A 50 ANNI DALL’ENCICLICA “HAURIETIS AQUAS”
SPIRITUALITÀ DEL CUORE DI GESÙ
Il fondamento
della spiritualità del Cuore di Gesù è antico come il cristianesimo, perché non
è possibile essere cristiano se non con lo sguardo rivolto alla Croce. In altri
termini chi vuole conoscere Gesù Cristo e l’amore di Dio manifestatosi in lui
deve aprirsi alla sapienza divina, nascosta nella Croce.
Nella sua lettera al padre Kolvenbach, superiore generale
dei gesuiti, del 15 maggio, il santo padre Benedetto XVI scrive che il
contenuto del culto e della devozione al Cuore di Gesù «è, allo stesso modo, il
contenuto di ogni vera spiritualità e devozione cristiana…È quindi importante
sottolineare che il fondamento di questa devozione è antico come il
cristianesimo stesso. Infatti, essere cristiano è possibile soltanto con lo
sguardo rivolto alla Croce del nostro Redentore, “a Colui che hanno trafitto”
(Gv 19,37; cf. Zc 12,10)” (cf.
Un invito a volgere lo sguardo a “colui che hanno trafitto”
ci viene ora dal IV congresso nazionale dell’Apostolato della Preghiera (AdP),
che si è tenuto a Roma dal 26 al 28 di giugno, in occasione del 50°
dell’enciclica Haurietis Aquas, emanata da Pio XII il 15 maggio 1956. Com’è
noto c’è uno stretto legame tra la spiritualità dell’AdP e la spiritualità del
Sacro Cuore. Per questa ragione, la relazione centrale del congresso è stata
dedicata alla riflessione sulla Spiritualità del Cuore di Gesù a 50 anni
dall’enciclica Haurietis aquas. A sviluppare il tema è stato p. Toni Witwer s.i.,
il quale, dopo una premessa sull’AdP e la devozione al Cuore di Gesù, è entrato
esplicitamente nell’argomento.
L’enciclica Haurietis aquas di Pio XII – ha detto – fu
pubblicata in occasione di un giubileo: il primo centenario dell’estensione
all’intera Chiesa della festa del Sacro Cuore di Gesù#.1 Fu pubblicata in un
ambiente ecclesiale in cui il culto al sacro Cuore correva il rischio di
dimenticare i suoi fondamenti teologici, e nel quale era poco stimato e anche
rifiutato da un numero notevole di credenti (HA, 4-8). In questa situazione
esteriore l’enciclica Haurietis aquas ha significato e significa un invito
forte a ricordare i fondamenti teologici di questo culto e a non trascurare mai
l’impegno spirituale di attingere a quella fonte, dalla quale sgorga l’acqua
viva.
Le parole del profeta Isaia che hanno dato il nome
all’enciclica: “Attingerete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza” (Is
12,3) (HA, 1). non hanno perso nulla del loro significato e sono allo stesso
tempo l’espressione della promessa divina che Dio ci è vicino con il suo amore
e anche l’espressione dell’incarico conferito all’uomo di credere in questo
amore cercandolo. Perché la fede nell’amore di Dio, il quale si è manifestato
in Gesù Cristo, rimane sempre uguale – e perciò rimane altrettanto attuale – ma
ciò nonostante, questa fede deve essere annunciata in una società in continua
evoluzione e comunicata a persone, il cui modo di pensare e di percepire si è
trasformato.
L’enciclica Haurietis aquas è – come la stessa devozione al Cuore
di Gesù – un’espressione dello sforzo umano di aprirsi al mistero di Dio e al
suo amore, lasciandosi guarire e trasformare da questo amore. Perciò
l’enciclica rivolge il nostro “sguardo a colui che hanno trafitto” (cf. Gv
19,37) come la sorgente, dalla quale dobbiamo “attingere per raggiungere la
vera conoscenza di Gesù Cristo e sperimentare più a fondo il suo amore”#.2
“PER RAGGIUNGERE
LA VERA CONOSCENZA DI CRISTO”
La vera conoscenza di Gesù Cristo non è possibile senza un
rapporto personale con lui. Sebbene Dio abbia fatto tutto affinché l’uomo possa
conoscerlo, tuttavia la profondità della conoscenza dipende da quanto l’uomo si
apre a Dio, da quanto cerca di riconoscerlo e da quanto è disposto ad entrare
in relazione con lui; in altri termini non è possibile “credere all’amore che
Dio ha per noi” (cf. 1 Gv 4,16) senza affaticarsi di persona.
Quali sono però i segni che dovrebbero caratterizzare tale
impegno umano per la fede – e quindi anche tutte le nostre forme di devozione?
Credo che proprio a questo riguardo l’enciclica Haurietis aquas porti alla luce
alcune caratteristiche importanti. Con i numerosi riferimenti biblici, per
esempio, essa ci ricorda che ogni impegno ad approfondire la fede deve partire
dalla Bibbia stessa. Ogni devozione cristiana vera deve attingere dalle
ricchezze della sacra Scrittura e deve rimanere collegata a questa, perché solo
così può rinnovarsi continuamente e rimanere spiritualmente viva.
Un altro segno caratteristico di ogni devozione cristiana
vera e autentica è che essa aiuta l’uomo a non fermarsi in se stesso, ma a
guardare Dio, cioè ogni devozione biblica ci conduce alla “contemplazione”,
alla “visione di Dio” e così alla “conoscenza di Dio”. In tale devozione l’uomo
non rimane prigioniero di certi esercizi, che crede di dover offrire a Dio per
meritare il suo amore, ma diviene interiormente libero e capace di ricevere
davvero l’amore di Dio e di lasciarsi trasformare da questo; cioè tale
devozione non blocca l’uomo nell’atteggiamento di Marta, ma in modo crescente
lo rende capace di sedersi come Maria ai piedi del Signore e di imparare dalla
sua parola (cf. Lc 10,38-42).
Imparare da Gesù richiede in primo luogo di occuparsi a
fondo della sua persona e del suo esempio di vita. Non c’è un vero
approfondimento della fede cristiana senza lo sforzo di rapportarsi alla
persona di Gesù e seguire il suo esempio, come egli stesso ci chiede: “Prendete
il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e
troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11,29). Gesù desidera che la sua
bontà e il suo amore vengano da noi riconosciuti e che impariamo da lui; ciò
però presuppone che abbiamo fiducia in lui e gli crediamo e non ci chiudiamo
alla sua volontà. La venerazione dell’amore di Gesù Cristo a cui crediamo non
si deve considerare una devozione qualsiasi, ma per quello che è: «una forma di
culto che il Redentore stesso si è degnato di proporre e di raccomandare al
popolo cristiano» (HA, 73).
Proprio perché la nostra fede, che in realtà dobbiamo ad
altre persone, contiene già da sempre ed essenzialmente la dimensione
ecclesiale, non è possibile imparare da Gesù solo ritirandosi in una camera
nascosta o facendo esercizi di pietà privati, ma include piuttosto la
disponibilità ad imparare anche dalla Chiesa e nella Chiesa. Ciò viene
sottolineato dall’enciclica Haurietis aquas risalendo da una parte alle
affermazioni dei Padri (HA, 27), che possono servirci da maestri, e dall’altra
mettendo in rilievo la nostra responsabilità nei riguardi della fede degli
altri, esortandoci a «promuovere con sempre maggiore impegno questa soavissima
devozione» (HA, 71) al Cuore di Gesù. La spiritualità del Cuore di Gesù quindi
non è una devozione privata ma della Chiesa!
L’enciclica Haurietis aquas non indica solamente questi
elementi prima menzionati che devono caratterizzare ogni devozione, ma
soprattutto mette al centro il contenuto essenziale della spiritualità
cristiana: la persona di Gesù Cristo - vero Dio e vero uomo, Figlio del Padre e
redentore del mondo, in cui avvenne la rivelazione più completa dell’amore e
della misericordia di Dio per noi. Per mezzo dell’incarnazione di suo Figlio,
Dio si è manifestato in modo tale da rendersi «visibile” in Lui affinché tutti
possano riconoscere chi è Dio. E con la sua incarnazione si è potuto riassumere
nel simbolo del Cuore di Gesù tutto l’amore di Dio» (HA, 58).
Questo amore ha trovato la sua espressione più profonda
nella passione di Gesù e nella sua morte sulla croce, dando la vita per noi
peccatori. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri
amici” (Gv 15,13). Sembra strano che questi amici siano i peccatori, ma Gesù
non è “venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo” (Gv 12,47), non
è “venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi” (Lc 5,32) e a
questi è rivolto l’amore di Dio per noi che non conosce limiti. “Dio infatti ha
tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in
lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).
Questo mistero dell’amore di Dio per noi peccatori non
costituisce soltanto il contenuto del culto e della devozione al Cuore di Gesù,
ma è allo stesso modo il contenuto di ogni vera spiritualità e devozione
cristiana#.3 Da una parte questo ci fa capire che la spiritualità del Cuore di
Gesù non si distingue per il suo contenuto essenziale, che necessariamente
condivide con tutte le altre spiritualità cristiane vere, quanto piuttosto per
la forma, e dall’altra parte ci insegna che il fondamento della spiritualità
del Cuore di Gesù è antico come il cristianesimo stesso, perché non è possibile
essere cristiano se non con lo sguardo rivolto alla Croce del nostro Redentore
– volgendo “lo sguardo a colui che hanno trafitto” (cf. Gv 19,37 e Zc 12,10).
In altri termini chi vuole conoscere Gesù Cristo e l’amore di Dio manifestatosi
in lui deve aprirsi alla sapienza divina, nascosta nella Croce, che san Paolo
annuncia ai Corinzi: “Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se
non Gesù Cristo, e questi crocifisso” (1Cor 2,2).
A ragione l’enciclica Haurietis aquas dice così: «Il Cuore
trafitto del Redentore ha sempre esercitato un potente stimolo al culto verso
il suo amore infinito per il genere umano, giacché per i cristiani di tutti i
tempi hanno valore le parole del profeta Zaccaria, riferite a Gesù crocifisso
dall’evangelista s. Giovanni: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno
trafitto”» (HA, 59). Il culto al simbolo del Cuore trafitto del Redentore
crocifisso non è «stato mai completamente assente dalla pietà dei fedeli” e
“sempre infatti ci sono stati uomini sommamente devoti a Dio, i quali... hanno
tributato... alle piaghe aperte nel suo corpo dai tormenti della passione, il
culto di adorazione, di ringraziamento e di amore» (HA, 58).
La storia dimostra che il rinnovamento spirituale nella
Chiesa come anche l’approfondimento della fede di singole persone hanno sempre
preso le mosse dall’incontro con il Signore crocifisso. La contemplazione della
sua passione e la venerazione delle sue ferite hanno fatto arrivare
innumerevoli persone a un rapporto più profondo con Gesù Cristo, e su questa
via la ferita del costato e quelle lasciate dai chiodi sono diventate per loro
i segni di un amore che ha trasformato sempre più la loro vita. Su questa via
molti di loro sono arrivati così alla convinzione espressa nella lettera ai
Romani: “Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo?... Io sono infatti
persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né
avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà
mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,35.38)
(HA, 52.). La contemplazione del Signore crocifisso apre l’uomo a riconoscere
l’amore di Dio in lui, ma lo conduce anche verso un’esperienza interiore che
gli permette di raggiungere una fede più profonda e che lo porta alla
professione di fede dell’apostolo Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,28)
(HA, 58).
L’esempio di san Tommaso dimostra che tale certezza di fede
non è né ovvia né “fattibile” dal solo uomo, ma è piuttosto una grazia
dell’amore di Dio che si dà liberamente; tuttavia l’impegno a riconoscere
l’amore di Dio continua a essere importante! Una meditazione della passione di
Gesù – come per esempio una via crucis – facilmente rimane bloccata nella pura
contemplazione della sofferenza umana, se non è veramente il tentativo chiaro
di svelare l’amore di Dio nascosto nella passione. In altre parole: l’amore può
essere conosciuto solo nella misura in cui è cercato!
La devozione promossa dall’enciclica Haurietis aquas ci
spinge a cercare l’amore di Dio e dirige il nostro sguardo verso le piaghe di
Gesù: verso il fianco colpito dalla lancia e verso le ferite lasciate dai
chiodi. In questo modo l’enciclica indirizza il nostro sguardo all’adempimento
della promessa divina e al compimento del suo amore per noi: “Riverserò sopra
la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e
di consolazione: guarderanno a colui che hanno trafitto” (Zc 12,10). Queste
parole del profeta Zaccaria sottolineano che Dio stesso desidera consolarci,
facendoci guardare al costato trafitto, e renderci capaci di conoscere il suo
amore nel Signore crocifisso, come ha consolato gli apostoli e innumerevoli
credenti nel passato. Volgersi indietro alla passione non solo dunque non ha più
quell’effetto paralizzante che ancora esercitava sugli apostoli il sabato
santo, ma ci lascia conoscere sempre più profondamente tutta la grandezza di questo amore e del suo
sacrificio per noi. Lo sguardo al passato si trasforma così nella “memoria” e
conduce alla “commemorazione” – alla celebrazione dell’Eucaristia – e mantiene
così vivo questo conoscere l’amore di Dio e fa crescere in noi quella certezza
interiore che ci rende capaci di credere a questo amore sempre più di tutto
cuore.
“SPERIMENTARE
PIÙ A FONDO IL SUO AMORE”
Ogni culto, ogni forma di devozione non ha soltanto come
oggetto un “contenuto” e come scopo la sua conoscenza sempre in meglio, ma
vuole portare soprattutto all’esperienza interiore del suo “contenuto” e così
anche all’approfondimento della fede. Il valore e il significato di un culto
dipendono particolarmente da quanto questo possa aiutare gli uomini a crescere
nell’amore per le loro esperienze di Dio e a mettere con fiducia la propria
vita al suo servizio. Il significato più profondo di questo culto dell’amore di
Dio guardando “a colui che hanno trafitto” si coglie quindi soltanto quando si
considera attentamente anche il suo apporto all’esperienza personale di questo
amore.
Esperienza e conoscenza sono strettamente collegate l’una
all’altra e non possono essere separate. Perciò le forme di devozione
sviluppatesi nel corso della storia della Chiesa non si basano soltanto su
conoscenze teologiche, dalle quali si svilupparono, ma richiedono anche in
futuro conoscenza e chiarezza teologiche affinché non perdano la loro vivacità
spirituale e possano contribuire davvero all’approfondimento della fede. La
discussione teologica, alla quale l’enciclica Haurietis aquas si sente spinta,
serve quindi non solo a giustificare la devozione al Cuore di Gesù che si è
sviluppata nel passato, ma piuttosto a mantenere quella dinamica spirituale che
questo culto ha sempre avuto nell’approfondimento della fede cristiana, anche
se il suo aspetto esteriore sta cambiando.
Il fatto che l’intento di tutte le forme di devozione
cristiana che si sono moltiplicate nel corso della storia sia l’approfondimento
della fede richiama la nostra attenzione su un’altra cosa importante: se l’uomo
fa una esperienza spirituale cambia anche la sua relazione nei riguardi della
“conoscenza” oppure del modo in cui
cerca la conoscenza. Possiamo cogliere esempi a questo proposito guardando gli
apostoli. Sul loro cammino con Gesù provarono soltanto a “conoscerlo”, ma in
realtà non riuscirono a comprenderlo davvero; non potevano comprenderlo perché
si fermavano alle loro proprie idee. Impararono a conoscerlo solo dal momento
della sua passione, riconoscendo la loro debolezza e il loro fallimento, perché
nella misura in cui riuscivano ad ammetterli e confessarli, diventavano interiormente
liberi di “ricevere” l’amore del Signore veramente come dono immeritato. In
altri termini la conoscenza dell’amore di Dio non è possibile quando l’uomo
vuole intellettualmente “possederlo” e quasi impadronirsene, ma «soltanto nel
contesto di un atteggiamento di umile preghiera e di generosa disponibilità»#.4
Solo se nel nostro tentativo di conoscere Dio si verifica un cambiamento simile
a quello nella vita di Giobbe (cf. Gb 42,1-6), la conoscenza dell’amore di Dio
si trasforma anche per noi in un regalo e in un’esperienza della sua grazia.
Solo partendo da tale atteggiamento interiore, lo sguardo
alla passione e alla morte del Signore si trasforma nella preghiera che egli ci
faccia partecipi dell’esperienza del suo amore, e «lo sguardo posato sul costato
trafitto dalla lancia si trasforma in silenziosa adorazione»#.5 Perciò si può
dire che le forme di devozione cristiane sono forme dell’adorazione dell’amore
di Dio trasformatesi in preghiera perché si sono sviluppate da un atteggiamento
fondamentale di preghiera e altrettanto invitano a tale atteggiamento di
preghiera. È la grazia di una conoscenza e di un’esperienza di Dio, fatte in
modo frammentario, che ci spinge a chiedere di approfondirle e che ci rende
capaci di confessare con la nostra bocca “che Gesù è il Signore” e di credere
con il nostro cuore “che Dio lo ha risuscitato dai morti” e che il Signore è
“ricco verso tutti quelli che l’invocano” (cf. Rm 10,9.12).
L’esperienza e l’ammissione della nostra “povertà davanti a
Dio” ci fanno pregare e ci aprono le
porte al regno dei cieli (cf. Mt 5,3), ma ci aprono anche ad accettare l’aiuto
di altre persone su questo cammino verso Dio e a lasciarci accompagnare da
loro. Così la povertà umana provata ci rende interiormente aperti a tutti
quegli aiuti che Dio vuole concederci per mezzo della Chiesa. E il culto
dell’amore di Dio con lo sguardo “a colui che hanno trafitto” è certamente
quella devozione che ha plasmato più durevolmente la vita della Chiesa e perciò
è da essa particolarmente consigliata#.6
Le esperienze fatte da una persona non possono essere
provocate direttamente e precisamente nello stesso modo in un’altra persona, ma
soltanto descritte a parole o indicate da segni e simboli. Tali parole e tali
simboli però sono in grado di suscitare in altre persone qualcosa che le rende
disponibili a esperienze personali molto simili. Perciò possiamo soltanto
testimoniare la fede, che si basa sull’esperienza di Dio fatta personalmente,
ed essere di esempio ad altri ma non possiamo provocarla direttamente in loro.
Proprio a tale testimonianza della fede servono le parole e quei simboli usati
dalle devozioni cristiane.
Già in tempi antichi il cuore era considerato come la sede
della vita e come il luogo dell’esperienza religiosa. Il “cuore” denota così il
luogo più interiore e più profondo della persona umana; il “cuore” è visto come
la fonte della vita perché se il cuore smette di battere – se si esaurisce la
sorgente – termina anche la vita. Perciò non è sorprendente che il “cuore” non
è divenuto soltanto un modo di esprimere l’amore umano, ma è divenuto anche un
simbolo dell’amore di Dio#.7
Ciò è importante per la comprensione giusta del culto al
Cuore di Gesù poiché la sacra Scrittura non parla mai di un “cuore trafitto”
(HA, 15) ma solo del “fianco trafitto”, del “costato trafitto”. Perciò in
questo culto non si tratta di un “cuore fisico, trafitto da una lancia”, ma il
“cuore trafitto” è piuttosto il simbolo e l’espressione di quell’amore di Dio
che si è lasciato trafiggere dal peccato degli uomini: è il simbolo dell’amore
del Signore crocifisso, che si sacrifica. Il “cuore trafitto” non è da vedere
soltanto come un rimando alle sofferenze umane di Gesù ma in quel simbolo è
piuttosto racchiuso tutto l’amore umano e divino del Figlio di Dio che si è
incarnato come anche l’amore della Trinità per noi uomini peccatori (HA, 15).
Lo sguardo alla ferita visibile – lo sguardo al fianco trafitto dalla lancia –
ci fa conoscere la ferita invisibile dell’amore (HA, 56) e ci aiuta a
sperimentarlo interiormente in modo sempre più profondo e a credere in questo
amore.
Il Signore risorto mostrò ai suoi discepoli “le sue mani e
il suo costato” e spiegò loro il significato della sua passione (cf. Gv 20,20 e
Lc 24,26-27). Così fece capire a loro e anche a noi che l’amore di Dio può
essere conosciuto e sperimentato soltanto volgendo lo sguardo alla sua
passione. È il Signore stesso che ci invita alla contemplazione della sua
passione – a contemplare le sue piaghe e il fianco trafitto – affinché possiamo
conoscere quell’amore che non può essere superato da nessun altro: l’amore che
dà la vita per i propri amici (cf. Gv 15,13). In tale contemplazione però non
si tratta di provare a mettere la nostra mano con san Tommaso quasi in una
“ferita fisica” (cf. Gv 20,25.27) e a voler trattenere il Signore come Maria di
Magdala (cf. Gv 20,17), ma si tratta di sperimentare sempre più profondamente
il suo amore attraverso la massima vicinanza possibile alla passione e alla
morte di Gesù. In altri termini l’esperienza dell’amore di Dio richiede anche
quel timore riverenziale che ci costringe a fermarci con stupore davanti al
mistero di tale amore incomprensibile e a trattenerci in questo, riconoscendo
allo stesso tempo anche la nostra propria indegnità a ricevere questo amore.
Lo sguardo al costato trafitto del Signore, dal quale “uscì
sangue e acqua” (cf. Gv 19,34), ci aiuta a riconoscere la moltitudine dei doni
di grazia che da lì provengono (HA, 34-48) e «ci apre a tutte le altre forme di
devozione cristiana che sono comprese nel culto al Cuore di Gesù»#.8
L’esperienza, cioè, dell’amore di Dio, il quale si mostra nel costato trafitto,
ci apre alla ricchezza della vita cristiana (HA, 83) e alla pietà sacramentale;
ci invita però anche ad accettare questi doni e offerte di Dio e ad
approfondire ancora di più l’esperienza del suo amore con il loro aiuto. Questo
è il motivo perché questo culto ha un’importanza così grande per tutta
l’esperienza della fede.
“LASCIARSI
TRASFORMARE
IN STRUMENTI DEL SUO AMORE”
L’intenzione del culto presentato dall’enciclica Haurietis
aquas non si limita soltanto a raggiungere la vera conoscenza di Gesù Cristo e
a sperimentare più a fondo il suo amore ma è ancora più ampia, contribuendo
anche a “lasciarsi trasformare in strumenti del suo amore”. «La fede intesa
come frutto dell’amore di Dio sperimentato è una grazia, un dono di Dio. Ma
l’uomo potrà sperimentare la fede come grazia soltanto nella misura in cui egli
l’accetta dentro di sé come un dono, di cui cerca di vivere»#.9 Se l’uomo sente
di aver ricevuto un dono da Dio, da una parte ciò lo rende grato e stupito
della grazia immeritata, dall’altra però si sente anche spinto a una risposta,
spinto alla testimonianza delle opere grandi di Dio e del suo amore per noi.
L’approfondimento delle esperienze di fede fatte finora è possibile nella
misura in cui l’uomo si ricorda con gratitudine dell’amore di Dio e in cui è
disposto a diventare uno strumento di questo suo amore.
Se l’enciclica Haurietis aquas rivolge un vivissimo appello
a tutti i cristiani «a praticare questa forma di devozione» (HA, 76), ciò
significa innanzitutto un invito alla contemplazione ripetuta della passione
redentrice di Gesù Cristo. Lo sguardo “al costato trafitto dalla lancia” cioè
lo sguardo “al simbolo del cuore trafitto dai nostri peccati” deve aiutarci a
non fermarci alla sola sofferenza esteriore subita da Gesù, ma a giungere
all’amore ivi nascosto. Questo sguardo vuole aiutarci a non dimenticare mai ciò
che Gesù ha fatto “per noi” – “per me” – prendendo volontariamente su di sé
questa sofferenza . Praticando questo culto «non solo riconosciamo con
gratitudine l’amore di Dio, ma continuiamo ad aprirci a tale amore in modo che
la nostra vita ne sia sempre più modellata»#.10
Praticare questo culto al Cuore di Gesù significa quindi
collaborare con Dio e aprirsi così alla sua intenzione che è: riversare il suo
amore “nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm
5,5). Dio ci invita instancabilmente ad accogliere il suo amore, ma dipende da
noi accettare questo suo dono. L’amore come relazione tra due persone può
divenire vivo infatti soltanto nella misura in cui l’amore dell’altra persona è
veramente visto e accettato con gratitudine come un regalo immeritato. Proprio
perché l’invito alla «piena e assoluta volontà di dedicarci e consacrarci
all’amore del Redentore divino» (HA, 3) ha come obiettivo fondamentale
innanzitutto la relazione con Dio, questo culto orientato pienamente all’amore
di Dio è indispensabile per la nostra fede cristiana.
Nella misura in cui l’uomo è disposto ad accettare l’amore
di Dio interiormente, questo amore lo trasformerà perché accettandolo l’uomo
“impara” dall’amore di Dio. Questo “imparare” è un altro passo – dopo
l’accettazione dell’amore con gratitudine – al quale il culto al Cuore di Gesù
vuole condurre. L’amore di Dio sperimentato viene riconosciuto dall’uomo come
una “chiamata”, alla quale deve rispondere come gli apostoli che seguirono la
chiamata di Gesù e il suo esempio. Lo sguardo rivolto al Signore, che “ha preso
le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie” (Mt 8,17), fa crescere
la nostra compassione e «ci aiuta a divenire più attenti alla sofferenza ed al
bisogno degli altri»#.11
«La contemplazione adorante del costato trafitto dalla
lancia» non ci conduce soltanto alla riconoscenza della divinità di Gesù Cristo
e quindi alla confessione di Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,28), ma
quella – come sottolinea il santo padre nella sua lettera al p. generale – ci
rende anche «sensibili alla volontà salvifica di Dio. Ci rende capaci di
affidarci al suo amore salvifico e misericordioso e al tempo stesso ci rafforza
nel desiderio di partecipare alla sua opera di salvezza diventando suoi
strumenti. I doni ricevuti dal costato aperto, dal quale sono sgorgati “sangue
e acqua» (cf. Gv 19,34), fanno sì che la nostra vita diventi anche per gli
altri sorgente da cui promanano «fiumi di acqua viva» (Gv 7,38)”#.12
Il Figlio dell’uomo non è “venuto per condannare il mondo,
ma per salvare il mondo” (cf. Gv 12,47) e “non è venuto per essere servito, ma
per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (cf. Mt 20,28). Lo sforzo
spirituale di diventare simile a lui non può limitarsi all’imitazione esteriore
del suo esempio, ma deve essere orientato verso la “conformità” con il suo
atteggiamento di amore; solo così è possibile essere sempre più “conformi
all’immagine del Figlio suo” (cf. Rm 8,29). Perciò il culto del costato
trafitto del Redentore ci invita ad attingere continuamente da quella fonte, la
quale rende possibile quella esperienza profonda dell’amore di Dio che è in
grado di liberarci da ogni preoccupazione ansiosa per noi stessi e di farci
capaci di una disponibilità crescente e di una vita per gli altri. “Da questo
abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi
dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1 Gv 3,16).
Tale dono di se stessi per gli altri non si realizza, però,
a partire da un’ascesi compresa in modo sbagliato, che ripone la fiducia solo
nelle proprie capacità umane, ma è possibile solamente grazie all’esperienza
dell’amore incondizionato di Dio per noi. Se uno provasse a perseguire
l’offerta di se stesso soltanto in modo ascetico, tale tentativo sarebbe
condannato al fallimento, in modo simile alla promessa di Pietro: “Signore, con
te sono pronto ad andare in prigione e alla morte” (Lc 22,33), che finiva nel
rinnegamento. Possiamo diventare “uomini per gli altri” solo nella misura in
cui ci lasciamo trasformare dalla contemplazione adorante dell’amore del
Signore crocifisso e risorto. Infatti il vero adempimento del comandamento
dell’amore è possibile soltanto dall’esperienza profonda dell’amore di Dio che
precede ogni nostro sforzo: “Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo”
(1Gv 4,19)#.13 Perciò si può e si deve dire che questo «culto dell’amore che si
rende visibile nel mistero della Croce, ripresentato in ogni celebrazione
eucaristica, costituisce quindi il fondamento perché noi possiamo divenire
persone capaci di amare e di donarsi».14
L’amore come dono di se stessi non è opera umana, che
possiamo quasi offrire a Dio e per la quale ci dimostriamo persone affettuose;
l’amore vero richiede la libertà crescente da se stessi, cioè la capacità di
morire a noi stessi. Il rapporto dell’amore con Dio raggiunge la massima
profondità possibile soltanto se siamo pienamente disposti a essere diretti
solamente dalla volontà di Dio, perché solo così diventiamo in realtà strumenti
nelle sue mani.
“VIVERE COME
TESTIMONI
DEL SUO AMORE”
Tuttavia siamo “chiamati” a “lasciarci trasformare in
strumenti del suo amore” non per noi stessi o solamente per approfondire il
nostro rapporto con Dio, ma per compiere una “missione”: la missione che Dio ci
ha affidato per la nostra vocazione battesimale, cioè la “missione” che
essenzialmente fa parte della “vocazione cristiana”. Il cristiano è chiamato a
«vivere come testimone dell’amore di Gesù Cristo» e quindi a viverlo in tal
modo che esso può davvero essere visto e sperimentato da altri. Possiamo
realizzare questa missione soltanto nella misura in cui cerchiamo di fare la
volontà di Dio, come questa si è manifestata nelle parole e soprattutto nell’esempio di vita di Gesù Cristo, perché
solamente così siamo in grado di essere veramente annunciatori credibili del
suo amore - e non soltanto annunciatori delle nostre proprie opere!
Certo, tale apertura alla volontà di Dio non si conclude mai
fino alla fine della nostra esistenza e rimane una sfida per tutta la vita;
infatti in ogni momento dobbiamo aprirci di nuovo alla sua volontà, proprio
perché «l’amore non è mai “finito” e “completo”»#.15 E ciò ci insegna un’altro
aspetto importante della spiritualità ricordata nell’enciclica Haurietis aquas
che vorrei esprimere con le parole del papa nella sua lettera al p. generale:
«Lo sguardo al “costato trafitto dalla lancia”, nel quale rifulge la sconfinata
volontà di salvezza da parte di Dio, non può quindi essere considerato come una
forma passeggera di culto o di devozione: l’adorazione dell’amore di Dio, che
ha trovato nel simbolo del ‘cuore trafitto’ la sua espressione storico-devozionale,
rimane imprescindibile per un rapporto vivo con Dio»#.16
Nella misura in cui l’uomo si mette a disposizione di Dio
come strumento, la sua vita diviene infatti un annuncio, perché l’amore vissuto
è in realtà già sempre un accenno a Dio e una testimonianza del suo amore.
Perciò tutte le devozioni cristiane non hanno soltanto lo scopo di preparare
l’uomo a essere in modo crescente uno strumento nelle mani di Dio e a condurlo
a un’esperienza personale di fede, ma hanno piuttosto sempre anche un valore di
annuncio. Malgrado tutti i limiti umani che impediscono il loro sviluppo pieno,
esse servono a testimoniare l’esperienza fatta di Dio e a incoraggiare altri a
cercarlo affinché possano sperimentare il suo amore riparatore e trasformante.
Il culto dell’amore di Gesù Cristo praticato nel simbolo del
Cuore trafitto non è quindi una devozione di importanza solo individuale, ma è
anche un servizio alla santificazione della Chiesa (HA, 81), perché in questo
culto si decide pure la forza di testimonianza del suo annuncio. In esso si
determina infatti in quale misura il mondo sarà in grado di comprendere “quale
sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di
Cristo che sorpassa ogni conoscenza” (Ef 3,18-19). Solo nella misura in cui la
Chiesa è davvero orientata all’amore di Dio, essa non sarà vista e considerata
solo come un’istituzione umana, ma sarà vissuta piuttosto come ciò che è e che
in realtà deve essere, cioè un’ “opera di Dio”. La Chiesa è infatti lo “strumento”
per cui Dio, fino alla fine dei tempi, comunica tutti i doni della grazia del
suo amore agli uomini, che ininterrottamente continuano a sgorgare dal costato
aperto di Gesù Cristo…
La spiritualità del Cuore di Gesù può essere facilmente
fraintesa, identificata in modo precipitoso e semplificativo con un culto
concreto e con una forma di devozione ben definita. La forma tradizionale di
devozione al Cuore di Gesù ci è data come aiuto di grande valore, e certamente
sarebbe presuntuoso non servirsene e perciò occorre esortare i fedeli a
coglierla quanto più possibile (HA, 71). Tuttavia va ricordato che questo culto
come forma concreta è in grado di rinnovarsi soltanto nella misura in cui viene
riconosciuta anche la sua “relatività”: cioè il suo stare al servizio di un
contenuto, che supera infinitamente ciò che una sola forma umana di devozione
potrebbe contenere.
Per questo motivo l’enciclica Haurietis aquas, malgrado la
sua intenzione di dimostrare il valore del culto sviluppatosi dalle rivelazioni
di santa Margherita-Maria Alacoque e di sottolineare la sua importanza per
l’approfondimento della vita cristiana, ha ricordato anche e soprattutto gli
elementi essenziali che stanno alla base non solo di questo culto concreto ma
di ogni vera devozione cristiana. Soltanto aprendoci sempre di nuovo a questa
ricchezza della fede cristiana, possiamo crescere spiritualmente e riconoscere
con la grazia di Dio un poco di più la sua sapienza e il mistero della croce di
Gesù Cristo che superano ogni forma di devozione! Non è una determinata forma
esteriore che quasi da sé e automaticamente può farci sperimentare l’amore di
Dio, ma piuttosto solo l’atteggiamento interiore di volgere incessantemente il
nostro sguardo a colui che hanno trafitto. Perciò la spiritualità del Cuore di
Gesù a 50 anni dall’enciclica Haurietis aquas è da considerare come l’impegno
personale e della Chiesa intera a non perdere mai di vista l’amore rivelatosi
nel costato trafitto, il quale si serve della forma di devozione che questa
spiritualità ha sviluppato nella storia della Chiesa.
T. W.
1 Cf. Pio XII., Enciclica “Haurietis aquas” (=HA), 1.
2 Cf. Lettera di Benedetto XVI al p. generale.
3 Cf. ibidem.
4 Cf. ibidem.
5 Cf. ibidem.
6 Cf. spec. HA, 63 e 71.
7 Cf. HA, 14 e 30-33.
8 Cf. Lettera di Benedetto XVI al p. generale.
9 Cf .ibidem.
10 Cf. ibidem
11 Cf.ibidem.
12 ibidem, cf. anche
DCE 7.
13 Cf. DCE, 14.
14 Lettera di Benedetto XVI al p. generale.
15 Cf. DCE, 17.
16 Lettera di Benedetto XVI al p. generale.