sul nostro cammino!».
Sono
stato vicino a lui l’ultima volta il 3 agosto. Conservo come un tesoro prezioso
le ultime parole che ha scritto sul mio diario: «Sono nelle mani di Dio buono e
Padre. Lo sento molto vicino. È un momento di gioioso abbandono. Tutta la mia
vita è sempre in completa fiducia a Dio e alla Madonna. Ma in questi giorni mi
unisco ancora di più al Signore. Offro tutto per la Chiesa, con amore e con
fede. È l’ora della fiducia… Ernesto, ringrazia tutti i tuoi amici. Sono molto
contento. Sono nelle mani di Dio. Quello che Dio vuole, voglio io. Sono stanco
ma mi affido a Dio e offro tutto per il papa che amo molto e prego per lui.
Grazie di tutta la preghiera tua e del Sermig. Dio ci conservi sempre così».
Prima di ripartire gli ho chiesto una parola per i giovani dell’Arsenale, la
cosa più bella da dire a tutti loro; ha risposto con un filo di voce: «La cosa
più bella è consacrarsi al Signore».
Ernesto Olivero