INCONTRO AD ASSISI PER UN MONDO DI PACE

LA MEDICINA STA NEL DIALOGO

 

“Lo spirito di Assisi” è antidoto al fanatismo dei kamikaze; la guerra non è mai santa, la pace sola è santa; la pace va però pazientemente curata nei cuori. Questi i messaggi fondamentali dell’incontro organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, venti anni dopo lo storico incontro tra leader religiosi voluto da Giovanni Paolo II.

 

Il 27 ottobre 1986 papa Giovanni Paolo II aveva convocato ad Assisi i leader religiosi di tutto il mondo per una grande preghiera per la pace, mentre l’Afghanistan era invaso dai sovietici e il Medio oriente era dilaniato dal conflitto tra l’Iraq di Saddam Hussein e l’Iran di Khomeini. Lo volle ripetere nel gennaio del 2002, quando ancora bruciavano le Torri Gemelle di New York e a Kabul cadevano le bombe. Per celebrare quello straordinario evento la Comunità di Sant’Egidio, vent’anni dopo, dal 4 al 5 settembre 2006 ha organizzato, sempre nella città del Poverello, il meeting internazionale “Per un mondo di pace”: religioni e culture in dialogo.1 Con un suo puntuale messaggio Benedetto XVI ha voluto sottolineare l’importanza storica e il carattere profetico del magistero che il predecessore offrì allora sul rapporto tra religioni e pace, contribuendo con una riflessione sulla nozione stessa di dialogo interreligioso reso oggi più difficile dopo i tragici eventi che sono seguiti all’11 settembre 2001. Il mondo del 2006 infatti non assomiglia a quello del 1986: la guerra fredda ha lasciato il posto, dopo il crollo dell’Urss e dei regimi comunisti europei, non alla pace sognata ma a nuovi pericoli.

 

LA PACE INSTABILE

DEL CUORE

 

«Il terzo millennio, si legge nel messaggio di papa Ratzinger,2 si è anzi aperto con scenari di terrorismo e di violenza che non accennano a dissolversi. Il fatto poi che i confronti armati si svolgano oggi soprattutto sullo sfondo delle tensioni geo-politiche esistenti in molte regioni può favorire l’impressione che, non solo le diversità culturali, ma le stesse differenze religiose costituiscano motivi di instabilità o di minaccia per le prospettive di pace». Anche alla luce delle polemiche sorte nel mondo islamico fondamentalista dopo il recente discorso del papa all’università di Ratisbona, registriamo qui un primo elemento di riflessione: nel passato le religioni sono state spesso strumentalizzate per giustificare odi e conflitti; oggi si cerca di utilizzarle per alimentare tensioni e terrore o come valvole di sfogo a problemi politico-economici. Ecco allora il puntuale richiamo del pontefice: «Nonostante le differenze che caratterizzano i vari cammini religiosi, il riconoscimento dell’esistenza di Dio, a cui gli uomini possono pervenire anche solo partendo dall’esperienza del creato (cf. Rm 1,20), non può non disporre i credenti a considerare gli altri esseri umani come fratelli. A nessuno è dunque lecito assumere il motivo della differenza religiosa come presupposto o pretesto di un atteggiamento bellicoso verso altri esseri umani». Oggi come nel 1986 si tratta di affermare che la guerra non può mai essere santa, la pace sola è santa.

A chi richiama, a questo proposito, il fenomeno delle guerre di religione, il papa risponde che «simili manifestazioni di violenza non possono attribuirsi alla religione in quanto tale, ma ai limiti culturali con cui essa viene vissuta e si sviluppa nel tempo. Quando però il senso religioso raggiunge una sua maturità, genera nel credente la percezione che la fede in Dio, creatore dell’universo e padre di tutti, non può non promuovere tra gli uomini relazioni di universale fraternità. Di fatto, testimonianze dell’intimo legame esistente tra il rapporto con Dio e l’etica dell’amore si registrano in tutte le grandi tradizioni religiose».

Un secondo aspetto di riflessione dell’incontro di Assisi ha riguardato la questione del metodo: come avvicinarsi alla pace quando gli uomini di religione non hanno nessuna forza a loro disposizione? La pace è un valore in cui confluiscono tante componenti: per costruirla sono importanti le vie di ordine culturale, politico ed economico, in primo luogo però la pace va costruita nei cuori. Il cuore dell’uomo è il luogo degli interventi di Dio. Da qui nasce la forza della preghiere delle diverse religioni, non mescolate e confuse, ma sempre sostenute da un dialogo sincero sui tanti problemi del mondo. Gli uni accanto agli altri, mai gli uni contro gli altri. Allora la preghiera costituisce, secondo il santo padre, «un elemento determinante per un’efficace pedagogia della pace, imperniata sull’amicizia, sull’accoglienza reciproca, sul dialogo tra uomini di diverse culture e religioni. Di questa pedagogia abbiamo più che mai bisogno, specialmente guardando alle nuove generazioni. Tanti giovani, nelle zone del mondo segnate da conflitti, sono educati a sentimenti di odio e di vendetta, entro contesti ideologici in cui si coltivano i semi di antichi rancori e si preparano gli animi a future violenze. Occorre abbattere tali steccati e favorire l’incontro». Una pedagogia orante che non porta comunque, come precisò Giovanni Paolo II, a ricercare “un consenso religioso” e neppure è “una concessione al relativismo nelle credenze religiose”. «Perciò, anche quando ci si ritrova insieme a pregare per la pace, occorre che la preghiera si svolga secondo quei cammini distinti che sono propri delle varie religioni. Fu questa la scelta del 1986, e tale scelta non può non restare valida anche oggi. La convergenza dei diversi non deve dare l’impressione di un cedimento a quel relativismo che nega il senso stesso della verità e la possibilità di attingerla». Su questa linea, Benedetto XVI, dalla sua Baviera pochi giorni dopo, ha messo in guardia poi l’occidente dalla disattenzione e dall’indifferenza verso Dio: popoli di altre religioni e altre culture si sentirebbero minacciati da questo vuoto.

 

OSPITALITÀ DELL’ALTRO

NELLA CULTURA DEL CONFLITTO

 

«I cristiani non sono pacifisti né semplici amanti della pace: sono pacificatori. Sono costruttori di pace, nel senso della beatitudine evangelica. Per questo radicano la pace nella preghiera e insieme la alimentano nell’incontro con gli altri, facendosi carico delle sfide concrete poste dalla globalizzazione e dalla crescente “cultura del conflitto”». Così Andrea Riccardi, ordinario di storia contemporanea, tra i fondatori della Comunità di Sant’Egidio, motiva il senso del ritrovarsi ad Assisi. «Sentiamo un compito comune, anche se siamo diversi. Ci incontriamo perché le distanze tra mondi religiosi e culturali non si allarghino ancora, magari attraverso la pubblicistica dell’odio e del disprezzo. Ci incontriamo perché crediamo nel parlare, nell’ascoltare, nel dialogo. È quel dialogo che Paul Ricoeur (che ne è stato un paziente maestro) chiama “l’ospitalità dell’altro con le sue convinzioni”. L’in­contro, nell’ascolto e nell’amicizia, è espressione di vicendevole ospitalità in un tempo in cui si scaccia l’altro per paura o si crede di conoscerlo perché lo si vede da lontano sul piccolo schermo. L’ospitalità di cui il padre Abramo è simbolo per le religioni monoteistiche: un’ospitalità, in parte oggi impraticabile nella terra solcata da Abramo, purtroppo al presente travagliata da conflitti che appaiono insanabili da più di mezzo secolo».

Non si tratta di costituire allora una “internazionale” delle religioni, ma di creare legami, aiutando i capi religiosi e le loro comunità a liberarsi dai condizionamenti nazionali e politici.

Illuminante a tal proposito la tavola rotonda sul futuro del Libano, legata al ricordo della visita pastorale del 10 maggio 1997 di Giovanni Paolo II nella capitale Beirut, quando egli rese pubblica l’esortazione apostolica post-sinodale Una speranza nuova per il Libano. Tutto quel documento spingeva a un dialogo tra le religioni, a cui la Chiesa cattolica dava tutto il suo impegno. Purtroppo, al dialogo tra le religioni si è sostituita la guerra tra le religioni. Lo si è visto negli interventi del ministro della cultura libanese ma anche in quello del vescovo maronita Paul Matar, il quale, pur volendo razionalizzare una guerra che «appartiene al dominio della pura irrazionalità», ha sintetizzato onestamente tutti i limiti della commistione tra religione e nazionalismo (anche in funzione anti-israeliana): «Se i maroniti vogliono qualcosa in Libano e del Libano, non lo vogliono soltanto per loro, ma anche per tutti i libanesi. Essi vogliono con tutti i libanesi, un paese sovrano, libero e democratico; vogliono un Libano solidale con i paesi arabi fratelli, aperto ai valori del cristianesimo universale e dell’islam universale; un paese di coesistenza e di dialogo tra le culture, che abbia in questo campo una missione da compiere e un messaggio da irradiare per il mondo intero». In effetti la forza della nazione sta nel comune servizio di tutti: drusi, cristiani, sunniti e sciiti.

Ma cosa dire dello stato? «Qui constatiamo, ha convenuto il vescovo, che quando il popolo libanese ha avuto bisogno che il suo stato lo proteggesse dalle conseguenze delle guerre arabo-israeliane, si è trovato totalmente allo scoperto. Lo stato si è rivelato incapace di affrontare l’egemonia dell’Olp palestinese che cresceva nel paese… Su questo scenario di carenza ufficiale compare il fenomeno dell’Hezbollah in armi. Tutto indica in questo caso che la crescita di questo partito guerriero è una conseguenza del ritiro dello stato e non la sua causa». Gli sciiti del Libano meridionale, davanti a un sud in mano alla guerriglia di Yasser Arafat, costata cara alla popolazione locale sia cristiana che musulmana (rappresaglie e occupazioni israeliane che hanno violato le leggi internazionali e devastato anche le piantagioni, senza alcuna preoccupazione di umanità), si sono visti soli a dover affrontare i pericoli, prendendo la strada della resistenza.

Come si vede, nelle due giornate di Assisi i credenti non sono stati ingenui, ma si sono anche mostrati condizionati dalla paura del presente e bisognosi di curare le ferite del cuore. La storia continua a rubare milioni di vite umane senza rinnovare il mondo: perciò la pace va coniugata con la pluralità religiosa, la quale non si impone solo come un fatto sempre più massiccio, grazie alla mobilità dei popoli, ma si presenta come un mistero in cui pochi ancora vedono un particolare disegno di Dio. Per i cristiani è una delle più grandi sfide di oggi, più esigente di quella dell’ateismo. Si deve entrare infatti in una nuova dimensione geo-religiosa. Oltre al dialogo inter-religioso urge il dialogo intra-religioso, affinché nessuno si consideri proprietario della sua religione, ma membro della famiglia dell’umanità di cui scopre meglio l’unità, professando la centralità fondamentale del mistero della salvezza in Gesù Cristo.

 

Mario Chiaro

1Tra le personalità presenti ricordiamo: i cardinali Poupard, Kasper, Glemp, Trujillo, Tettamanzi e Sepe; tra i leader religiosi menzioniamo Paulos (patriarca chiesa ortodossa di Etiopia), Metzger (rabbino capo di Israele), Al-Tayyeb (rettore Univ. Al-Azhar d’Egitto), Smaili (teologo Univ. di Rabat, Marocco), Sugitani (buddismo Tendai, Giappone), Minegishi (budd. Soto Zen), Hozumi (budd. Rinzai Zen), Johannesdotter (vescovo luterano), Chartres (vesc. anglicano), Athanasios (vesc. ortodosso Grecia), Luka (vesc. ortodosso patriarcato Serbia), Serafim (metropolita ortodosso patriarcato Romania), De Clermont (presidente KEK), Giordano (segretario CCEE), Enzo Bianchi e Jean Vanier. Tra i laici intervenuti: Arrigo Levi, Giuliano Amato, Pietro Scoppola, Savino Pezzotta, Barbiellini Amidei, Walter Veltroni.

2Il messaggio, oltre all’incontro della Comunità di Sant’Egidio, è indirizzato anche ai prossimi appuntamenti in Assisi per ricordare la Giornata di preghiera del 1986: un convegno dell’Istituto teologico assisano e un incontro di dialogo e formazione alla pace per giovani cattolici e di altre religioni curato dal pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso.