A 50 ANNI DALL’ENCICLICA “HAURIETIS AQUAS”

SPIRITUALITÀ DEL CUORE DI GESÙ

 

Il fondamento della spiritualità del Cuore di Gesù è antico come il cristianesimo, perché non è possibile essere cristiano se non con lo sguardo rivolto alla Croce. In altri termini chi vuole conoscere Gesù Cristo e l’amore di Dio manifestatosi in lui deve aprirsi alla sapienza divina, nascosta nella Croce.

 

Nella sua lettera al padre Kolvenbach, superiore generale dei gesuiti, del 15 maggio, il santo padre Benedetto XVI scrive che il contenuto del culto e della devozione al Cuore di Gesù «è, allo stesso modo, il contenuto di ogni vera spiritualità e devozione cristiana…È quindi importante sottolineare che il fondamento di questa devozione è antico come il cristianesimo stesso. Infatti, essere cristiano è possibile soltanto con lo sguardo rivolto alla Croce del nostro Redentore, “a Colui che hanno trafitto” (Gv 19,37; cf. Zc 12,10)” (cf. Testimoni 11 p. 5)

Un invito a volgere lo sguardo a “colui che hanno trafitto” ci viene ora dal IV congresso nazionale dell’Apostolato della Preghiera (AdP), che si è tenuto a Roma dal 26 al 28 di giugno, in occasione del 50° dell’enciclica Haurietis Aquas, emanata da Pio XII il 15 maggio 1956. Com’è noto c’è uno stretto legame tra la spiritualità dell’AdP e la spiritualità del Sacro Cuore. Per questa ragione, la relazione centrale del congresso è stata dedicata alla riflessione sulla Spiritualità del Cuore di Gesù a 50 anni dall’enciclica Haurietis aquas. A sviluppare il tema è stato p. Toni Witwer s.i., il quale, dopo una premessa sull’AdP e la devozione al Cuore di Gesù, è entrato esplicitamente nell’argomento.

 

L’enciclica Haurietis aquas di Pio XII – ha detto – fu pubblicata in occasione di un giubileo: il primo centenario dell’estensione all’intera Chiesa della festa del Sacro Cuore di Gesù#.1 Fu pubblicata in un ambiente ecclesiale in cui il culto al sacro Cuore correva il rischio di dimenticare i suoi fondamenti teologici, e nel quale era poco stimato e anche rifiutato da un numero notevole di credenti (HA, 4-8). In questa situazione esteriore l’enciclica Haurietis aquas ha significato e significa un invito forte a ricordare i fondamenti teologici di questo culto e a non trascurare mai l’impegno spirituale di attingere a quella fonte, dalla quale sgorga l’acqua viva.

Le parole del profeta Isaia che hanno dato il nome all’enciclica: “Attingerete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza” (Is 12,3) (HA, 1). non hanno perso nulla del loro significato e sono allo stesso tempo l’espressione della promessa divina che Dio ci è vicino con il suo amore e anche l’espressione dell’incarico conferito all’uomo di credere in questo amore cercandolo. Perché la fede nell’amore di Dio, il quale si è manifestato in Gesù Cristo, rimane sempre uguale – e perciò rimane altrettanto attuale – ma ciò nonostante, questa fede deve essere annunciata in una società in continua evoluzione e comunicata a persone, il cui modo di pensare e di percepire si è trasformato.

L’enciclica Haurietis aquas è – come la stessa devozione al Cuore di Gesù – un’espressione dello sforzo umano di aprirsi al mistero di Dio e al suo amore, lasciandosi guarire e trasformare da questo amore. Perciò l’enciclica rivolge il nostro “sguardo a colui che hanno trafitto” (cf. Gv 19,37) come la sorgente, dalla quale dobbiamo “attingere per raggiungere la vera conoscenza di Gesù Cristo e sperimentare più a fondo il suo amore”#.2

 

“PER RAGGIUNGERE

LA VERA CONOSCENZA DI CRISTO”

 

La vera conoscenza di Gesù Cristo non è possibile senza un rapporto personale con lui. Sebbene Dio abbia fatto tutto affinché l’uomo possa conoscerlo, tuttavia la profondità della conoscenza dipende da quanto l’uomo si apre a Dio, da quanto cerca di riconoscerlo e da quanto è disposto ad entrare in relazione con lui; in altri termini non è possibile “credere all’amore che Dio ha per noi” (cf. 1 Gv 4,16) senza affaticarsi  di persona.

Quali sono però i segni che dovrebbero caratterizzare tale impegno umano per la fede – e quindi anche tutte le nostre forme di devozione? Credo che proprio a questo riguardo l’enciclica Haurietis aquas porti alla luce alcune caratteristiche importanti. Con i numerosi riferimenti biblici, per esempio, essa ci ricorda che ogni impegno ad approfondire la fede deve partire dalla Bibbia stessa. Ogni devozione cristiana vera deve attingere dalle ricchezze della sacra Scrittura e deve rimanere collegata a questa, perché solo così può rinnovarsi continuamente e rimanere spiritualmente viva.

Un altro segno caratteristico di ogni devozione cristiana vera e autentica è che essa aiuta l’uomo a non fermarsi in se stesso, ma a guardare Dio, cioè ogni devozione biblica ci conduce alla “contemplazione”, alla “visione di Dio” e così alla “conoscenza di Dio”. In tale devozione l’uomo non rimane prigioniero di certi esercizi, che crede di dover offrire a Dio per meritare il suo amore, ma diviene interiormente libero e capace di ricevere davvero l’amore di Dio e di lasciarsi trasformare da questo; cioè tale devozione non blocca l’uomo nell’atteggiamento di Marta, ma in modo crescente lo rende capace di sedersi come Maria ai piedi del Signore e di imparare dalla sua parola (cf. Lc 10,38-42).

Imparare da Gesù richiede in primo luogo di occuparsi a fondo della sua persona e del suo esempio di vita. Non c’è un vero approfondimento della fede cristiana senza lo sforzo di rapportarsi alla persona di Gesù e seguire il suo esempio, come egli stesso ci chiede: “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11,29). Gesù desidera che la sua bontà e il suo amore vengano da noi riconosciuti e che impariamo da lui; ciò però presuppone che abbiamo fiducia in lui e gli crediamo e non ci chiudiamo alla sua volontà. La venerazione dell’amore di Gesù Cristo a cui crediamo non si deve considerare una devozione qualsiasi, ma per quello che è: «una forma di culto che il Redentore stesso si è degnato di proporre e di raccomandare al popolo cristiano» (HA, 73).

Proprio perché la nostra fede, che in realtà dobbiamo ad altre persone, contiene già da sempre ed essenzialmente la dimensione ecclesiale, non è possibile imparare da Gesù solo ritirandosi in una camera nascosta o facendo esercizi di pietà privati, ma include piuttosto la disponibilità ad imparare anche dalla Chiesa e nella Chiesa. Ciò viene sottolineato dall’enciclica Haurietis aquas risalendo da una parte alle affermazioni dei Padri (HA, 27), che possono servirci da maestri, e dall’altra mettendo in rilievo la nostra responsabilità nei riguardi della fede degli altri, esortandoci a «promuovere con sempre maggiore impegno questa soavissima devozione» (HA, 71) al Cuore di Gesù. La spiritualità del Cuore di Gesù quindi non è una devozione privata ma della Chiesa!

L’enciclica Haurietis aquas non indica solamente questi elementi prima menzionati che devono caratterizzare ogni devozione, ma soprattutto mette al centro il contenuto essenziale della spiritualità cristiana: la persona di Gesù Cristo - vero Dio e vero uomo, Figlio del Padre e redentore del mondo, in cui avvenne la rivelazione più completa dell’amore e della misericordia di Dio per noi. Per mezzo dell’incarnazione di suo Figlio, Dio si è manifestato in modo tale da rendersi «visibile” in Lui affinché tutti possano riconoscere chi è Dio. E con la sua incarnazione si è potuto riassumere nel simbolo del Cuore di Gesù tutto l’amore di Dio» (HA, 58).

Questo amore ha trovato la sua espressione più profonda nella passione di Gesù e nella sua morte sulla croce, dando la vita per noi peccatori. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13). Sembra strano che questi amici siano i peccatori, ma Gesù non è “venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo” (Gv 12,47), non è “venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi” (Lc 5,32) e a questi è rivolto l’amore di Dio per noi che non conosce limiti. “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).

Questo mistero dell’amore di Dio per noi peccatori non costituisce soltanto il contenuto del culto e della devozione al Cuore di Gesù, ma è allo stesso modo il contenuto di ogni vera spiritualità e devozione cristiana#.3 Da una parte questo ci fa capire che la spiritualità del Cuore di Gesù non si distingue per il suo contenuto essenziale, che necessariamente condivide con tutte le altre spiritualità cristiane vere, quanto piuttosto per la forma, e dall’altra parte ci insegna che il fondamento della spiritualità del Cuore di Gesù è antico come il cristianesimo stesso, perché non è possibile essere cristiano se non con lo sguardo rivolto alla Croce del nostro Redentore – volgendo “lo sguardo a colui che hanno trafitto” (cf. Gv 19,37 e Zc 12,10). In altri termini chi vuole conoscere Gesù Cristo e l’amore di Dio manifestatosi in lui deve aprirsi alla sapienza divina, nascosta nella Croce, che san Paolo annuncia ai Corinzi: “Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso” (1Cor 2,2).

A ragione l’enciclica Haurietis aquas dice così: «Il Cuore trafitto del Redentore ha sempre esercitato un potente stimolo al culto verso il suo amore infinito per il genere umano, giacché per i cristiani di tutti i tempi hanno valore le parole del profeta Zaccaria, riferite a Gesù crocifisso dall’evangelista s. Giovanni: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”» (HA, 59). Il culto al simbolo del Cuore trafitto del Redentore crocifisso non è «stato mai completamente assente dalla pietà dei fedeli” e “sempre infatti ci sono stati uomini sommamente devoti a Dio, i quali... hanno tributato... alle piaghe aperte nel suo corpo dai tormenti della passione, il culto di adorazione, di ringraziamento e di amore» (HA, 58).

La storia dimostra che il rinnovamento spirituale nella Chiesa come anche l’approfondimento della fede di singole persone hanno sempre preso le mosse dall’incontro con il Signore crocifisso. La contemplazione della sua passione e la venerazione delle sue ferite hanno fatto arrivare innumerevoli persone a un rapporto più profondo con Gesù Cristo, e su questa via la ferita del costato e quelle lasciate dai chiodi sono diventate per loro i segni di un amore che ha trasformato sempre più la loro vita. Su questa via molti di loro sono arrivati così alla convinzione espressa nella lettera ai Romani: “Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo?... Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,35.38) (HA, 52.). La contemplazione del Signore crocifisso apre l’uomo a riconoscere l’amore di Dio in lui, ma lo conduce anche verso un’esperienza interiore che gli permette di raggiungere una fede più profonda e che lo porta alla professione di fede dell’apostolo Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,28) (HA, 58).

L’esempio di san Tommaso dimostra che tale certezza di fede non è né ovvia né “fattibile” dal solo uomo, ma è piuttosto una grazia dell’amore di Dio che si dà liberamente; tuttavia l’impegno a riconoscere l’amore di Dio continua a essere importante! Una meditazione della passione di Gesù – come per esempio una via crucis – facilmente rimane bloccata nella pura contemplazione della sofferenza umana, se non è veramente il tentativo chiaro di svelare l’amore di Dio nascosto nella passione. In altre parole: l’amore può essere conosciuto solo nella misura in cui è cercato!

La devozione promossa dall’enciclica Haurietis aquas ci spinge a cercare l’amore di Dio e dirige il nostro sguardo verso le piaghe di Gesù: verso il fianco colpito dalla lancia e verso le ferite lasciate dai chiodi. In questo modo l’enciclica indirizza il nostro sguardo all’adempimento della promessa divina e al compimento del suo amore per noi: “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a colui che hanno trafitto” (Zc 12,10). Queste parole del profeta Zaccaria sottolineano che Dio stesso desidera consolarci, facendoci guardare al costato trafitto, e renderci capaci di conoscere il suo amore nel Signore crocifisso, come ha consolato gli apostoli e innumerevoli credenti nel passato. Volgersi indietro alla passione non solo dunque non ha più quell’effetto paralizzante che ancora esercitava sugli apostoli il sabato santo, ma ci lascia conoscere sempre più profondamente tutta la  grandezza di questo amore e del suo sacrificio per noi. Lo sguardo al passato si trasforma così nella “memoria” e conduce alla “commemorazione” – alla celebrazione dell’Eucaristia – e mantiene così vivo questo conoscere l’amore di Dio e fa crescere in noi quella certezza interiore che ci rende capaci di credere a questo amore sempre più di tutto cuore.

 

 “SPERIMENTARE

PIÙ A FONDO IL SUO AMORE”

 

Ogni culto, ogni forma di devozione non ha soltanto come oggetto un “contenuto” e come scopo la sua conoscenza sempre in meglio, ma vuole portare soprattutto all’esperienza interiore del suo “contenuto” e così anche all’approfondimento della fede. Il valore e il significato di un culto dipendono particolarmente da quanto questo possa aiutare gli uomini a crescere nell’amore per le loro esperienze di Dio e a mettere con fiducia la propria vita al suo servizio. Il significato più profondo di questo culto dell’amore di Dio guardando “a colui che hanno trafitto” si coglie quindi soltanto quando si considera attentamente anche il suo apporto all’esperienza personale di questo amore.

Esperienza e conoscenza sono strettamente collegate l’una all’altra e non possono essere separate. Perciò le forme di devozione sviluppatesi nel corso della storia della Chiesa non si basano soltanto su conoscenze teologiche, dalle quali si svilupparono, ma richiedono anche in futuro conoscenza e chiarezza teologiche affinché non perdano la loro vivacità spirituale e possano contribuire davvero all’approfondimento della fede. La discussione teologica, alla quale l’enciclica Haurietis aquas si sente spinta, serve quindi non solo a giustificare la devozione al Cuore di Gesù che si è sviluppata nel passato, ma piuttosto a mantenere quella dinamica spirituale che questo culto ha sempre avuto nell’approfondimento della fede cristiana, anche se il suo aspetto esteriore sta cambiando.

Il fatto che l’intento di tutte le forme di devozione cristiana che si sono moltiplicate nel corso della storia sia l’approfondimento della fede richiama la nostra attenzione su un’altra cosa importante: se l’uomo fa una esperienza spirituale cambia anche la sua relazione nei riguardi della “conoscenza”  oppure del modo in cui cerca la conoscenza. Possiamo cogliere esempi a questo proposito guardando gli apostoli. Sul loro cammino con Gesù provarono soltanto a “conoscerlo”, ma in realtà non riuscirono a comprenderlo davvero; non potevano comprenderlo perché si fermavano alle loro proprie idee. Impararono a conoscerlo solo dal momento della sua passione, riconoscendo la loro debolezza e il loro fallimento, perché nella misura in cui riuscivano ad ammetterli e confessarli, diventavano interiormente liberi di “ricevere” l’amore del Signore veramente come dono immeritato. In altri termini la conoscenza dell’amore di Dio non è possibile quando l’uomo vuole intellettualmente “possederlo” e quasi impadronirsene, ma «soltanto nel contesto di un atteggiamento di umile preghiera e di generosa disponibilità»#.4 Solo se nel nostro tentativo di conoscere Dio si verifica un cambiamento simile a quello nella vita di Giobbe (cf. Gb 42,1-6), la conoscenza dell’amore di Dio si trasforma anche per noi in un regalo e in un’esperienza della sua grazia.

Solo partendo da tale atteggiamento interiore, lo sguardo alla passione e alla morte del Signore si trasforma nella preghiera che egli ci faccia partecipi dell’esperienza del suo amore, e «lo sguardo posato sul costato trafitto dalla lancia si trasforma in silenziosa adorazione»#.5 Perciò si può dire che le forme di devozione cristiane sono forme dell’adorazione dell’amore di Dio trasformatesi in preghiera perché si sono sviluppate da un atteggiamento fondamentale di preghiera e altrettanto invitano a tale atteggiamento di preghiera. È la grazia di una conoscenza e di un’esperienza di Dio, fatte in modo frammentario, che ci spinge a chiedere di approfondirle e che ci rende capaci di confessare con la nostra bocca “che Gesù è il Signore” e di credere con il nostro cuore “che Dio lo ha risuscitato dai morti” e che il Signore è “ricco verso tutti quelli che l’invocano” (cf. Rm 10,9.12).

L’esperienza e l’ammissione della nostra “povertà davanti a Dio” ci fanno pregare e ci aprono  le porte al regno dei cieli (cf. Mt 5,3), ma ci aprono anche ad accettare l’aiuto di altre persone su questo cammino verso Dio e a lasciarci accompagnare da loro. Così la povertà umana provata ci rende interiormente aperti a tutti quegli aiuti che Dio vuole concederci per mezzo della Chiesa. E il culto dell’amore di Dio con lo sguardo “a colui che hanno trafitto” è certamente quella devozione che ha plasmato più durevolmente la vita della Chiesa e perciò è da essa particolarmente consigliata#.6

Le esperienze fatte da una persona non possono essere provocate direttamente e precisamente nello stesso modo in un’altra persona, ma soltanto descritte a parole o indicate da segni e simboli. Tali parole e tali simboli però sono in grado di suscitare in altre persone qualcosa che le rende disponibili a esperienze personali molto simili. Perciò possiamo soltanto testimoniare la fede, che si basa sull’esperienza di Dio fatta personalmente, ed essere di esempio ad altri ma non possiamo provocarla direttamente in loro. Proprio a tale testimonianza della fede servono le parole e quei simboli usati dalle devozioni cristiane.

Già in tempi antichi il cuore era considerato come la sede della vita e come il luogo dell’esperienza religiosa. Il “cuore” denota così il luogo più interiore e più profondo della persona umana; il “cuore” è visto come la fonte della vita perché se il cuore smette di battere – se si esaurisce la sorgente – termina anche la vita. Perciò non è sorprendente che il “cuore” non è divenuto soltanto un modo di esprimere l’amore umano, ma è divenuto anche un simbolo dell’amore di Dio#.7

Ciò è importante per la comprensione giusta del culto al Cuore di Gesù poiché la sacra Scrittura non parla mai di un “cuore trafitto” (HA, 15) ma solo del “fianco trafitto”, del “costato trafitto”. Perciò in questo culto non si tratta di un “cuore fisico, trafitto da una lancia”, ma il “cuore trafitto” è piuttosto il simbolo e l’espressione di quell’amore di Dio che si è lasciato trafiggere dal peccato degli uomini: è il simbolo dell’amore del Signore crocifisso, che si sacrifica. Il “cuore trafitto” non è da vedere soltanto come un rimando alle sofferenze umane di Gesù ma in quel simbolo è piuttosto racchiuso tutto l’amore umano e divino del Figlio di Dio che si è incarnato come anche l’amore della Trinità per noi uomini peccatori (HA, 15). Lo sguardo alla ferita visibile – lo sguardo al fianco trafitto dalla lancia – ci fa conoscere la ferita invisibile dell’amore (HA, 56) e ci aiuta a sperimentarlo interiormente in modo sempre più profondo e a credere in questo amore.

Il Signore risorto mostrò ai suoi discepoli “le sue mani e il suo costato” e spiegò loro il significato della sua passione (cf. Gv 20,20 e Lc 24,26-27). Così fece capire a loro e anche a noi che l’amore di Dio può essere conosciuto e sperimentato soltanto volgendo lo sguardo alla sua passione. È il Signore stesso che ci invita alla contemplazione della sua passione – a contemplare le sue piaghe e il fianco trafitto – affinché possiamo conoscere quell’amore che non può essere superato da nessun altro: l’amore che dà la vita per i propri amici (cf. Gv 15,13). In tale contemplazione però non si tratta di provare a mettere la nostra mano con san Tommaso quasi in una “ferita fisica” (cf. Gv 20,25.27) e a voler trattenere il Signore come Maria di Magdala (cf. Gv 20,17), ma si tratta di sperimentare sempre più profondamente il suo amore attraverso la massima vicinanza possibile alla passione e alla morte di Gesù. In altri termini l’esperienza dell’amore di Dio richiede anche quel timore riverenziale che ci costringe a fermarci con stupore davanti al mistero di tale amore incomprensibile e a trattenerci in questo, riconoscendo allo stesso tempo anche la nostra propria indegnità a ricevere questo amore.

Lo sguardo al costato trafitto del Signore, dal quale “uscì sangue e acqua” (cf. Gv 19,34), ci aiuta a riconoscere la moltitudine dei doni di grazia che da lì provengono (HA, 34-48) e «ci apre a tutte le altre forme di devozione cristiana che sono comprese nel culto al Cuore di Gesù»#.8 L’esperienza, cioè, dell’amore di Dio, il quale si mostra nel costato trafitto, ci apre alla ricchezza della vita cristiana (HA, 83) e alla pietà sacramentale; ci invita però anche ad accettare questi doni e offerte di Dio e ad approfondire ancora di più l’esperienza del suo amore con il loro aiuto. Questo è il motivo perché questo culto ha un’importanza così grande per tutta l’esperienza della fede.

 

 “LASCIARSI TRASFORMARE

IN STRUMENTI DEL SUO AMORE”

 

L’intenzione del culto presentato dall’enciclica Haurietis aquas non si limita soltanto a raggiungere la vera conoscenza di Gesù Cristo e a sperimentare più a fondo il suo amore ma è ancora più ampia, contribuendo anche a “lasciarsi trasformare in strumenti del suo amore”. «La fede intesa come frutto dell’amore di Dio sperimentato è una grazia, un dono di Dio. Ma l’uomo potrà sperimentare la fede come grazia soltanto nella misura in cui egli l’accetta dentro di sé come un dono, di cui cerca di vivere»#.9 Se l’uomo sente di aver ricevuto un dono da Dio, da una parte ciò lo rende grato e stupito della grazia immeritata, dall’altra però si sente anche spinto a una risposta, spinto alla testimonianza delle opere grandi di Dio e del suo amore per noi. L’approfondimento delle esperienze di fede fatte finora è possibile nella misura in cui l’uomo si ricorda con gratitudine dell’amore di Dio e in cui è disposto a diventare uno strumento di questo suo amore.

Se l’enciclica Haurietis aquas rivolge un vivissimo appello a tutti i cristiani «a praticare questa forma di devozione» (HA, 76), ciò significa innanzitutto un invito alla contemplazione ripetuta della passione redentrice di Gesù Cristo. Lo sguardo “al costato trafitto dalla lancia” cioè lo sguardo “al simbolo del cuore trafitto dai nostri peccati” deve aiutarci a non fermarci alla sola sofferenza esteriore subita da Gesù, ma a giungere all’amore ivi nascosto. Questo sguardo vuole aiutarci a non dimenticare mai ciò che Gesù ha fatto “per noi” – “per me” – prendendo volontariamente su di sé questa sofferenza . Praticando questo culto «non solo riconosciamo con gratitudine l’amore di Dio, ma continuiamo ad aprirci a tale amore in modo che la nostra vita ne sia sempre più modellata»#.10

Praticare questo culto al Cuore di Gesù significa quindi collaborare con Dio e aprirsi così alla sua intenzione che è: riversare il suo amore “nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5). Dio ci invita instancabilmente ad accogliere il suo amore, ma dipende da noi accettare questo suo dono. L’amore come relazione tra due persone può divenire vivo infatti soltanto nella misura in cui l’amore dell’altra persona è veramente visto e accettato con gratitudine come un regalo immeritato. Proprio perché l’invito alla «piena e assoluta volontà di dedicarci e consacrarci all’amore del Redentore divino» (HA, 3) ha come obiettivo fondamentale innanzitutto la relazione con Dio, questo culto orientato pienamente all’amore di Dio è indispensabile per la nostra fede cristiana.

Nella misura in cui l’uomo è disposto ad accettare l’amore di Dio interiormente, questo amore lo trasformerà perché accettandolo l’uomo “impara” dall’amore di Dio. Questo “imparare” è un altro passo – dopo l’accettazione dell’amore con gratitudine – al quale il culto al Cuore di Gesù vuole condurre. L’amore di Dio sperimentato viene riconosciuto dall’uomo come una “chiamata”, alla quale deve rispondere come gli apostoli che seguirono la chiamata di Gesù e il suo esempio. Lo sguardo rivolto al Signore, che “ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie” (Mt 8,17), fa crescere la nostra compassione e «ci aiuta a divenire più attenti alla sofferenza ed al bisogno degli altri»#.11

«La contemplazione adorante del costato trafitto dalla lancia» non ci conduce soltanto alla riconoscenza della divinità di Gesù Cristo e quindi alla confessione di Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,28), ma quella – come sottolinea il santo padre nella sua lettera al p. generale – ci rende anche «sensibili alla volontà salvifica di Dio. Ci rende capaci di affidarci al suo amore salvifico e misericordioso e al tempo stesso ci rafforza nel desiderio di partecipare alla sua opera di salvezza diventando suoi strumenti. I doni ricevuti dal costato aperto, dal quale sono sgorgati “sangue e acqua» (cf. Gv 19,34), fanno sì che la nostra vita diventi anche per gli altri sorgente da cui promanano «fiumi di acqua viva» (Gv 7,38)”#.12

Il Figlio dell’uomo non è “venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo” (cf. Gv 12,47) e “non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (cf. Mt 20,28). Lo sforzo spirituale di diventare simile a lui non può limitarsi all’imitazione esteriore del suo esempio, ma deve essere orientato verso la “conformità” con il suo atteggiamento di amore; solo così è possibile essere sempre più “conformi all’immagine del Figlio suo” (cf. Rm 8,29). Perciò il culto del costato trafitto del Redentore ci invita ad attingere continuamente da quella fonte, la quale rende possibile quella esperienza profonda dell’amore di Dio che è in grado di liberarci da ogni preoccupazione ansiosa per noi stessi e di farci capaci di una disponibilità crescente e di una vita per gli altri. “Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1 Gv 3,16).

Tale dono di se stessi per gli altri non si realizza, però, a partire da un’ascesi compresa in modo sbagliato, che ripone la fiducia solo nelle proprie capacità umane, ma è possibile solamente grazie all’esperienza dell’amore incondizionato di Dio per noi. Se uno provasse a perseguire l’offerta di se stesso soltanto in modo ascetico, tale tentativo sarebbe condannato al fallimento, in modo simile alla promessa di Pietro: “Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte” (Lc 22,33), che finiva nel rinnegamento. Possiamo diventare “uomini per gli altri” solo nella misura in cui ci lasciamo trasformare dalla contemplazione adorante dell’amore del Signore crocifisso e risorto. Infatti il vero adempimento del comandamento dell’amore è possibile soltanto dall’esperienza profonda dell’amore di Dio che precede ogni nostro sforzo: “Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo” (1Gv 4,19)#.13 Perciò si può e si deve dire che questo «culto dell’amore che si rende visibile nel mistero della Croce, ripresentato in ogni celebrazione eucaristica, costituisce quindi il fondamento perché noi possiamo divenire persone capaci di amare e di donarsi».14

L’amore come dono di se stessi non è opera umana, che possiamo quasi offrire a Dio e per la quale ci dimostriamo persone affettuose; l’amore vero richiede la libertà crescente da se stessi, cioè la capacità di morire a noi stessi. Il rapporto dell’amore con Dio raggiunge la massima profondità possibile soltanto se siamo pienamente disposti a essere diretti solamente dalla volontà di Dio, perché solo così diventiamo in realtà strumenti nelle sue mani.

 

 “VIVERE COME TESTIMONI

DEL SUO AMORE”

 

Tuttavia siamo “chiamati” a “lasciarci trasformare in strumenti del suo amore” non per noi stessi o solamente per approfondire il nostro rapporto con Dio, ma per compiere una “missione”: la missione che Dio ci ha affidato per la nostra vocazione battesimale, cioè la “missione” che essenzialmente fa parte della “vocazione cristiana”. Il cristiano è chiamato a «vivere come testimone dell’amore di Gesù Cristo» e quindi a viverlo in tal modo che esso può davvero essere visto e sperimentato da altri. Possiamo realizzare questa missione soltanto nella misura in cui cerchiamo di fare la volontà di Dio, come questa si è manifestata nelle parole e soprattutto  nell’esempio di vita di Gesù Cristo, perché solamente così siamo in grado di essere veramente annunciatori credibili del suo amore - e non soltanto annunciatori delle nostre proprie opere!

Certo, tale apertura alla volontà di Dio non si conclude mai fino alla fine della nostra esistenza e rimane una sfida per tutta la vita; infatti in ogni momento dobbiamo aprirci di nuovo alla sua volontà, proprio perché «l’amore non è mai “finito” e “completo”»#.15 E ciò ci insegna un’altro aspetto importante della spiritualità ricordata nell’enciclica Haurietis aquas che vorrei esprimere con le parole del papa nella sua lettera al p. generale: «Lo sguardo al “costato trafitto dalla lancia”, nel quale rifulge la sconfinata volontà di salvezza da parte di Dio, non può quindi essere considerato come una forma passeggera di culto o di devozione: l’adorazione dell’amore di Dio, che ha trovato nel simbolo del ‘cuore trafitto’ la sua espressione storico-devozionale, rimane imprescindibile per un rapporto vivo con Dio»#.16

Nella misura in cui l’uomo si mette a disposizione di Dio come strumento, la sua vita diviene infatti un annuncio, perché l’amore vissuto è in realtà già sempre un accenno a Dio e una testimonianza del suo amore. Perciò tutte le devozioni cristiane non hanno soltanto lo scopo di preparare l’uomo a essere in modo crescente uno strumento nelle mani di Dio e a condurlo a un’esperienza personale di fede, ma hanno piuttosto sempre anche un valore di annuncio. Malgrado tutti i limiti umani che impediscono il loro sviluppo pieno, esse servono a testimoniare l’esperienza fatta di Dio e a incoraggiare altri a cercarlo affinché possano sperimentare il suo amore riparatore e trasformante.

Il culto dell’amore di Gesù Cristo praticato nel simbolo del Cuore trafitto non è quindi una devozione di importanza solo individuale, ma è anche un servizio alla santificazione della Chiesa (HA, 81), perché in questo culto si decide pure la forza di testimonianza del suo annuncio. In esso si determina infatti in quale misura il mondo sarà in grado di comprendere “quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza” (Ef 3,18-19). Solo nella misura in cui la Chiesa è davvero orientata all’amore di Dio, essa non sarà vista e considerata solo come un’istituzione umana, ma sarà vissuta piuttosto come ciò che è e che in realtà deve essere, cioè un’ “opera di Dio”. La Chiesa è infatti lo “strumento” per cui Dio, fino alla fine dei tempi, comunica tutti i doni della grazia del suo amore agli uomini, che ininterrottamente continuano a sgorgare dal costato aperto di Gesù Cristo…

La spiritualità del Cuore di Gesù può essere facilmente fraintesa, identificata in modo precipitoso e semplificativo con un culto concreto e con una forma di devozione ben definita. La forma tradizionale di devozione al Cuore di Gesù ci è data come aiuto di grande valore, e certamente sarebbe presuntuoso non servirsene e perciò occorre esortare i fedeli a coglierla quanto più possibile (HA, 71). Tuttavia va ricordato che questo culto come forma concreta è in grado di rinnovarsi soltanto nella misura in cui viene riconosciuta anche la sua “relatività”: cioè il suo stare al servizio di un contenuto, che supera infinitamente ciò che una sola forma umana di devozione potrebbe contenere.

Per questo motivo l’enciclica Haurietis aquas, malgrado la sua intenzione di dimostrare il valore del culto sviluppatosi dalle rivelazioni di santa Margherita-Maria Alacoque e di sottolineare la sua importanza per l’approfondimento della vita cristiana, ha ricordato anche e soprattutto gli elementi essenziali che stanno alla base non solo di questo culto concreto ma di ogni vera devozione cristiana. Soltanto aprendoci sempre di nuovo a questa ricchezza della fede cristiana, possiamo crescere spiritualmente e riconoscere con la grazia di Dio un poco di più la sua sapienza e il mistero della croce di Gesù Cristo che superano ogni forma di devozione! Non è una determinata forma esteriore che quasi da sé e automaticamente può farci sperimentare l’amore di Dio, ma piuttosto solo l’atteggiamento interiore di volgere incessantemente il nostro sguardo a colui che hanno trafitto. Perciò la spiritualità del Cuore di Gesù a 50 anni dall’enciclica Haurietis aquas è da considerare come l’impegno personale e della Chiesa intera a non perdere mai di vista l’amore rivelatosi nel costato trafitto, il quale si serve della forma di devozione che questa spiritualità ha sviluppato nella storia della Chiesa.

 

T. W.

 

1 Cf. Pio XII., Enciclica “Haurietis aquas” (=HA), 1.

2 Cf. Lettera di Benedetto XVI al p. generale.

3 Cf. ibidem.

4 Cf. ibidem.

5 Cf. ibidem.

6 Cf. spec. HA, 63 e 71.

7 Cf. HA, 14 e 30-33.

8 Cf. Lettera di Benedetto XVI al p. generale.

9 Cf .ibidem.

10 Cf. ibidem

11 Cf.ibidem.

12 ibidem,  cf. anche DCE 7.

13 Cf. DCE, 14.

14 Lettera di Benedetto XVI al p. generale.

15 Cf. DCE, 17.

16 Lettera di Benedetto XVI al p. generale.