A QUARANT’ANNI DALLA SACROSANCTUM CONCILIUM

TANTE LUCI E QUALCHE OMBRA

 

Il concilio ha avuto questo di buono: ha reso la liturgia più comprensibile, in particolare con l’uso della lingua parlata e la semplificazione delle rubriche. Capire ciò che si compie è un’esigenza fondamentale della celebrazione. La parola chiave della riforma è stata la “partecipazione attiva”.

 

A oltre quarant’anni dalla promulgazione, fra le quattro costituzioni dogmatiche del concilio quella che ha conosciuto una mag­­giore attuazione è la Sacrosanctum concilium riguardante la riforma liturgica. È questa l’opinione del card. Godfried Danneels, arcivescovo di Malines-Bruxelles, secondo il quale difficilmente possiamo immaginare l’enorme rivoluzione che si è compiuta nella prassi liturgica in questi quattro decenni. A suo parere, la parola-chiave di questo cam­biamento è stata la “partecipazione attiva”.1

 

DAL RUBRICISMO

ALLA MANIPOLAZIONE

 

Questa partecipazione è stata un dono incomparabile del concilio alla Chiesa. Ma come ogni raggio di sole provoca anche un’ombra, può nascere una specie di appropriazione della liturgia da parte della comunità locale o del celebrante. È cosa buona liberare la liturgia dal suo carattere intoccabile, ma non per questo essa diventa proprietà della comunità locale e del singolo prete. Non si tratta qui dei numerosi abusi, che sempre ci sono stati e che spesso passano in fretta. Si tratta piuttosto di un cambiamento nella comprensione profonda di ciò che è in causa nella liturgia quando si opera l’eliminazione del sacro, la banalizzazione della lingua, la trasformazione del culto in un avvenimento sociale. Ora, il soggetto della liturgia è Cristo, non la comunità locale che celebra. Non si tratta per questo di mettere in atto dei diktat, ma di un processo educativo in cui i credenti imparano a entrare in un mistero che li supera: un’azione di Dio per essi prima che di essere un’azione dell’uomo per Dio.

La liturgia è l’epifania dei misteri di Cristo: è lui che presiede il culto. Si può quindi affermare che la liturgia pre-esiste. La comunità che celebra non partecipa a un’ “anti-celebrazione”, ma entra nella liturgia come in uno spazio preesistente, divino e spirituale. L’Eucaristia non è allora un “pasto sacro” che noi celebriamo, ma l’attualizzazione di un pasto pre-donato: l’ultima Cena di Cristo con i Dodici. Noi non ne siamo i creatori, ma i custodi e i servitori dei misteri che ci sono donati, che vengono da altrove e prima di noi.

 

L’HOMO

LITURGICUS

 

Esiste qualcosa come un homo liturgicus. Il suo comportamento fondamentale – individuale e collettivo – è un atteggiamento di recettività, di ascolto, di rinuncia a se stesso e di capacità di relativizzare il suo “io”. È il comportamento dell’obbedienza che crede. Non è un’ entrata nel regno del rubricismo, ma in un mondo che ci supera e ci rende gioiosi.

L’homo liturgicus non manipola niente e i suoi gesti non sono in primo luogo l’espressione di se stesso, dei suoi pensieri personali, delle sue aspirazioni o delle sue emozioni. Egli ha un comportamento di ascolto, di accettazione, di apertura, di stupore e ammirazione, di adorazione e di lode – di schauen (“contemplazione”) secondo la celebre espressione di Guardini. All’opposto dell’ homo faber, egli è tutto disponibilità, preghiera e offerta.

È particolarmente difficile in un tempo di trasformazioni e di destrutturazioni di ispirazione tecnica coltivare un atteggiamento liturgico autentico. La dimensione contemplativa dell’uomo non è più evidente nel nostro tempo; deve essere imparata. La “partecipazione attiva” è esattamente un atteggiamento contemplativo.

Il concilio ha avuto questo di buono che ha reso la liturgia più comprensibile, in particolare con l’uso della lingua parlata e la semplificazione delle rubriche. Capire ciò che si compie è un’esigenza fondamentale della celebrazione. L’incomprensibilità della liturgia, prima del concilio, non era solo una conseguenza della lingua delle celebrazioni. Ce ne siamo resi conto dopo l’introduzione delle lingue parlate: la liturgia è interamente costruita sulla Bibbia e questa non ci è familiare, soprattutto non lo è l’Antico Testamento. Inoltre, la Scrittura è interamente nata in una cultura rurale e mediterranea, mentre la cultura attuale è diventata soprattutto urbana.

La “colletta” classica romana , concisa e formulata giuridicamente, è quasi incomprensibile. Tutto il fascino della sua metrica viene perso nella traduzione. Certi testi come il Dies Irae, la Salve Regina e le antifone perdono gran parte della loro forza di espressione quando sono spogliate della melodia gregoriana che loro particolarmente si addiceva.

 

ABBREVIARE

O ELIMINARE?

 

Spesso si opta per una soluzione a breve termine: si abbrevia o si lascia cadere. Oppure si sostituiscono dei termini liturgici con altri più attuali. Ma ci sono dei termini che appartengono alla “lingua materna” del cristiano e che non possono essere tradotti, come “risurrezione”, “eucaristia”, “misericordia”, “peccato”. Sono intraducibili come sabbat e pesah per gli ebrei. Si dice che certe immagini bibliche non sarebbero più comprensibili nella nostra cultura: per l’uomo delle città di oggi non ci sono né pastori né greggi. Ma affermazioni del genere devono essere messe seriamente in dubbio: ogni poesia si serve di termini e di immagini che non esistono nella vita quotidiana. Non c’è bisogno di aver visto un angelo per sapere ciò che è.

L’eliminazione o la soppressione non sono una buona risposta. Molto meglio è un lento e paziente processo educativo di formazione biblica e liturgica. Ogni cultura richiede uno sforzo e un processo di apprendimento. Così pure la liturgia. Non è necessario capire tutto e subito. La liturgia ha bisogno di tempo per essere comunicata: essa non rivela subito il suo significato.

Che cosa capire? Se è vero che la liturgia è l’epifania dei segreti di Dio e dei misteri di Cristo, il suo nocciolo è sempre, in certa parte, incomprensibile. Comprendere liturgicamente non è comprendere subito, ma entrare in un processo. Non si tratta nemmeno di una comprensione puramente conoscitiva: vuol dire capire con il cuore. Tutte le realtà umane profonde non possono essere colte con dei concetti: amore, morte, sofferenza, gioia, solidarietà, conoscenza. Non si capiscono mai di colpo e totalmente. Si “penetrano” lentamente, come dice la parola ebraica “conoscere”.

Queste realtà sono espresse simbolicamente da altre: fanno appello alla buona volontà, alla pazienza e all’empatia. Esigono la ripetizione e giungono a noi in un rituale regolarmente ripreso. Nella liturgia non tutto deve essere spiegato, analizzato, commentato. Il solo approccio valido è di permettere ad essa di dire ciò che dice.

 

ALLORA

CHE COSA FARE?

 

Va da sé che entrare in questa architettura preesistente non significa escludere ogni flessibilità o creatività. Il problema è di sapere dove e come essere creativi. Ci sono degli elementi precisi fondati chiaramente da Gesù: essi costituiscono la sostanza del sacramento. Questi sono intoccabili – anche dall’autorità ecclesiastica – poiché senza di essi la liturgia non sarebbe più l’azione di Cristo. Vi sono altri elementi storici che neanch’essi possono essere modificati, come il testo biblico nella lettura continua o la preghiera dei salmi in ogni liturgia della Parola. Questa sequenza esprime in effetti la priorità assoluta della parola di Dio sulla risposta dell’uomo.

Per valutare le possibilità e i limiti degli interventi è necessaria una buona formazione liturgica: una conoscenza, storica e tradizionale, delle fonti. La liturgia richiede informazione e iniziazione, uno spirito profondamente spirituale e una intuizione pastorale. Ora, in molti ambienti si avverte una grande mancanza di formazione liturgica e di istruzione. La liturgia è la sistemazione di ciò che è venuto prima, e ciò esige competenza.

Può meravigliare nel sentir dire che le celebrazioni devono avere una durata precisa e che spesso sono troppo brevi. Il fatto è che la liturgia ha bisogno di tempo: essa è inscritta non nel tempo dell’orologio – il tempo fisico – ma nel tempo dell’anima. Se la liturgia non appartiene al registro dell’informazione, non può neanche essere vissuta in modo abbreviato. La sua temporalità viene dal kairos, dal tempo della visita di Dio. La liturgia orientale l’ha ben compreso: essa si prende il suo tempo; non si preoccupa di soddisfare a un obbligo giuridico di pratica religiosa, ma chiede, nel suo inno ai cherubini, che si lasci dietro di sé “ogni preoccupazione del mondo”.

Per questa interiorizzazione della liturgia, è essenziale il silenzio. La mancanza di silenzio cambia la liturgia in una sequenza ininterrotta di parole che non possono mai penetrare in profondità. Anche questo rende la liturgia incomprensibile.

 

PAROLA

E SPIRITO

 

Uno dei principali ostacoli della liturgia dopo il concilio è il suo carattere quasi esclusivamente verbale, a scapito del rito. Il valore di una celebrazione è spesso misurato sulla qualità dell’omelia. Dopo la liturgia della Parola, il rito sembra in gran parte terminato. C’è una chiara mancanza di equilibrio tra parola e rito. La liturgia è così in qualche modo accostata e giudicata intellettualmente. C’è poco spazio per la rappresentazione, l’emozione, l’affinità e la bellezza. Pertanto la liturgia è anzitutto e prima di tutto una “fare” e poi soltanto un “parlare”. Il rito è al primo posto e la parola l’accompagna. Spesso invece l’orecchio è privilegiato a scapito dell’occhio e degli altri sensi.

Un’altra conseguenza di questa “verbosità” è il rischio che la liturgia sia utilizzata per dei fini che non sono i suoi. Essa appartiene al registro del “gioco gratuito”. Un gioco non sempre è gratuito e può essere ostacolato, per esempio, per degli interessi finanziari. Così, la liturgia non dovrebbe servire per trasmettere delle informazioni, per evocare ogni sorta di attività – in sé buone – o anche a fare della catechesi. Una celebrazione non è una lezione, né un meeting e nemmeno una sessione. È semplicemente una celebrazione. La liturgia ha il suo fine in se stessa.

 

VALORE

DEL RITO

 

I termini “rito” e “rituale” evocano nei nostri contemporanei delle associazioni sgradite: “è sempre la stessa cosa”, da cui monotonia e nervosismo. Ma questo è giustificato? Esiste certamente un attaccamento eccessivo ai rituali, che chiamiamo ritualismo. Ma si tratta di una patologia che non rende ragione al valore del rito.

Il rituale è insostituibile. È del resto un dato antropologico innegabile. Tutti i grandi momenti della vita che l’uomo affronta sono dovunque ritualizzati. Il rituale è sempre ripetitivo e stereotipato. Ciò è necessario per avere il tempo di penetrarlo, di interiorizzarlo, di comprenderlo con tutto il nostro essere: ragione, volontà, sensibilità. Il rituale è anche creatore di comunità e un rimedio pratico contro l’individualismo. Unisce e lega una comunità e le dona un volto all’interno e all’esterno: La disaffezione verso il rito ha certamente a che vedere con il nostro individualismo moderno e le rotture di molte relazioni e legami sociali.

Un grande problema del periodo postconciliare è quello dell’inculturazione che ha dato luogo nel 1994 a un buon documento della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (Istruzione Varietates legitimae, 15 gennaio 1994). Si tratta di un obbligo da non ignorare. Se Dio si è fatto uomo, ciò significa che la celebrazione dei misteri è affidata a tutti gli uomini, nelle loro diversità culturali, storiche ed etniche. Bisogna pertanto notare che i limiti da porre in questo campo non sono dovuti a un’eventuale egemonia della cultura europea sulle altre; vuol dire che è necessario ritornare a qualcosa di ben più profondo. La liturgia cristiana non è la strutturazione di una religiosità umana generale. Essa dà forma a delle realtà storiche: i misteri di Cristo. L’Eucaristia risale all’ultima Cena di Cristo. Non si è trattato di un pasto religioso fra gli altri. Il pasto pasquale degli ebrei, pervaso dal dono di sé di Cristo, nuovo agnello pasquale, implica che difficilmente si possono sostituire degli elementi storicamente legati (il pane, il vino, la preghiera di azione di grazie) da simboli umani generali. E tutte le feste giudaiche, poi cristiane, erano certamente all’origine delle feste della natura, ma sono state completamente trasformate storicizzandosi. La pentecoste è stata sicuramente, in origine, una festa del raccolto, ma è stata profondamente storicizzata dal dono della legge sul Sinai e dall’effusione dello Spirito nella Pentecoste.

L’inculturazione non è soltanto un problema importante per l’Africa dove la cultura è ancora giovane e flessibile – della lava liquida – dove il cristianesimo si svolge liberamente e facilmente. Giovanni Paolo II scriveva già nella sua lettera Redemptoris missio che in Asia l’inculturazione della fede cristiana è molto più difficile: la cultura è molto più antica – della lava indurita – dove la fede cristiana e la liturgia devono vincere maggiori resistenze. Senza parlare di un altro ambito dell’inculturazione, il mondo occidentale, in cui la secolarizzazione, l’ateismo pratico e teorico rendono le cose di nuovo difficili.

Queste alcune convinzioni del card. Danneels, osservando la realtà come si è svolta in questi quarant’anni dal concilio: un insieme di luci e di ombre che invitano a prendere coscienza che la liturgia non è una proprietà privata, ma qualcosa di molto delicato dove si deve escludere ogni arbitrarietà, senza per questo chiudere le porte alla creatività e alla flessibilità.

 

1 L’articolo fa parte di una trattazione più ampia pubblicata dalla rivista belga Vies consacrées, luglio settembre 2006, intitolata A quarante ans de Vatican II.