SEMPRE A PROPOSITO DELLA PLURIAPPARTENENZA
IDENTITÀ “LIQUIDA” O “SOLIDA”?
Fabio Ciardi riprende il tema della pluriappartenenza per dimostrare che
non solo essa fa parte della necessaria comunione dei carismi, ma è anche una
modalità che consente di recuperare il senso più genuino della propria
identità.
La pluriappartenenza può offrire un grande arricchimento
alla persona come può generare inquietudine, labilità. Può addirittura portare
alla schizofrenia.
Una volta quando si domandava a qualcuno di dire chi
fosse, abitualmente ci si sentiva rispondere: «sono un medico», «sono un
metalmeccanico»… Il mestiere dava un’identità. Oggi, con la mobilità del
lavoro, l’identità non è più data dal mestiere. Un medico può infatti dedicarsi
alcuni anni alla chirurgia e poi passare a lavori dirigenziali o amministrativi
nell’ospedale. Non dice più “sono un medico”, ma “faccio il medico”. Lo stesso
per il metalmeccanico.
Una volta le persone vivevano in un ambiente omogeneo,
come spazio, come relazioni, come interessi. Oggi le comunicazioni, i viaggi,
gli ambiti di partecipazione sono estremamente diversificati e si succedono in
maniera quasi simultanei, sovrapposti l’uno all’altro in una crescente
complessificazione. L’identità non è più data da un mondo di appartenenza.
Una volta a noi occidentali facevano sorridere le
statistiche sulla religiosità nipponica. Se si sommavano le dichiarazioni di
appartenenza alle differenti religioni, i 120 milioni di abitanti del Giappone
diventavano circa 300 milioni. Un giapponese può essere shintoista per
tradizione familiare, cattolico in occasione del matrimonio e buddista per il
funerale. Oggi ci accorgiamo che anche da noi sta accadendo qualcosa di simile,
sia nel campo religioso che in molti altri ambiti di vita. A secondo delle
convenienze, dei momenti, delle amicizie, ci si comporta in modi differenti se
non contraddittori.
E l’identità dove è andata a finire? Non è, l’identità,
il frutto della coerenza dei valori e delle scelte? l’assimilazione delle differenti
esperienze attorno a un nucleo essenziale unitario? ciò che rimane al di là
delle relazioni che costituiscono la nostra esistenza?
Il grande sociologo Z. Bauman ha coniato l’espressione
“identità liquida” a indicare la caratteristica principale dell’uomo nell’era
post-moderna. Da un individuo con una identità stagliata, forte, definita
spesso dalla società, si sta passando a un individuo che “spalma” la propria
identità su una pluralità di dimensioni e di appartenenze. Il sociologo vede in
questo passaggio delle potenzialità ma soprattutto dei rischi di quella che
Durkheim chiamava “anomia”, esattamente una crisi identitaria, l’incapacità
cioè di rispondere alla domanda fondativa della vita umana: «Io, chi sono?».
Non mi addentro in questo discorso sociologico e
antropologico. L’ho accennato soltanto per prendere atto che anche noi
religiosi viviamo in questo nuovo universo culturale. I più giovani in maniera
più naturale e coinvolgente. Anche per noi si pone il problema di come giungere
a una coerenza di vita, a quella unità della persona che conferisce identità e
maturità. Problema complesso, che non riguarda soltanto la prima formazione. Un
francescano oggi può essere, in modo perfettamente coerente e naturale,
vegetariano, musicista, sportivo, attivista in una ONG, giornalista,
catechista, collezionista, archeologo… Tutte dimensioni che, sebbene nessuna da
sola esaurisca il suo mondo interiore, contribuiscono a dire “chi sono”. Ma, la
domanda torna di nuovo, «dov’è l’identità?»
HO BISOGNO DELL’ALTRO
PER CAPIRE ME STESSO
Porto la mia attenzione su un aspetto soltanto di questo
processo di unificazione interiore: il rapporto con spiritualità ed esperienze
religiose diverse da quelle del proprio istituto di appartenenza.
C’è una pregiudiziale istintiva che serpeggia nelle
comunità religiose, specie in quelle formative, davanti alla constatazione di
una “appartenenza liquida”, che si percepisce attorno a noi e forse tra noi
stessi: occorre puntare su una “appartenenza solida”, tutta d’un pezzo, granitica,
capace di dare linearità e continuità alla persona come all’istituzione. Di qui
il ripristino di certi elementi che dopo il concilio erano passati in secondo
piano, come l’abito, le pratiche di pietà tradizionali nell’istituto, le norme
disciplinari che per secoli hanno garantito l’uniformità. Ma soprattutto la
ricerca dell’identità carismatica, di una specifica spiritualità, la proposta
delle figure eminenti, della storia della famiglia religiosa…
Nello stesso tempo stiamo sperimentando l’arricchente rapporto
di conoscenza, di stima, di aiuto vicendevole in atto tra le diverse realtà
carismatiche. Le esperienze dei corsi di formazione inter-noviziati, maschili e
femminili, ne sono un esempio eloquente, che si sta dimostrando sempre più
positivo. Non soltanto si studia insieme, ma insieme si organizzano giornate di
preghiera, di ritiro, di presentazione dei rispettivi carismi…
È una via concreta per conoscere la molteplicità e la
ricchezza della dimensione carismatica della Chiesa, per evitare il rischio di
assolutizzare il proprio fondatore e la propria famiglia religiosa e per
coglierli nel più ampio organico ecclesiale.
Ed è una via concreta per giungere all’acquisizione
dell’identità propria. Ho bisogno dell’altro per capire me stesso. Come ogni
mistero di Cristo per essere colto in tutta la sua profondità ha bisogno di
essere letto nell’insieme dei suoi misteri, e come un brano evangelico per una
fruttuosa esegesi ha bisogno di essere collocato nel suo contesto e
nell’economia dell’intero Vangelo, così, senza la comunione fra i carismi
(un’espressione del mistero di Cristo, l’attuazione di una sua parola),
difficilmente si può giungere al significato vero di ciascuno di essi.
L’identità non è data soltanto dalla autoreferenza, ma dalla comunione con il diverso.
L’aveva capito bene sant’Ignazio, tutto intento a formare
persone intere. Rivoluzionando il cammino formativo precedente, egli spalanca
il periodo più delicato del giovane gesuita su una inusitata pluralità di
esperienze. Il novizio dovrà lasciare il noviziato per entrare in contatto con
gli ammalati negli ospedali, per vivere il pellegrinaggio, per fare catechesi…
Tutte “esercitazioni” che lo porteranno “fuori” dal proprio mondo, in rapporto
con “altri” mondi. Anche così si forma l’identità gesuitica.
Nello stesso tempo, per entrare in comunione con le altre
realtà carismatiche, occorre prendere coscienza della propria realtà
carismatica, così come delle proprie tradizioni spirituali, e vivere
coerentemente. Se l’identità nasce dalla comunione, che presuppone a sua volta
l’identità. L’unità non è mai confusione.
A IMITAZIONE
DEL MODELLO TRINITARIO
Troppo alto puntare sul modello trinitario per superare
questa apparente aporia? Niente di più distinto e personale delle Persone
divine e, nello stesso tempo, niente di più unito della Trinità. Dove maggiore
identità che nel Padre, nel Figlio, nello Spirito? E dove maggiore comunione?
L’identità delle Persone si esprime nel reciproco dono e l’unità presuppone la
piena identità e la piena distinzione delle Persone. Il Padre, nella santissima
Trinità, è “Padre” nella costante comunione con il Figlio nello Spirito e non
può esserlo se non nell’unità con il Figlio nello Spirito. In questa unità la
sua identità: più uno con le altre Persone, più afferma la propria identità di
“Padre”.
Questa legge trinitaria di unità e distinzione indica la
via che ogni religiosa e religioso è chiamato a rispondere per essere se
stesso, senza ripiegamenti su di sé, senza l’illusioni sull’autosufficienza del
proprio carisma, fino a vivere in pienezza l’unità e la cattolicità, senza che
con questo venga meno la propria identità. È il dinamismo trinitario di unità e
distinzione che si riverbera sulla terra. Il redentorista troverà nel suo
carisma la sua identità, ma la sua identità non diventerà autarchica, non dovrà
dire: «posso vivere autonomamente la mia identità perché nel mio carisma c’è
tutto!». No, non c’è tutto. Il tutto è solo nella comunione con gli altri doni
diffusi dallo Spirito nella sua Chiesa, pena di non essere “cattolico”, parte
del tutto della comunione ecclesiale.
Ogni famiglia religiosa asserisce, giustamente, che il
suo carisma è per la Chiesa intera. Gli oblati di Maria Immacolata sanno bene
che la loro vocazione missionaria non è per loro soltanto, ma anche per rendere
consapevole la Chiesa della sua dimensione missionaria. I gesuiti sanno bene
che gli Esercizi spirituali non sono soltanto per loro, ma per tanti altri e
infatti religiosi e religiose ne usufruiscono (senza con questo diventare
gesuiti!). Se questo è vero, è vero anche che gli altri carismi (compresi
quelli contemporanei) sono un dono per me, per il mio carisma particolare.
Nella Chiesa il dono è sempre reciproco: si dona e si riceve. Così la mia
identità si arricchisce.
Un ignoto canonico regolare del secolo XI esprimeva bene
questa coscienza ecclesiale quando scriveva, a proposito della diversità delle
vocazioni nella Chiesa: «Ama nell’altro ciò che tu stesso non hai, affinché
l’altro possa amare in te ciò che egli non ha, perché il bene compiuto dall’uno
sia anche bene dell’altro, e siano uniti nell’amore coloro che sono divisi
dalle occupazioni (…). Se ti avviene di non poter raggiungere ciò che un altro
possiede, è amando che lo possederai».
La stessa cattolicità esprimeva san Bernardo, parlando
dell’appartenenza al proprio Ordine e del rapporto con gli altri Ordini, in un
testo riportato dalla esortazione apostolica Vita consecrata: «Io li ammiro e
li amo tutti. (…) Tengo a uno di essi con la mia osservanza, ma a tutti nella
carità. Abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri; il bene spirituale che io
non ho e non possiedo, lo ricevo da altri».
Fabio Ciardi, omi