CONDIZIONI PER INCONTRARE IL SIGNORE
UN INVITO IMPARIAMO A PREGARE
Il cristiano del 2000, se non
vuole lasciarsi travolgere dalla corrente di un mondo che sta andando sempre
più alla deriva, perdendo ogni riferimento etico e ignorando le risposte alle
domande di fondo che la vita impone, deve imparare a pregare. Ma come?
Le riflessioni che qui pubblichiamo sono tratte da un opuscolo scritto a
mano intitolato Impariamo a pregare. L’autore vive da alcuni anni una specie di
vita eremitica. Ciò che propone è perciò frutto della sua esperienza, o meglio,
del suo cammino spirituale. Si chiama p. Franco. Dietro di sé ha una storia
interessante che merita di essere conosciuta, poiché manifesta quanto sono
mirabili le vie di Dio, e creative quelle dello Spirito. È lui stesso a
raccontarcela.
«Il 1968 è passato alla storia come l’anno della contestazione. Io
all’epoca avevo raggiunto la maggiore età e mi trovavo immerso in un mondo che
contestavo contro tutto e contro tutti. Pur nella confusione generale che
regnava c’era in me una solida certezza: Gesù Cristo!
Le parole del Vangelo le avevo sentite talmente vere per me, per la mia
vita che avevano scombussolato tutti i progetti del mio futuro. Riscoprendo la
mia fede avevo capito che Cristo era l’unico vero contestatore che meritava
prendere sul serio e seguire. Gli altri volevano cambiare il mondo, cambiando
le strutture e imponendo nuove regole e nuovi capi… Lui invece proponeva di
seguirlo per la via stretta, prendendo la propria croce, eliminando le cose
sbagliate che c’erano nel nostro cuore e amando anche coloro che non lo
meritavano.
Ma, oltre a questo, avevo trovato colui che solo era capace di darmi una
risposta alle domande di fondo che la vita impone e cioè: da dove vengo? qual è
il senso dell’esistenza umana terrena? cosa ci attende dopo la morte?
Se le risposte a queste domande erano valide per me, lo erano anche per
tutti. È questa la consapevolezza che ha fatto nascere e maturare in me la
vocazione missionaria. Una vocazione che mi ha portato in Madagascar, tra i
lebbrosi, per testimoniare Gesù Cristo. E annunciarlo a tutti come la via
sicura, la verità che illumina sul senso di tutto e la vita che porta al suo
vero compimento ogni esistenza umana che si apre a lui.
Dal giugno 1997 il Signore mi ha chiamato in questo eremo dedicato a Santa
Maria. Ed è come se il Signore mi avesse detto: «Finora ti sei dedicato alla
cura della lebbra del corpo; ora dedica le tue forze per curare quelle dello
spirito». E sto vivendo questa “nuova missione” attraverso una vita di
preghiera e di accoglienza per accompagnare le persone attraverso un cammino
che le porti a una preghiera la quale sia un rapporto personale con il Signore,
che coinvolga a poco a poco tutta la vita».
Questa è la sua storia. La riflessione che egli ci offre parte dalla
convinzione che «il cristiano del 2000, se non vuole lasciarsi travolgere dalla
corrente di un mondo che sta andando sempre più alla deriva, perdendo ogni
riferimento etico e ignorando le risposte alle domande di fondo che la vita
impone, deve imparare a pregare».
Ma come?
Per capire il mio rapporto con Dio, scrive, devo imparare a viverlo almeno
in modo analogo a come vivo il mio rapporto personale con gli altri. Ora il
rapporto personale con una persona, quando è corretto, è composto da tre
elementi: l’incontro, l’ascolto e il dialogo. Infatti per vivere una relazione
bisogna in primo luogo “incontrare” l’altro, poi “ascoltarlo” e “parlargli”.
È importantissimo rispettare la successione di questi tre momenti anche nel
nostro rapporto con Dio. Pertanto, prima di parlare al Signore, devo
incontrarlo, quindi salutarlo e cogliere la sua presenza come faccio con gli
altri. Poi devo ascoltare ciò che desidera dirmi, e lui ci parla attraverso la
sua Parola. E infine, ma solo in questo terzo momento posso io aprire il mio
cuore, parlargli ed entrare in lui con tutta la mia vita.
L’INCONTRO
COL SIGNORE
Cerchiamo ora di comprendere come vivere i tre tempi della preghiera,
partendo dal primo momento che è l’incontro con il Signore.
Innanzitutto dobbiamo renderci conto che mentre da un lato l’incontro con
le persone avviene sensibilmente – quindi l’altro lo vedo, gli sorrido, gli
stringo la mano, lo saluto e magari lo abbraccio – dall’altro, l’incontro con
il Signore avviene nella dimensione della fede, che è un incontro al di là del
sensibile, ma non meno vero e reale dell’altro.
Il primo atto di amore che il Signore si attende da noi è un atto di fede
nella sua presenza amante. Una presenza che Gesù stesso ha assicurato. Infatti
prima di ascendere al cielo, dopo la risurrezione, Gesù aveva detto ai suoi:
«Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre
e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che
vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del
mondo» (Mt 28,19-20).
Già l’Antico Testamento aveva la consapevolezza di questa presenza di Dio
nella vita del redento. Il salmo 138 (139) ci fa cogliere questo in modo
stupendo: «Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando seggo e quando mi
alzo. Penetri da lontano i miei pensieri, mi scruti quando cammino e quando
riposo. Ti sono note tutte le mie vie; la mia parola non è ancora sulla lingua
e tu, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni
su di me la tua mano (1-5).
Questo salmo ci fa cogliere una presenza del Signore, veramente “dentro” la
nostra vita, partecipe delle nostre preoccupazioni. Una presenza che è
consapevole dei nostri pensieri, che segue i nostri spostamenti, e con fare
paterno e materno insieme, ci accompagna amorevolmente. E lui non solo tiene su
di noi la sua mano, ma la sua presenza amorosa avvolge la nostra vita. Ecco
perché san Pietro può dire: «Gettate in Dio ogni vostra preoccupazione, perché
egli ha cura di voi» (1 Pt 5,7). Ma oltre a questa presenza che dà sicurezza
alla nostra vita, dobbiamo capire che il Signore non solo sa ogni cosa, conosce
la nostra vita e la segue, ma è anche “coinvolto” in essa.
Quindi se noi gioiamo, oppure soffriamo, lui gioisce e soffre con noi.
Infatti, quando Gesù appare a Paolo sulla via di Damasco mentre sta recandosi
in questa città per perseguitare i cristiani, gli dice: «Saulo, Saulo, perché
mi perseguiti?» (At 9,4). Gesù non dice a Paolo: «Perché perseguiti coloro che
credono in me?». E nemmeno: «Perché perseguiti la mia Chiesa?», bensì: «Perché
mi perseguiti?..». E dice questo perché nella persona dei suoi discepoli è il
Signore stesso che è perseguitato, in quanto c’è in lui una sorte di
identificazione con noi.
Anche nel brano del vangelo di Matteo che parla del giudizio finale, a un
certo punto Gesù nella veste di pastore, rivolto alle pecore che stanno alla
sua destra, dice loro: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con
tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite
davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il
pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri
alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite,
benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin
dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da
mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere…; ero malato e carcerato e mi
avete visitato. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti
abbiamo veduto affamato… assetato … ammalato o in carcere e siamo venuti a
visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete
fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto
a me…» (Mt 25,31-46).
Il commento che normalmente e giustamente si fa a questo vangelo è che alla
fine della vita saremo giudicati sull’amore, sull’amore concreto che avremo saputo
avere verso il povero e il sofferente. Inoltre viene richiamato il fatto che
chi serve il fratello che è nella necessità serve Gesù stesso… Ciò è tutto
vero. Ma oltre a questo, perché non cogliere anche questa “presenza divina” del
“Verbo incarnato” che facendosi uomo è, in qualche modo, presente e coinvolto
nella vita di ogni essere umano, e quindi anche nella nostra?
È anche nella consapevolezza di ciò che il primo momento della preghiera
dovrebbe esprimere la fede di questa “presenza in noi”, aiutarci a coglierla e
a gustarla.
Inoltre, nel suo eloquente e arguto discorso all’aeropago di Atene, san
Paolo, a un certo punto, per far cogliere la presenza di Dio accanto a ogni
essere umano, afferma: «In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17,28).
Il silenzio
È di tutte queste cose che abbiamo viste che deve essere ricco il silenzio
del primo momento, nel quale vivere l’incontro. Quello della preghiera quindi
non deve essere un silenzio forzato, o una tecnica del silenzio come la sia
vive nella “meditazione trascendentale”, nello yoga o in altre metodiche
orientali di concentrazione.
Il silenzio nella preghiera cristiana è quel sentire, quel gustare col
cuore e nel più profondo di noi stessi la presenza dell’Altro. Inoltre, il
silenzio nella preghiera deve esprimere quell’atteggiamento interiore di resa e
di disponibilità che permette allo Spirito Santo di farci vivere l’incontro col
Signore nel suo amore, superando quindi le nostre incapacità di amare e di
pregare. Noi infatti non siamo capaci di pregare, né tanto meno di amare. Ma
come dice bene san Paolo nella lettera ai Romani: «Lo Spirito Santo viene in
aiuto della nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente
domandare. Egli intercede con insistenza per noi, secondo i disegni di Dio» (Rm
8,26-27).
Quindi lo Spirito Santo non solo rende possibile il nostro incontro con
Dio, ma ci permette di viverlo nella sua volontà e nel suo amore, dando
profondità e comunione al nostro silenzio. Un silenzio che diventa così
l’espressione del nostro “io”, che si lascia non solo amare, ma anche plasmare
interiormente dal suo Dio.
Silenzio che crea comunione
Dio è una presenza talmente discreta e rispettosa che, senza silenzio,
rischia di passare inosservata e di rivelarsi assente. Mentre invece san Paolo
ci rivela tutta la verità e la consistenza della sua presenza in noi: «L’amore
di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci
è stato dato» (Rm 5,5).
L’amore che Dio ha verso di noi non è un’astrazione o una realtà che ci
attende solo “al-di-là” di questa vita. Paolo ci dice che l’amore di Dio è una
realtà presente fin d’ora al centro del nostro essere. Attraverso questa
presenza abbiamo la possibilità e la capacità di partecipare al dialogo della
vita trinitaria. Ma, come dicevamo, questa presenza dello Spirito Santo Amore,
nell’intimo di noi stessi, è molto discreta. A questo proposito è illuminante
considerare l’incontro che il profeta Elia ha sul monte Oreb con Dio; incontro
descritto nel primo libro dei Re. Elia si trovava sul monte per incontrare il
suo Dio, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio dell’Alleanza, della
comunione, ed «Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da
spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era
nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel
terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco.
Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. Come l’udì, Elia si coprì il
volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco,
sentì una voce che gli diceva: «Che fai qui, Elia?» (1Re 19,11-13). Il mormorio
di questa brezza leggera indica non solo che Dio è una presenza delicata, ma
simboleggia anche l’intimità dell’incontro. Più si vuole che l’incontro tra due
persone sia intimo e più si sente il bisogno di parlare sottovoce, di
sussurrare le cose, e lasciare che la brezza leggera e forte dell’amore avvolga
e unisca i cuori.
Ecco, il Dio della nostra fede desidera entrare in una comunione profonda
con ciascuno di noi. Per questo ha bisogno del nostro silenzio, della nostra
attesa, della nostra interiorità.
Comprendiamo quindi come il silenzio che ci è richiesto nella preghiera non
può ridursi a essere uno stato di intima tranquillità, ma un’attesa serena che
esprima un orientamento a Dio della mente, del cuore e della disponibilità di
tutta la vita.
Lo Spirito Santo ha bisogno di questo nostro silenzio per farci entrare in
questo incontro d’amore, poterlo animare e farlo crescere. Ecco perché solo lo
Spirito Santo può essere il nostro Maestro di preghiera. Solo lui può farci
entrare in questa avventura di amore in cui incontrare il Padre, per mezzo del
Figlio. E solo lo Spirito Santo è quell’abbraccio d’amore che unisce il Padre e
il Figlio, e unisce anche tutti coloro che si lasciano coinvolgere in questo
turbinio di “Amore-Eterno” che è la vita trinitaria.
Quindi la preghiera, nel primo momento dell’incontro, più che essere un
atteggiamento attivo mediante il quale esprimere il nostro amore a Dio,
dovrebbe esprimere un atteggiamento passivo, nel senso positivo del termine,
che ci consente di lasciarci amare da Dio, portandoci a confidare in lui, Ecco
perché il salmista recita: «Sta in silenzio davanti al Signore e spera in lui.
Confida in lui, egli compirà la sua opera…» (Sal 36,7-5).
ASCOLTO
DI DIO CHE PARLA
Al primo momento dell’incontro con Dio che ci permette di cogliere la sua
presenza segue quello dell’ascolto. Normalmente il Dio della nostra fede non si
manifesta alla nostra sensibilità con visioni esaltanti, e non si comunica a
noi attraverso rivelazioni particolari, bensì ci parla soprattutto attraverso
la sua Parola. E questa “Parola” che esce da Dio, ce lo rivela e ci parla, è
Cristo Gesù, il “Verbo” di Dio mediante il quale è stato creato tutto ciò che
esiste.
Cristo Gesù è quindi la “Parola” che rivela il Padre, è la “Parola”
mediante la quale ha avuto origine la creazione, ed è la “Parola” che, accolta
e seguita, ci fa diventare figli di Dio. Tutto questo è ben riassunto nel
prologo del vangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo (la Parola) il
Verbo era presso Dio (il Padre) e il Verbo era Dio…Tutto è stato fatto per
mezzo di lui… In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini. La luce
splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta. A quanti però l’hanno
accolta, ha dato potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,1-5.12).
Ma come vivere concretamente l’ascolto della Parola? Ognuno può seguire il
metodo che ritiene più opportuno. C’è chi in questo momento di ascolto
valorizza le letture della liturgia del giorno. C’è chi legge la Bibbia in modo
continuativo partendo dalla prima pagina. E c’è chi, di volta in volta, sceglie
un libro dell’Antico Testamento, o un vangelo, o una lettera di Paolo o di
altri apostoli, e la legge sistematicamente pagina per pagina.
Ognuno può quindi orientarsi a vivere l’ascolto del Signore che parla
attraverso la sua Parola, nel modo a lui più consono. Importante è che ci sia
questo incontro con la parola del Signore, e questo “incontro-ascolto”
dev’essere quotidiano.
Questo incontro con la Bibbia non deve limitarsi a leggere la Parola, ma
deve aiutarci a comprenderla, farla nostra, accoglierla nel cuore e incarnarla
nella vita.
In questo secondo momento della preghiera quindi, l’approccio con la Parola
ci educa a sentire il bisogno di nutrirci di essa, affinché illuminando la
nostra mente, riscaldando il nostro cuore, e incarnandosi nella nostra vita, la
Parola provochi in noi una trasformazione, un modo nuovo di pensare, di essere
e di vivere, un modo più evangelico di rapportarsi alle cosa, alle persone e a
Dio stesso.
Pregare la Parola
Tutta questa trasformazione si realizza gradualmente “pregando la Parola”,
in questo modo. Mentre leggiamo la Parola attentamente cercando di comprenderla
con l’intelligenza e di accoglierla col cuore, dobbiamo essere aperti a
ringraziare subito con un moto del cuore per le cose belle e profonde che
scopriamo in essa.
Quando invece quella Parola che stiamo leggendo mette in evidenza una
contraddizione presente nella nostra vita, qualcosa cioè che è in contrasto con
la fede che professiamo, allora dobbiamo chiedere perdono.
E se per caso quella Parola ci sollecita a vivere qualcosa che non viviamo
ancora sufficientemente, allora è il momento di implorare il Signore, affinché,
con il suo aiuto, riusciamo a rimediare a questa lacuna.
Se ci educheremo non solo a leggere la parola di Dio, ma anche a pregarla
in questo modo, allora scopriremo tutta la verità di quanto dice l’autore della
lettera agli ebrei: «La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni
spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e
dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i
pensieri del cuore» (Eb 4,12).
Questo dell’incontro con la Parola diventa allora il vero momento
dell’ascolto del Padre, il quale ci parla attraverso il suo Verbo, la sua
Parola, il Figlio suo Gesù Cristo. E noi gli rispondiamo attraverso quella
preghiera di ringraziamento, di pentimento e di supplica che, quella Parola
accolta e meditata, suscita in noi.
Ecco perché il Nuovo Catechismo della Chiesa cattolica, nel capitolo
concernente la preghiera, afferma: «La Chiesa esorta con forza e insistenza
tutti i fedeli ad apprendere la sublime scienza di Gesù Cristo con la frequente
lettura delle divine Scritture. Però la lettura della Sacra Scrittura
dev’essere accompagnata dalla preghiera, affinché possa svolgersi il colloquio
fra Dio e l’uomo» (2653).
Il secondo momento della preghiera diventa pertanto il momento del Figlio
perché è attraverso lui che il Padre ci parla e tutta la Bibbia si riassume.
Impariamo quindi a vivere bene questo tempo della Parola perché essa, oltre a
illuminare la nostra mente e riscaldare i nostri cuori, possa veramente
orientare nel giusto modo tutta la nostra vita e aiutarci a vivere sempre di
più come veri figli e figlie di Dio.
E se a volte la nostra preghiera sembra essere una preghiera “troppo
interessata”, “poco fraterna” e “tanto comoda” non dimentichiamo che il Dio a
cui ci rivolgiamo è comprensivo e molto paziente. Dice infatti sant’Agostino:
«La Bibbia è il libro della pazienza di Dio, il quale come un maestro conduce
il discepolo lentamente verso la manifestazione della verità che non può essere
subito colta. È quindi necessario questo pellegrinaggio del sapere e del
graduale conoscere, per attingere una pienezza sempre più grande».
IN UNA RELAZIONE
CON LE TRE PERSONE DIVINE
Stiamo considerando i tre aspetti fondamentali della preghiera cristiana
che ci consentono di vivere con il Dio della nostra fede un rapporto personale
d’amore vero e serio. Siccome il Dio in cui crediamo è sì un Dio unico, ma non
solitario, bensì un Dio trinitario, egli è nella sua realtà intima una
comunione di amore tra la realtà personale del Padre, con quella del Figlio,
nello Spirito Santo.
È quindi importante che sappiamo rapportarci a lui nel giusto modo, vivendo
un rapporto relazionale con ognuna delle tre Persone divine.
Sappiamo che l’unica via per la preghiera giunge al Padre unicamente se
preghiamo nel nome di Gesù. Siamo però anche consapevoli, grazie a Paolo, che
«nessuno può dire “Gesù è il Signore” se non sotto l’azione dello Spirito
Santo» (1Cor 12,3).
Tutto questo ci fa capire che la preghiera dev’essere rivolta al Padre, per
mezzo di Gesù Cristo, nello Spirito Santo. Ecco perché il Nuovo Catechismo
della Chiesa Cattolica afferma: «Per la preghiera cristiana non c’è altra via
che Cristo. La nostra preghiera giunge al Padre soltanto se preghiamo nel nome
di Gesù… Gesù è la via mediante la quale lo Spirito Santo ci insegna a pregare
Dio nostro Padre» (2664). Gesù infatti aveva detto alla donna samaritana: «È
giunto il tempo ed è questo in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in
spirito e verità» (Gv 4,23).
Lo Spirito Santo è quindi l’animatore e il maestro interiore che facendoci
accogliere Gesù (la verità) ci orienta al Padre e ci permette di adorarlo nel
giusto modo. Ecco perché quel tempo quotidiano di preghiera che dedichiamo a
Dio per vivere con lui un rapporto personale e un incontro di amore va iniziato
“abbandonandoci” allo Spirito Santo, in quanto solo lui può immetterci in
questa comunione, ravvivarla e farcela gustare. Questo lo abbiamo visto nella
prima parte. Poi siamo passati al momento dell’ascolto attraverso l’incontro
con la Parola.
Nel terzo momento dobbiamo “entrare” nel Padre con la nostra vita,
partecipandogli tutto ciò che stiamo concretamente vivendo. Dobbiamo quindi
ringraziarlo per le cose belle, impetrare il suo aiuto per le difficoltà da
affrontare, chiedere perdono per le cose sbagliate fatte, fiduciosi che lui
collabora con noi per il conseguimento delle attese più nobili e belle presenti
nel nostro cuore.
La fede che esprimiamo attraverso questa preghiera diventa allora
quell’atteggiamento di fondo che coinvolge tutta la nostra esistenza personale
e conseguentemente diventa adesione al Padre della nostra mente, del nostro
cuore e di tutta la nostra vita. È un’adesione questa che, in qualche modo, ci
“espropria”, ma diamo volentieri il nostro assenso a questo esproprio poiché ci
fa capire che noi non ci apparteniamo ma apparteniamo a un Altro. Dice infatti
il salmo 99: «Riconoscete che il Signore è Dio, Egli ci ha fatti, a lui
apparteniamo…» (3). E Isaia: «Tu, Signore, sei nostro padre, noi siamo argilla
e tu colui che ci dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani” (Is 64,7).
Questa consapevolezza è molto importante poiché è nella misura in cui
decidiamo di vivere sì responsabilmente, ma senza appartenerci, che arriveremo
a prendere in mano la nostra vita nel giusto modo. E giungeremo anche a una
realizzazione ben più completa di quella che i nostri poveri limiti, e meschini
orizzonti, ci avrebbero fatto immaginare e sognare. Per questo Gesù dice: «Chi
vorrà salvare la propria vita, la perderà. Ma chi perderà la propria vita a
causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8,35).
E la vita la perdiamo o salviamo in base a come viviamo il “momento
presente”, l’unico tempo che è nelle nostre mani. Ecco perché è importante che
ogni giorno ci sia un “tempo-per-Dio” ben preciso, affinché questo incontro ci
aiuti ad affrontare bene tutti gli altri tempi della giornata.
Il momento presente
L’intera esistenza è un susseguirsi di attimi, di “momenti-presenti”
che, se sono vissuti in Dio, trasfigurano il tempo e lo rendono eterno. In
altre parole, potremmo dire che l’attimo presente vissuto alla presenza di Dio,
riempie di eternità il tempo. Ma per raggiungere queste mete bisogna educarsi a
valorizzare continuamente quell’attimo di tempo che abbiamo tra le mani.
Qualsiasi persona che si ponga a considerare la propria vita è portata
inevitabilmente a pensare al suo passato che può valorizzare come esperienza
accumulata in seguito a cose vissute, ma è un tempo che non è più nelle sue
mani. Oppure tale persona può anche riflettere sulle prospettive future nelle
quali organizzare la sua esistenza. Ma qui il tempo è solo potenzialmente
presente, quindi non realmente valorizzabile ora.
L’unico tempo che si può gestire continuamente è quell’ “istante presente”
che si rinnova continuamente e che si ripropone per darci la possibilità di
scrivere e orientare meglio la nostra storia. Per questo santa Teresina del
Bambino Gesù scriveva: «Se talvolta ci si dispera è perché si pensa al passato
o al futuro…».
Trascurando così il presente e le sue potenzialità… è quindi accogliendo e
valorizzando continuamente il tempo che ci passa tra le mani che noi abbiamo la
possibilità di arricchire l’ “oggi” del passato. Ed è arricchendo l’ “oggi”
dell’esperienza del passato che ci predisponiamo a valorizzare meglio il
futuro. La preghiera è un aiuto indispensabile per vivere bene tutto questo.
È molto importante capire questo modo di porsi del tempo nella storia per
viverlo bene anche nella dinamica del nostro rapporto con Dio. Perché il
progetto che Dio ha su di noi, egli ce lo fa comprendere gradualmente. Noi
infatti non siamo a conoscenza di ciò che saremo chiamati ad affrontare fra
3,5,10 anni. Né sappiamo ora quello che il Signore si attenderà da noi domani o
in un prossimo futuro.
Quello che conosciamo (quando lo sappiamo) è solo ciò che siamo chiamati a
fare e a vivere oggi, ora, in questo momento. E nella misura in cui noi vivremo
bene oggi il “momento presente” in riferimento a Dio, egli ci preparerà a poco
a poco a capire e ad affrontare il domani, e a comprendere ciò che si attenderà
da noi nel tempo che verrà. Goethe, scrittore e scienziato tedesco (1749-1832)
soleva dire: «Si dovrebbe almeno una volta al giorno udire una canzoncina,
leggere una bella poesia, vedere un bel quadro e, se possibile, dire poche
parole ragionevoli…». A questo richiamo di Goethe, io aggiungerei:
«Bisognerebbe almeno una volta al giorno incontrarsi veramente con Dio, per
permettergli di illuminarci e aiutarci a rendere la nostra vita bella, seria ed
entusiasmante. Perché “l’attimo presente” vissuto alla presenza di Dio riempie
di eternità il tempo».
La vita è una cosa seria
Se l’unico tempo che abbiamo a disposizione è il “momento presente”,
dobbiamo allora capire che è attraverso questa reale e unica vita che abbiamo
tra le mani che siamo chiamati a fare la nostra personale esperienza di Dio.
«La gioia umana consiste nell’essere in armonia con gli uomini, mentre
quella divina si sperimenta quando siamo in armonia con il cielo» (Chang Tzu).
Pertanto, se da un lato a volte vorremmo che certe situazioni fossero diverse,
certe croci meno pesanti, e certe realtà più maneggevoli, dall’altro dobbiamo
avere la consapevolezza che la “realtà presente” nella quale siamo immersi, e
che è nelle nostre mani, è un tesoro prezioso che possiamo e dobbiamo
valorizzare per aprirci e offrirci a Dio, e nel contempo diventare un dono per
gli altri.
Il terzo momento della preghiera diventa allora questo legame di fede che
unisce la nostra vita, così com’è, a quella di Dio. In altre parole potremmo
dire che l’entrare in Dio con la nostra vita, nel terzo momento della preghiera
nel quale ci relazioniamo col Padre dobbiamo far sì che la preghiera diventi
come una specie di “cordone ombelicale” che ci permette di accogliere la vita
divina e di viverla nella nostra vita…
È quindi nella nostra storia che Dio si fa presente, ci prende per mano e
si fa conoscere . Nonostante questa sua attenta e assidua presenza, egli
normalmente non ci salva da un male o da una situazione spiacevole
togliendocela, ma illuminandoci sul modo di affrontarla e sostenendoci in essa,
permettendoci così di maturare e di crescere. È in questo modo che noi possiamo
affrontare gli eventi, anche i più duri, senza subirli e orientandoli.
Ecco perché De Vigny, uno che di queste cose se ne intendeva, soleva dire:
«L’uomo forte crea gli eventi; l’uomo debole invece subisce quelli che il
destino gli impone».
Riguardo alla reazione istintiva che c’è in noi di evitare le cose
spiacevoli e difficili che siamo chiamati a vivere, p. Pio un giorno fece
un’osservazione. Egli stava osservando dalla sua finestra la folla che si
accalcava nel piazzale sottostante per incontrarlo. A un certo momento, con
fare pensoso e dispiaciuto, si rivolse al confratello che gli stava accanto e
gli disse: «Vedi tutta questa gente? Viene da me affinché io interceda per loro
e la croce che li ha colpiti sia loro tolta. Nessuno mi chiede il dono di saper
portare quella croce».
Probabilmente il padre aveva ben presenti quelle parole di Gesù, riportate
dall’evangelista Luca: «A tutti Gesù diceva: Se qualcuno vuol venire dietro a
me, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9,23).
Quindi riassumendo, potremmo in conclusione affermare che il Padre, il
Figlio e lo Spirito Santo sono il Dio trinitario che è con noi, non per
alienarci dalla nostra storia, ma per assumerla e trasformarla con noi. E,
nella preghiera rivolta a questo Dio trinitario, ogni persona divina deve avere
il nostro tempo, la nostra attenzione, e conseguentemente la nostra
disponibilità.
Quando noi sapremo garantire la serietà di questa preghiera, di questo
rapporto personale col Dio trinitario, allora anche la nostra preghiera –
preghiere del mattino, della sera, lodi, ora media, vespri, via crucis, rosari,
novene, ecc. – avranno una loro profondità e consistenza. Non si tratta quindi
di educarsi alla preghiera eliminando o trascurando le preghiere. Si tratta
invece di cogliere, finalmente, quel richiamo che Gesù rivolge alla donna
samaritana, e vivere una preghiera rivolta al Padre, sostenuta dallo Spirito
Santo, e orientata dalla verità di Cristo. Perché “il Padre cerca tali
adoratori” (Gv 4,23).
Ecco il motivo per cui il Nuovo Catechismo della Chiesa cattolica afferma:
«Per la preghiera cristiana non c’è altra via che Cristo. Egli è la via
mediante la quale lo Spirito Santo ci insegna a pregare il Padre» (2664).
Questa preghiera è quindi il “momento” che dà qualità al nostro rapporto
con Dio e alla nostra vita cristiana.
È un momento, questo della preghiera, che all’inizio potrebbe limitarsi a
una mezz’ora, ma che deve gradualmente tendere a diventare l’“ora per Dio”. In
questo modo avrà una sua consistenza, e un suo influsso benefico, che si
ripercuoterà su tutto ciò che siamo chiamati a fare e a vivere nelle altre ore del
giorno.
Inoltre è questo “momento” di incontro vero con Dio che darà un’anima e una
profondità alle altre “preghiere” del giorno, permettendoci di santificare
tutta la nostra vita, facendone cioè un’offerta al Padre, per mezzo di Gesù,
nello Spirito Santo.
In questo modo, a poco a poco, tutta la nostra esistenza si trasformerà in
un vero culto spirituale… Quel culto frutto della vita nuova in Cristo di cui
parla san Paolo nelle sue lettere, in particolare in quella ai Romani: «Vi
esorto fratelli, per la misericordia del Signore, a offrire i vostri corpi come
sacrificio vivente, santo e gradito a Dio. È questo il vostro culto spirituale»
(Rm 12,1).
Nell’Antico Testamento, i profeti hanno sempre disapprovato con energica e
indignata fermezza i comportamenti morali dei credenti che erano in
contraddizione con il culto che rivolgevano a Dio. Cristo Gesù ha reso al Padre
il culto perfetto di una obbedienza filiale, durata tutta la sua esistenza
terrena.
Questo di Cristo è l’unico culto valido che Dio si merita e si attende. E
questo culto, il Signore Gesù lo partecipa ai suoi discepoli, mediante la
grazia del battesimo. Quindi con il Signore, come lui e nello Spirito Santo,
anche i discepoli (cioè i cristiani) possono e devono dire: «Ecco io vengo, o
Padre, per fare la tua volontà» (Eb 10,7).
Ecco perché questo nuovo culto spirituale rivolto al Padre, vissuto in
Cristo, e sostenuto dallo Spirito Santo, è talmente legato alla vita da formare
con essa una unità indissolubile.
Ecco perché non ha senso dire, secondo una mentalità purtroppo diffusa tra
molti cristiani: «Sono un credente, ma non sono praticante».
Ed ecco perché la fede che vive e testimonia il credente cristiano deve
esprimere la consapevolezza di un rapporto personale, quella di una creatura
con il suo Creatore, nel quale vivere, spendere e giocare tutta la propria
vita.
È questo che mette le basi e le premesse per la venuta del regno di Dio
sulla terra e la costruzione di un mondo nuovo.
E anche tu, sacerdote, ministro di Dio, non accontentarti di celebrare
l’Eucaristia, dire il breviario e vivere il tuo apostolato. Tutto questo avrà
il suo valore, porterà i suoi frutti e santificherà la tua vita e quella della
Chiesa nella misura in cui permetterà all’amore di Dio, alla sua Parola e alla
sua grazia di infiammare continuamente il tuo cuore.
In questi ultimi tempi ho notato con piacere che anche i pastori della
Chiesa ci hanno fatto sentire il bisogno che abbiamo oggi di educarci a una
preghiera più assidua e più vera. Il Nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica ha
riservato nientemeno che una settantina di pagine (dal n. 2559 al 2865) per
illuminare sull’importanza della preghiera e sul modo di farla.
Negli orientamenti pastorali per la diocesi di Ivrea, mons. Arrigo Miglio
ha detto: «La preghiera di Gesù ci interpella sulla fisionomia delle nostre
comunità cristiane, chiamate a essere eucaristiche e oranti. È necessario
sviluppare la vita di preghiera della comunità parrocchiale. Poi il vescovo per
facilitarla dà alcuni suggerimenti pratici: avere la chiesa aperta e
accogliente, almeno nelle ore del mattino e della sera; ritrovarsi per il
rosario nei mesi di maggio, di ottobre e per i defunti; celebrare le novene più
sentite e la Via crucis; prevedere periodicamente un tempo per l’adorazione
eucaristica alimentata dalla lettura della parola di Dio; incoraggiare la
preghiera di Lodi e di Vespro; meditare la parola di Dio che la liturgia offre
ogni giorno» (Cinque pani e due pesci).
Il cardinale di Torino, Severino Poletto, in occasione dell’Avvento 2002,
ha scritto un bel messaggio dal titolo La preghiera, respiro dell’anima, dove
tra l’altro ha precisato una cosa molto importante dicendo: «Pregare non è
anzitutto dire delle cose a Dio, ma fare silenzio davanti a lui, stare ad
ascoltarlo sentendoci guardati da lui e godendo di stare a lungo in sua
compagnia…».
E sentite cosa ha scritto sulla preghiera Giovanni Paolo II, nella lettera
apostolica redatta subito dopo l’anno giubilare: «C’è bisogno di un
cristianesimo che si distingua innanzitutto nell’arte della preghiera. È
necessario imparare a pregare. Perché questo è il segreto di un cristianesimo
veramente vitale. Sì, carissimi, le nostre comunità cristiane devono diventare
autentiche scuole di preghiera, dove l’incontro con Cristo non si esprima
soltanto in implorazioni di aiuto, ma anche di rendimento di grazie, lode,
adorazione, contemplazione, ascolto, fino a giungere a un vero invaghimento del
cuore» (cioè fino a giungere a innamorarci del Signore) (Novo millennio
ineunte, 32-33).
Per concludere questa riflessione sulla preghiera, come non citare santa
Teresa d’Ávila, questa innamorata del Signore che giunge a dirsi e a dirci:
«Nulla ti turbi, nulla ti sgomenti. Tutto passa, Dio non muta. La pazienza
tutto vince, e a chi ha Dio, nulla manca. Dio solo basta!».
E il Dio della nostra fede basta veramente, poiché è lui il Signore del
tempo e della storia, della vita e della morte.
Inoltre, la fedeltà del suo amore non ha limiti se non quelli
dell’eternità. A noi dunque il compito di valorizzare il tempo storico che è
nelle nostre mani, per viverlo in pienezza. E permettere così all’amore di Dio
Padre, per mezzo della verità di Cristo Gesù, di realizzare in noi, mediante
l’azione santificatrice dello Spirito Santo, il suo capolavoro.