IL CARD. E. PIRONIO VERSO GLI ALTARI

L’UOMO DEL MAGNIFICAT

 

Aperta nella solennità del S. Cuore la causa di canonizzazione del card. E. Pironio, in concomitanza con quella di Paolo VI e Giovanni Paolo II. Il cardinale argentino accompagnò il rinnovamento postconciliare della vita religiosa, proponendosi come uomo di gioia, fiducia e di speranza.

 

È doveroso ricordare il card. E. Pironio in questo momento in cui è stata aperta a Roma la fase diocesana del processo di beatificazione e di canonizzazione, per tutto quello che ha rappresentato e fatto per la Chiesa e in particolare per i religiosi/e nella delicata e insieme esaltante fase del rinnovamento postconciliare, in qualità di pro-prefetto della Congregazione per la vita consacrata, carica che ha occupato dal 1975 al 1984. L’apertura della causa ha avuto luogo a Roma nella Sala della Concilazione del Palazzo apostolico lateranse, con una cerimonia presieduta dal card. Camillo Ruini, vicario generale del papa per la diocesi di Roma. E proprio da Roma doveva avere inizio il processo di canonizzazione, essendo egli morto in questa città il 5 febbraio 1998, all’età di 77 anni.

Era nato in provincia di Buenos Aires (3/12/1920) ultimo dei 22 figli degli immigrati friulani Giuseppe ed Enrica Rosa Buttazzoni, Eduardo Francisco Pironio. Nel 1932 entra in seminario e viene. Ordinato sacerdote nel santuario di Nostra Signora di Luján, patrona del popolo argentino, inizia la sua attività pastorale come insegnante nel seminario di Mercedes e nel 1958 è vicario generale della stessa diocesi, quindi docente all’Università cattolica di Buenos Aires e rettore del seminario metropolitano. Nominato vescovo, partecipa al Vaticano II e poco dopo viene eletto presidente del Celam. Nel 1975 Paolo VI lo nomina pro-prefetto della Congregazione per i religiosi e gli istituti secolari e nel concistoro del 24/05/76 lo crea cardinale.

Nel 1984 diviene presidente del pontificio Consiglio per i laici e inizia l’esperienza delle Giornate mondiali della gioventù: «Nati dall’intuizione profetica e dal grande amore per i giovani di Giovanni Paolo II – ha affermato il cardinale Camillo Ruini nel discorso di apertura della fase diocesana della causa di beatificazione – questi incontri hanno trovato nel cardinale il sostenitore convinto e l’artefice sapiente: li ha ricevuti nel loro nascere a Roma nel 1984 e, facendosi pellegrino instancabile con il papa e con i giovani sulle strade del mondo, li ha accompagnati con tenerezza e amore fino alla vigilia della loro dodicesima edizione a Parigi. E ogni volta, con la sua parola e la presenza assidua, discreta, sorridente e paterna, marcava un passo in avanti, un cambiamento nel sentire, una prospettiva diversa su cui riflettere, un seme nuovo, che deponeva con delicatezza e fiducia nelle fertile terra della verde età».

Muore a 77 anni, offrendo la sua malattia per la Chiesa, il papa e la VC. Riposa nel santuario dove fu ordinato prete e consacrato vescovo. Dal 2005 la sua causa di beatificazione è sostenuta dall’associazione a lui intitolata e dal Forum internazionale Azione cattolica (Fiac).

 

UNA SPIRITUALITÀ

DELLA SPERANZA

 

«Credeva profondamente – ha dichiarato il cardinale Ruini – nella fecondità della sofferenza e della croce. Perciò non esitava ad accoglierle con serenità e si lamentava molto raramente. L’uomo del Magnificat è il tipo di persona che ha voluto incarnare: il credente capace di dire il Magnificat, vero preludio del discorso della montagna e soprattutto delle beatitudini. Magnificat è stato, per così dire, il motivo dominante di tutta la sua vita. È la parola che ripete nel testamento ben tredici volte. Gli esce da dentro, piena di gratitudine, di gioia e di misericordia; parola di dolore, di tenerezza e di speranza».

Personalità ricca di talenti (ha scritto oltre 40 volumi e centinaia di articoli), era appassionato della vita consacrata, dei laici e dei giovani. «La speranza era il cardine della sua spiritualità.1 Negli scritti afferma spesso quanto sia importante vivere nel clima della Pasqua, rilevando che la croce non va mai distinta e disgiunta dalla risurrezione», ha dichiarato il postulatore p. Giuseppe Tamburino, benedettino di Praglia. Perciò, andando in pensione, riassunse la sua vita in tre parole: croce, silenzio e preghiera.

Con questa visione era naturale per lui definire la Chiesa, secondo il concilio, come “mistero di comunione missionaria” e concepirla “pellegrina, povera e pasquale”, ma anche laica. Straordinario il suo commento alla notizia della nomina a presidente del Consiglio per i laici: «In quel momento mi sembrava di essere stato retrocesso a un incarico di serie B. Invece ho scoperto di essere stato “promosso” allo stato laicale. I laici infatti formano la maggioranza del popolo di Dio. Ho potuto lavorare affinché i grandi movimenti ecclesiali, un vero dono di Dio e una grazia dello Spirito Santo, possano armoniosamente inserirsi e si sentano accolti nella vita delle chiese locali».

A noi laici, così come ai religiosi, trasmise una spiritualità incarnata, vissuta nella logica del dono di sè per l’altro, dell’abbassamento, della condivisione e del servizio. Con un amore aperto al mondo di quanti non hanno pane e lavoro, amore o salute, dei senza libertà e amicizia, di quanti hanno perso il senso della vita o la fede.

 

UNA PASTORALE

DELLA PICCOLEZZA

 

Per tratteggiare il profilo di questo prezioso collaboratore, papa Wojtyla raccontò durante le esequie un aneddoto: «Nella storia della mia famiglia – ebbe a dire un giorno il compianto cardinale – c’è del miracoloso. Quando ebbe il suo primo figlio, mia madre aveva appena diciotto anni e si ammalò gravemente. Guarita, i medici le dissero che non avrebbe più potuto avere figli senza mettere a repentaglio la propria vita. Andò allora a consultare il vescovo ausiliare di La Plata che le disse “I medici possono sbagliare: si metta nelle mani di Dio e compia i suoi doveri di sposa”. Mia madre da allora mise al mondo altri ventuno figli. Io sono l’ultimo nato e lei è vissuta fino a ottantadue anni. Ma la storia non finisce qui, perché negli anni successivi venni nominato vescovo ausiliare di La Plata, proprio al posto di colui che aveva benedetto mia madre. Nel giorno della mia ordinazione episcopale l’arcivescovo mi consegnò in regalo la croce pettorale di quel vescovo senza sapere la storia che c’era dietro. Quando gli rivelai che dovevo la vita al proprietario di quella croce, egli pianse».

Da qui nasce il suo atteggiamento di rendimento di grazie di fronte al Signore, per il dono della vita fisica, della “novità di vita” in Cristo, del ministero. Da qui trasse forza per un servizio alla Chiesa sempre più vasto e universale. Non ha mai concepito il suo ruolo come quello del pompiere che spegne e normalizza lo Spirito, anzi si è sforzato di fargli da architetto, a costo di pagare di persona. Fedele al motto cardinalizio, “Cristo in voi, speranza della gloria”, ha saputo stare nel centro senza essere al centro. Nel tempo in cui si lavorava al rinnovamento di regole e costituzioni di quasi tutti gli istituti di VC, operazione accompagnata da tante tensioni, fu accusato, anche presso il papa, di contribuire a “distruggere” la vita religiosa! Eppure ha mantenuto la capacità di trasmettere pace e gioia, forza e speranza. Fu anche vittima della violenza e non gli mancarono minacce di morte per le sue prese di posizione in favore dei diritti umani. Per il suo stile e il suo servizio è stato amato, ma anche ha sofferto, con mitezza, portando il peso nella solitudine e nel silenzio.

Volgere a lui lo sguardo e il ricordo significa, ancor oggi, accogliere la sfida a essere presenti nella società e nella Chiesa. Scrisse di lui frère Roger di Taizé: «Con il dono della sua vita, il cardinale rifletteva l’immagine di una Chiesa che nei piccoli dettagli si rende accogliente, vicina alla sofferenza degli uomini, presente nella storia e attenta ai più poveri. Era cosciente di questa grande verità di fede: quanto più ci avviciniamo alla gioia e alla semplicità evange­liche, tanto più riusciamo a trasmettere le certezze che ci vengono dalla fede».

 

UNA TESTIMONIANZA

DI SANTITÀ

 

Uomo innamorato della Parola, aveva i tratti caratteristici dell’evangelizzatore, con alcuni temi prediletti: la Trinità, il Cristo pasquale e la Chiesa mistero di comunione missionaria. Accenniamo ad alcune sue catechesi kerigmatiche.

Nella GMG di Santiago di Compostela affermava: «Il segno della maturità della vita è il frutto. Il Signore ci ha scelti perché portassimo frutti durevoli:… Cristo-Vita ci chiama per farci strumenti trasmettitori di vita; ogni cristiano lo è perché il battesimo è fonte di santità ed esigenza di apostolato… La condizione essenziale per dare frutto è vivere in Cristo con tale reciproca intensità che Cristo deve rimanere in noi e noi in lui, altrimenti non possiamo fare nulla. Chi non vive in Cristo attraverso la grazia, il dono dello Spirito Santo, la vita sacramentale, l’intensità della preghiera contemplativa, la fedeltà incrollabile alla sua vocazione, il caricarsi generoso della croce, è impossibile che dia frutto; non cresce in santità, né comunica la vita di Dio ai suoi fratelli. È un ramo secco che merita di essere gettato via, è sale insipido che merita di essere calpestato. Non sarà questo il motivo della poca credibilità dei cristiani e del rifiuto di molti giovani nei confronti della Chiesa? Essi cercano sinceramente Cristo, ma non lo trovano nella testimonianza opaca di molti cristiani».

«Dare frutto, continua il cardinale, è crescere nella santità e far nascere la santità nei fratelli. Ma una santità esigente e normale, gioiosa e austera, serena e forte, incardinata in Cristo e incarnata nella storia: santità del popolo, santità del quotidiano (in casa, nello studio, nel lavoro, nello sport, nell’impegno professionale e nell’impegno per il bene comune o per la costruzione di una nuova società)… Produrre frutti di santità e di apostolato in Cristo-Vita, è fare propri gli atteggiamenti essenziali di Gesù:… vivere come Cristo nel suo mistero di incarnazione: vicino agli uomini (soprattutto a quelli che soffrono), fattosi servo di tutti, assumendo la povertà, perdonando i peccati, dando, sulla croce, la vita per la salvezza del mondo. Il mondo ha bisogno della nostra croce, perché ha bisogno della nostra gioia e della nostra speranza; ha bisogno della nostra vita offerta generosamente».

E nella GMG di Denver insegnava con semplicità: «Il concilio ci ha parlato della Chiesa come popolo di Dio, corpo di Cristo e tempio dello Spirito Santo. È questa una trilogia che appare in quasi tutti i suoi documenti principali. Tuttavia queste tre espressioni si riferiscono a un’idea fondamentale del concilio stesso: la Chiesa-comunione. Si tratta fondamentalmente della comunione con Dio per mezzo dello Spirito Santo, è la comunione con la Trinità per l’annuncio missionario della Parola (cf. 1Gv 1,1-4)… Quando parliamo di “comunione missionaria” vogliamo dire: a) che la Chiesa non è fatta per se stessa, ma per essere un “segno e strumento (sacramento) di salvezza universale”. Da qui l’urgenza della sua presenza dinamica e della sua attività missionaria nel mondo. Tutta la Chiesa è “sale della terra” e “luce del mondo”. Tutta la Chiesa ha essenzialmente una “dimensione secolare” (vive nel mondo, agisce nel mondo, è inviata al mondo per trasformarlo), sebbene a livelli distinti (vescovi e sacerdoti, religiosi e religiose, fedeli laici ai quali compete, in modo specifico, la missione secolare); b) che tutta la Chiesa deve aprirsi, soprattutto oggi, a una dimensione missionaria…; c) che la nuova evangelizzazione tende alla formazione di comunità ecclesiali mature… Tutto questo suppone ed esige una interrelazione essenziale tra comunione e missione nella Chiesa. Entrambe (comunione e missione) hanno le loro radici in Cristo stesso».

Riascoltandolo, abbiamo la forte convinzione di aver conosciuto un santo leader spirituale, capace veramente di aprire nuovi orizzonti.

 

Mario Chiaro

 

1 Cf. su Testimoni 5/1998 il ritratto del cardinale intitolato “Un profeta di gioia e di speranza”.