I SAVERIANI RIFLETTONO SULLA SPIRITUALITÀ

RITROVARE LA SORGENTE

 

I missionari saveriani riflettono sulla loro spiritualità. Un tema scontato che, se preso sul serio, può essere fattore di rinnovamento. L’esigenza che oggi si sente è di puntare sulla qualità e non sulla quantità e riprendere seriamente il dovere della propria formazione continua.

 

Siccome l’anno prossimo i missionari saveriani celebreranno il XV capitolo generale e tutti sentono che un certo tipo di capitoli, ereditato dalla stagione postconciliare, è ormai superato, si stanno domandando come rendere il prossimo interessante e stimolante. L’ultimo capitolo ha elaborato un documento Ratio Missionis Xaveriana, che ha evidenziato il bisogno di riflettere sulle modalità di far missione proprie dei saveriani. La preparazione del documento in questione era stata molto partecipata, ma una volta approvato e promulgato la tensione si è come sciolta e il documento rischia di andare a impolverarsi nella biblioteca delle case regionali. Che fare per coinvolgere la base nell’istituto? E, più concretamente ancora, dove orientare l’attenzione e la riflessione del prossimo capitolo generale?

Ci è venuto in aiuto la ricorrenza del 500° anniversario della nascita di Francesco Saverio, nostro patrono (1506), il 75° anniversario della morte del nostro padre e fondatore, mons. Guido M. Conforti, due figure fondanti della nostra identità. Perciò, già dall’anno scorso la direzione generale ha promosso e convocato un convegno sulla spiritualità saveriana. Esso si è svolto nei primi quindici giorni di agosto presso il Centro di spiritualità missionaria di Tavernerio (Como) e vi hanno partecipato trenta confratelli, designati dalle rispettive circoscrizioni, altri sette erano invitati dalla direzione generale, tre erano assenti (i confratelli delle Filippine e uno degli USA) per problemi di visa. In tutto 42 partecipanti.

Nei primi cinque giorni il convegno ha ascoltato tre esperti non saveriani, il p. Ignacio Echarte sj che ha parlato dello spirito che ha animato Francesco Saverio, della sua ricca umanità, del suo zelo instancabile e appassionato, sostenuto da una fiducia incrollabile in Dio, nata dal suo incontro con Cristo nell’esperienza degli Esercizi spirituali, del suo senso di appartenenza alla Compagnia e del suo intenso e coraggioso, ma anche prudente e saggio, lavoro apostolico. Dopo di lui è stata la volta di p. Luigi Guccini, dehoniano, e di p. Amedeo Cencini, canossiano, che hanno aiutato i convegnisti a penetrare il significato teologico e le implicazioni psicologiche della spiritualità, intesa come vita secondo lo Spirito Santo. La spiritualità è stata presentata come un rapporto costante di ascolto e di accoglienza dell’Altro e degli altri, elemento di identificazione, di relazione e di mistero, nella docilità all’azione dello Spirito Santo, vissuta nel concreto della nostra identità umana, personale e comunitaria, come incarnazione e attuazione del carisma proprio dell’istituto.

In questa fase ci siamo resi conto dell’urgenza di ritrovare la radice spirituale della nostra vita missionaria, di non darla per scontata né di trasmetterla in slogan che rischiano di non incidere più nella vita. Abbiamo capito che bisogna ritrovare lo spessore spirituale, evangelico, della nostra identità e missione. Troppo spesso noi ci preoccupiamo di ciò che la missione ci chiede di fare e troppo poco di verificare se siamo adeguati alla missione, che è primariamente opera di Dio, e non nostra. Ci sembra che la missione sia nostra e le diamo tanta attenzione da perdere di vista, per così dire, il bisogno che abbiamo di conoscerne la sorgente nascosta in quel mistero di vocazione e di risposta che sta all’origine della nostra destinazione alla missione.

 

IL FONDATORE

E LA SUA EREDITÀ

 

Nella seconda parte abbiamo ripreso la figura di mons. Guido M. Conforti, vescovo di Parma e fondatore dei missionari saveriani, che ha vissuto in sé la preoccupazione per la missione universale della chiesa e l’attenzione alla chiesa locale. Rileggendo la sua esperienza e guardando alla sua figura, per molto tempo consegnata in forme stereotipe, abbiamo ritrovato la sua ispirazione originaria e le linee di forza che l’hanno sostenuta. Abbiamo poi scrutato il cammino dell’istituto e della sua spiritualità negli anni successivi alla sua morte (1931) e le ragioni di una certa involuzione della formazione, ma anche la progressiva riscoperta della sua figura, grazie ai lavori del convegno internazionale dei formatori saveriani a Pamplona (1980) e alla pubblicazione degli scritti del Conforti. In questo clima di nuova attenzione al Conforti, l’istituto ha proceduto alla redazione delle costituzioni secondo le richieste del concilio. Proprio alle costituzioni originarie e rinnovate abbiamo dedicato una buona parte del tempo a disposizione – personalmente e nei gruppi di lavoro – per verificarne la fedeltà e la sintonia con lo spirito del Conforti.

In questo lavoro di ricerca, fatto insieme, abbiamo visto delinearsi davanti ai nostri occhi, sempre più nitida e amabile, la figura del nostro padre e fondatore, di sentirne il fascino, di comprenderne meglio il carisma, di rivivere in noi il sogno nato in lui dalla contemplazione di Cristo crocifisso. Lo abbiamo riscoperto e sentito vicino come il padre che ci ha generato nella nostra identità saveriana, ma anche come il maestro che ancora ci guida nel quotidiano impegno di viverla. Abbiamo capito e sentito che la sua esperienza di Gesù Cristo deve essere anche la nostra; che la sua passione per farlo conoscere a tutti deve alimentare la nostra; che il suo modo di essere fedele alla sua vocazione fino alla fine, deve ispirare, giorno dopo giorno, la nostra fedeltà. Sono emersi così alcuni elementi costanti che non solo sono ancora validi, ma che sono oggi decisivi per la nostra vita e per mettere a punto la nostra spiritualità nel contesto storico attuale.

 

LE NUOVE SFIDE

DA AFFRONTARE

 

Guidati dalla riflessione di alcuni confratelli, ci è parso chiaro che il cammino della missione avanza oggi attraverso terre sconosciute e nuove, in situazioni storiche e culturali nuove, e che il missionario conosce sfide del tutto inedite e non presenti nel cliché della missione tradizionale, qui come in altri continenti, in occidente come nelle altre culture ormai omologate, o quasi, dalla cultura planetaria della globalizzazione. Come dire Dio oggi? Come annunciare oggi il Vangelo, la “bella notizia” di Cristo? Come fare, oggi, che “sia da tutti conosciuto e amato nostro Signore Gesù Cristo” (come era solito scrivere mons. Conforti, all’inizio delle sue lettere) nei villaggi delle campagne e nelle periferie delle grandi città dell’Asia, dell’Africa, dell’America e dell’Europa?

Per dire Dio come eterno dono di sé che in Cristo entra nella storia del mondo, e trasmetterlo con la nostra testimonianza di persone segnate dall’esperienza dell’amore di Dio; per annunciare, con la nostra vita, il Vangelo in tutta la sua originale e liberante verità, abbiamo sentito come imprescindibile esigenza di vivere noi stessi quella fede autentica che si consegna a Dio totalmente e personalmente (Dei verbum 5). In altre parole dobbiamo preoccuparci di mantenere vivo lo spessore spirituale della nostra vita saveriana, la testimonianza evangelica, ben più importante di quello che possiamo fare, delle nostre opere, spesso sopravvalutate per quel protagonismo che è ancora parte della figura romantica del missionario.

In questa ricerca si è progressivamente illuminata la figura serena e la personalità armoniosa del beato G. M. Conforti, intensamente impegnato nel servizio alla chiesa di Parma e nella missione al mondo non cristiano, discepolo di Cristo cresciuto alla scuola della croce e lì diventato apostolo; un discepolo che si alimentava costantemente di “spirito di viva fede”, di incrollabile speranza; di “intenso amore per la nostra religiosa famiglia”, caratterizzato da una tenace capacità di ‘ripartire’, dopo ogni prova. La sua spiritualità, segnata anche da una umanità ricca e sensibile, forte e dolce, ci è parsa essere scuola e fonte di ispirazione e incoraggiamento. Nella “Parola della croce”, Cristo è presente anche oggi in mezzo a noi specialmente per mezzo dell’Eucaristia, da cui il Crocifisso parla ancora oggi a ciascuno di noi e “ci addita il mondo” “con le sue gioie e le sue speranze, le angosce degli uomini e delle donne di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono…”.

 

CONCLUSIONI SORPRENDENTI

MA REALIZZABILI?

 

Anzitutto questo genere di convegni non è comune tra noi, membri di istituti missionari e di vita apostolica. Non è comune che tra di noi, specialmente uomini, si parli di questi temi che toccano da vicino l’ambito personale. Le nostre riunioni e le nostre ricerche, in genere, ruotano attorno a temi pubblici come la missione, il servizio alla chiesa locale, l’impegno storico di liberazione o di promozione umana e simili, in una parola, attorno al nostro fare missione. Il convegno di Tavernerio, in questo senso, è stato atipico, perché la riflessione verteva sul nostro essere per la missione, un aspetto della nostra vita che, troppo spesso, diamo per scontato e….dimenticato!

Aver proposto il tema della spiritualità è stato un atto di coraggio da parte della direzione generale, anche perché un tema come questo viene, in genere, classificato tra i temi a rischio, quelli possono scivolare sul crinale dello spiritualismo, che oggi è da tutti e giustamente detestato!

Non pochi confratelli nella fase di preparazione del convegno avevano espresso qualche riserva sulla scelta del tema e dichiaravano di aver paura che esso finisse per fare … il classico buco nell’acqua, con il risultato di condannare la spiritualità a essere estromessa per un bel po’ dell’attenzione comunitaria dei saveriani. Non è stato così. Il convegno ha unanimemente riconosciuto l’urgenza di trattare questo tema e la sua importanza per il processo di crescita della comunità e il rinnovamento del nostro modo di essere missionari. In un tempo in cui – come tutti – anche i saveriani devono fare i conti con la riduzione del numero del personale, e si trovano a trasmettere ad una generazione nata fuori dell’ambito culturale del fondatore il carisma di mons. Conforti e del suo istituto, è urgente trovare una formulazione della spiritualità, attualizzata e condivisa.

Le conclusioni sono state sorprendenti, tanto da far venire il dubbio che esse siano realizzabili. Dal convegno non è uscito alcun documento, se non (noblesse oblige!) un breve messaggio ai confratelli, un segno di vita dopo quindici giorni di lavoro. Non è stato approvato nessun documento scritto per l’istituto, ma tutto è risultato essere condiviso, come raramente mi è toccato di vedere. Non potrebbe essere questa un’indicazione metodologica per il capitolo generale? Preparare e far studiare il tema nelle circoscrizioni e poi, nel corso del capitolo o dell’assemblea, maturare insieme delle convinzioni da consegnare alla direzione generale e alle direzioni regionali perché ne facciano materia della loro animazione della congregazione. Non documenti, non nuove definizioni, ma spunti di riflessione e materiale di costruzione per le comunità.

Da dove è venuta questa nuova maniera di procedere? Effetto di riflusso o di disimpegno? Conseguenza della mentalità post-moderna, incerta sulla verità e insicura delle proprie affermazioni? Né l’uno né l’altra, ma la presa di coscienza che davanti alla situazione attuale dell’istituto si deve puntare alla qualità e non alla quantità, e riprendere seriamente il dovere della propria formazione continua. Noi ci troviamo a essere come un fiume che scorre nella valle delle nostre molteplici attività apostoliche e abbiamo bisogno di rivolgerci in modo costante alla nostra sorgente per ritrovarvi ispirazione, vitalità, nuovo impeto.

Resta, ovviamente, il problema di come far entrare i confratelli e le comunità in questa consapevolezza perché possa diventare operativa e influire nella nostra missione. Uno dei relatori esterni, p. Luigi Guccini, ci ha fatto comprendere che, se la coscienza dell’urgenza di ritrovare una spiritualità autentica, come anima della nostra azione, dovesse rimanere una risoluzione personale di individui, e non si traducesse nel vissuto delle comunità, nulla cambierebbe nella vita della nostra famiglia missionaria. La speranza uscita dal convegno è proprio questa: far lievitare la coscienza comunitaria delle nostre comunità.

 

Gabriele Ferrari s.x.