UNA DOMANDA PROVOCATORIA

“DOPPIA APPARTENENZA”? NO, GRAZIE… ANZI, DI PIÙ

 

Attraverso una lunga esperienza di vita, Fabio Ciardi ci conduce a riflettere, un po’ provocatoriamente, su una realtà su cui in passato si erano accumulati troppi “se” e “ma” e ci invita a pensare a una vita consacrata con un respiro più ampio ed ecclesiale.

 

Sono venticinque anni che ogni estate mi incontro in Svizzera con religiosi di tutto il mondo aderenti al Movimento dei focolari. Anche quest’anno eravamo 90, dagli Stati Uniti al Giappone, dal Messico al Togo, dal Brasile all’Olanda, dal Portogallo al Congo… dei più diversi istituti, in rappresentanza di diverse migliaia di religiosi.

Terminato il convegno mi fermo ancora un giorno al Foyer che ci accoglie e ceno con la comunità locale. Un laico, che si occupa dell’accoglienza, mi domanda cosa abbiamo fatto in tutti quei giorni d’incontro. Gli parlo degli argomenti trattati: la comunione tra i carismi, il nostro impegno per l’unità nella Chiesa, il rapporto tra le generazioni all’interno della vita religiosa. Gli parlo soprattutto della profonda esperienza spirituale che abbiamo vissuto insieme. Mi ascolta interessato, anzi ammirato.

Non finisco di parlare che un frate lì accanto taglia corto: “Doppia appartenenza”. “Come?”, faccio, pensando di non aver ben compreso. “Doppia appartenenza”, ripete tranquillo. Mi sembra un parola preistorica, sepolta da tempo, almeno dal tempo dell’esortazione apostolica Vita consecrata che, parlando del rapporto tra vita religiosa e movimenti ecclesiali, non usa più questo stereotipo. E invece mi sento risuonare ancora nelle orecchie la formula “doppia appartenenza”, riesumata da chissà quali scavi archeologici. Soprattutto mi colpisce la laconicità dell’affermazione: “Doppia appartenenza”. Non ha altro da aggiungere il buon frate. È una formula risolutiva, conclusiva, rassicurante, che dispensa dal riflettere. Il problema è etichettato e classificato, risolto ed eliminato.

Non ribatto perché mi accorgo che sono davanti a un dato ideologico e le ideologie, si sa, sono una fede cieca, e perciò inscalfibili, refrattarie a qualsivoglia argomentazione.

 

NON DOPPIA

MA TRIPLA QUADRUPLA…

 

Quasi quasi fa venire il dubbio anche a me. Mi domando se davvero ho una doppia appartenenza. Macché doppia! Mi accorgo di avere una tripla, quadrupla, multipla appartenenza. Che ricchezza, mi viene da pensare.

Al vecchio vescovo di Prato, mons. Pietro Fiordelli, piaceva presentarmi come il suo “religioso diocesano”. Doppia appartenenza? Sì, felice doppia appartenenza. Ho conservato e conservo un grande amore per la mia diocesi d’origine, ne seguo il cammino, e quando mi è possibile partecipo ai suoi eventi… Aveva ragione il vescovo, sono un “diocesano”, appartengo alla diocesi, e insieme sono un “religioso”, appartengo al mio istituto…

Da trent’anni lavoro al “Claretianum”, l’Istituto di teologia della vita consacrata dell’Università Lateranense. Sono stato il primo studente a conseguire il dottorato e sono professore ordinario. Ai convegni annuali indetti dall’Istituto sono quello che ha dato il maggior numero di relazioni. Tanti pensano che io sia un “claretiano” e, in giro per il mondo, spesso vengo presentato come tale. Ne sono onorato! Doppia appartenenza?

Dieci anni di insegnamento alla pontificia Università Salesiana mi hanno lasciato il marchio e alcuni pensano che io sia un “salesiano”. La mia assidua, quotidiana frequentazione, fin da piccolo, dei francescani, e più tardi delle clarisse e di una congregazione francescana femminile, mi ha conferito una particolare affinità con l’esperienza di san Francesco: mi sento “francescano”.

Il guaio è che mi sento un po’ di tutti. Infatti, durante l’Ufficio delle letture, da molti anni, leggo per intero i classici della letteratura cristiana e, di volta in volta, mi sono ritrovano agostiniano, cistercense, carmelitano… Non si tratta di letture soltanto. Intrattengo rapporti di amicizia e di comunione con religiosi e religiose di tanti istituti, di tante spiritualità… Altro che doppia appartenenza!

Che sia, la mia, la mancanza di una identità propria? O forse l’inizio di un’esperienza di cattolicità? Che sia una risposta all’invito dell’apostolo Paolo: «Fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri» (Fil 4,8)?

Penso poi a quante altre “appartenenze”, di tipo diverso, mi ritrovo sulle spalle: appartengo alla Chiesa cattolica, alla nazione italiana, all’Associazione di ricerche e studi oblati… Mia mamma e i miei parenti giurano che appartengo alla loro famiglia, e forse Dio stesso – Dio lo voglia – rivendica a sé la mia esclusiva appartenenza.

«Non imbrogliamo le carte – sento già obiettare, giustamente –, non confondiamo i diversi piani di appartenenza».

 

UN’APPARTENENZA

DIFFERENZIATA

 

È proprio quello a cui voglio arrivare! Ed è quello a cui non ha pensato chi ha coniato la sfortunata espressione “doppia appartenenza”. Quando si parla di doppia o pluri-appartenenza occorre sempre tenere presente l’antico e saggio principio dell’analogia. Appartengo a un determinato istituto religioso e insieme a un movimento ecclesiale? Sì, ma si tratta di modalità di appartenenza diverse. Appartengo all’istituto in modo diverso da come appartengo al movimento. Non è lo stesso tipo di appartenenza, ma una appartenenza differenziata e solo analogicamente di può parlare di appartenenza per l’una e l’altra realtà.

Il legame d’appartenenza all’istituto ha vincolanti aspetti giuridici che non ha l’appartenenza al movimento, di natura puramente spirituale. Ha ragione l’esortazione apostolica Vita consecrata a dire che l’adesione ai movimenti ecclesiali deve avvenire «nel rispetto del carisma e della disciplina del proprio istituto, col consenso dei superiori e delle superiore e nella piena disponibilità ad accoglierne le decisioni». Siamo infatti su due pieni ben distinti, da una parte un tipo di appartenenza giuridico, carismatico, spirituale, apostolico, dall’altra un’appartenenza di carattere meramente spirituale da cui i religiosi – cito sempre Vita consecrata – «traggono in genere beneficio, specialmente sul piano del rinnovamento spirituale» (n. 56).

 

OGNI CARISMA

UN DONO PER LA COMUNITÀ

 

«In ogni caso – si potrà ancora obiettare – si tratta di una doppia appartenenza d’ordine spirituale, quasi non bastasse il proprio carisma». E infatti non basta! O meglio, non ci si può rinchiudere nel proprio particolare, si diventerebbe settari e il carisma si farebbe asfittico. Ogni carisma, ha insegnato san Paolo, è un dono per tutta la comunità e, nello stesso tempo, ha bisogno del dono degli altri carismi. Siamo cattolici, trasparenti, aperti gli agli altri, pronti a donare come a ricevere, vivendo la “comunione dei santi”, la realtà della Chiesa comunione: «tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa (e attualizzano, potremmo dire: Francesco, Ignazio, Teresa d’Ávila, ma anche padre Pio, Madre Teresa, Chiara Lubich…) il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (1Cor 3,22-23). Illuminante questo testo di Paolo dove le molte appartenenze confluiscono nell’unica definitiva appartenenza, in Cristo, a Dio. Che respiro grande, che vastità di orizzonti, che liberazione del mio miope particolarismo.

La Madre Chiesa nella liturgia ci nutre con gli scritti dei padri e dei santi, di tutti i tempi, di tutti i luoghi, di tutte le correnti spirituali, ci fa celebrare le loro feste, ce li propone come esempi, sicura che se un francescano è attento all’insegnamento di Teresa d’Ávila sull’orazione con ciò non lascia il cammino di san Francesco, se un benedettino legge san Francesco di Sales non devia dalla sua strada. Penso – mi si perdoni gli accostamenti… sempre analogici! – al canarino e al pappagallo che mangiano lo stesso miglio: il canarino resta canarino e il pappagallo pappagallo e più mangiano più diventano se stessi: non cambiano natura perché si nutrono dello stesso cibo.

La spiritualità del Movimento dei focolari l’avverto come una luce che ravviva i colori del mio carisma e di altri carismi nella Chiesa; come un’acqua fresca che irrora alle radici i carismi. Mi piace l’immagine della Chiesa come un giardino che sboccia in tanti fiori quanti sono i carismi. Esponendosi alla luce i fiori non perdono i loro colori, bevendo la stessa acqua non diventano uguali tra di loro. Lo stesso vale per i carismi. Un domenicano non si snatura se si nutre della Storia di un’anima di Teresa di Gesù Bambino, dottore della Chiesa, ossia di tutti i membri della Chiesa e non soltanto delle carmelitane…

La formula stereotipa “doppia appartenenza” non può diventare un alibi per non ascoltare ciò che lo Spirito continua a dire alla Chiesa attraverso i suoi sempre nuovi carismi, per non compromettersi in una comunione esigente con tutte le vocazioni. Il dialogo, i rapporti d’amicizia spirituale, la comunione, l’unità sono un arricchimento, un fattore di crescita, la via sicura per conseguire identità e maturità, così da diventare a propria volta dono per tutti.

 

Fabio Ciardi, omi