PER ESSERE PERSONE DI PREGHIERA
NON BASTANO LE LODI E I VESPRI
Quello che non
si può accettare è che le lodi e i vespri siano considerati “la” preghiera
della Chiesa, l’unica valida e si attribuisca ad essa un valore sacramentale.
Ci sono molti religiosi e religiose che purtroppo si accontentano di questo.
Siamo o non siamo persone di preghiera? Se lo chiede p.
Carlos Palmés in un articolo pubblicato sulla rivista CLAR della Confederazione
latino-americana dei religiosi nel numero di gennaio-marzo 2006. Non è
difficile saperlo. Il segno caratteristico che lo sta a indicare è se la
preghiera ha prodotto oppure no nella nostra vita una “conversione affettiva”,
quella che nella vita spirituale è chiamata la seconda conversione.
Lo si può osservare mettendo a confronto due categorie di
persone. Anzitutto quelle che da anni continuano a comportarsi secondo criteri
puramente umani e forse persino mondani, che giudicano tutto in base al proprio
interesse personale o di gruppo, anziché con i criteri del Regno. Questi
comportamenti si manifestano in una grande sensibilità per tutto ciò che tocca
la propria immagine e il proprio benessere materiale, in una noia per la
preghiera fatta a tu per tu con il Signore, nell’avversione per l’abnegazione
che è l’altra faccia dell’amore, nella suscettibilità e nell’individualismo nei
rapporti con gli altri. A volte ci può essere un’attività “apostolica”
febbrile, ma senza tempo per una preghiera tranquilla né per la vita di
comunità e senza chiarezza di motivazioni. In definitiva a dominare la
situazione è l’egoismo più o meno scoperto.
L’altra categoria è invece quella delle persone che
coltivano una vita spirituale solida e progressiva, che sanno relativizzare
molte cose non essenziali; per quanto riguarda la stima personale sanno
accettare le contrarietà della vita con spirito di fede; praticano abitualmente
una preghiera personale gioiosa che le gratifica interiormente e fa loro
scoprire la presenza amorosa di Dio in tutte le cose; sono persone che amano
coloro con cui convivono o con quelle che incontrano nella loro attività
pastorale. Il loro lavoro apostolico è integrato nell’insieme della loro vita
consacrata. In una parola sono persone e che hanno giocato tutto per il Regno.
La differenza tra queste due categorie di persone dipende
tutto dalla loro vita di preghiera, dal fatto cioè se uno è stato oppure no
conquistato dal Signore.
QUANDO LA PREGHIERA
SI RIDUCE ALLE STRUTTURE
La vita di preghiera rischia di essere vanificata quando si
riduce unicamente alle strutture. Ciò avviene, scrive p. Palmés, con le
preghiere vocali quando queste si considerano come il modo privilegiato e quasi
unico della preghiera della Chiesa, come avviene con le preghiere tradizionali
di un istituto e anche con le Ore canoniche. Ci sono dei religiosi e religiose
e congregazioni intere che a causa delle urgenze “apostoliche” hanno quasi
ridotto la loro preghiera alla recita delle Lodi e dei Vespri. Si è potuto
giungere fino a degli estremi caricaturali come quando si recitava il breviario
per imposizione canonica e alcuni sacerdoti intraprendevano “la corsa contro il
peccato mortale”, recitando in un quarto d’ora tutti i salmi prima dello
scadere della mezzanotte.
Le recite di preghiere si traducono a volte in parole oziose
che non toccano la vita se non sono accompagnate da una preghiera personale,
prolungata, a tu per tu con il Signore. La preghiera che ha valore non è quella
che si fa per adempiere a ciò che è prescritto, ma quella che sgorga dal cuore
e fa crescere nella fede e nell’amore.
Senza offendere nessuno, credo di poter affermare che la
recita di alcune Ore canoniche come unica preghiera ufficiale e sufficiente,
sia stata deleteria per la Chiesa e per la vita consacrata attiva. Oggi sono
molti i sacerdoti diocesani, i religiosi e le religiose di vita attiva che non
hanno quasi altro nutrimento spirituale e che si adagiano in una mediocrità
deplorevole, con una grande fragilità vocazionale, con problemi affettivi e
relazione di ogni genere. La cosa più dolorosa è che esperimentano un vuoto
affettivo che li fa sentire infecondi. All’inizio forse l’attività apostolica
produce soddisfazioni gratificanti. Ma se l’attività apostolica non viene
accompagnata da una profonda vita di preghiera, con l’andare del tempo si perde
la motivazione e il fervore e si vanno a cercare compensazioni altrove. L’unico
apostolato autentico è quello che scaturisce dall’esperienza di Dio: «ciò che
noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi
abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo
della vita, noi lo annunziamo anche a voi» (1Gv 1,1).
Ci sono degli usi e delle abitudini, sottolinea ancora p.
Palmés, del tutto insoddisfacenti. La prima è quando si recitano le Lodi e i
Vespri come unica preghiera. Le altre preghiere sono considerate secondarie e
condizionate al lavoro. Ma se la preghiera si riduce a recitare alcuni salmi
senza averli prima gustati nella preghiera personale, si traduce tutto in un
atto che non tocca la vita.
È frequente anche tra religiosi e religiose iniziare la
mattina con la recita delle Lodi lasciando poi una pausa di tempo in attesa che
arrivi il sacerdote per la messa. Durante questo spazio non c’è il tempo né
l’ambiente per entrare in una preghiera tranquilla e assaporare la Parola di
Dio. Tutto rimane in superficie. Poi già preme la voragine dell’attività nel
collegio o in ufficio o in clinica che assorbe tutte le ore della giornata.
Il peccato non sta nel recitare le Lodi, ma nel non
riservare del tempo per la preghiera personale, che costituisce l’anima delle
preghiere e di tutta la vita. Quello che non si può accettare è che le Lodi e i
Vespri si considerino “la” preghiera della Chiesa, l’unica valida e si
attribuisca ad essa un valore sacramentale, come se bastasse recitare
materialmente i salmi per essere persone di preghiera. Ci sono molti religiosi
e religiose che purtroppo si accontentano di questo.
Certamente quando si recitano o si cantano con devozione le
Ore canoniche, esse costituiscono una bella e profonda esperienza religiosa.
Ricordiamo ciò che dice il concilio: «La vita spirituale tuttavia non si
esaurisce nella partecipazione alla sola liturgia Il cristiano, infatti, benché
chiamato alla preghiera in comune, è sempre tenuto a entrare nella propria stanza
per pregare il Padre in segreto; anzi, secondo l’insegnamento dell’apostolo, è
tenuto a pregare incessantemente» (SC 12).
Vi sono molti che non danno il primato alla preghiera
personale e la sacrificano facilmente per lasciare spazio ad altre preghiere o
devozioni che non trasformano la vita.
All’inizio della formazione, osserva p. Palmés, si mette un
grande impegno nell’insegnare a manovrare il breviario, nell’imparare i canti
appropriati. E va bene; però non va bene che non si metta lo stesso impegno nell’introdurre
il giovane nella preghiera personale, specialmente contemplativa che porti a
una conoscenza “saporosa” di Cristo, a un fascino che capti la sua affettività
profonda e conduca alla consegna della persona all’amore e alla sequela di
Cristo. «Dalla preghiera liturgica ci si può dispensare perché appartiene al
diritto canonico della Chiesa; ma non ci si può dispensare dalla preghiera
personale perché è di diritto divino» (Julián Riquelme, op).
PREGHIERA
CHE TRASFORMA
La preghiera è qualcosa che trasforma la persona,
soprattutto quella contemplativa. È tuttavia opportuno ricordare che la
contemplazione non consiste nelle belle idee o in profonde argomentazioni
teologiche, ma, come osserva sant’Ignazio, nel sentire e gustare le cose
interiormente, vale a dire che le conoscenze devono discendere nel cuore.
Contemplare vuol dire allora guardare, ma anche amare: si tratta della
preghiera del cuore.
Scopo della preghiera è far crescere nella fede e
nell’amore. Bisogna passare attraverso la “conversione affettiva” per giungere
a vivere in uno “stato di amore”, nei rapporti con Dio e con i fratelli e le
sorelle. Il Signore deve diventare il grande Amore della mia vita, il centro e
la motivazione di tutti gli altri amori. Un amore totalizzante che pervade
l’intera persona (p. Imoda).
La preghiera personale porta alla trasformazione della
persona, alla conquista dell’affettività profonda e conduce fino ai segreti del
cuore della Trinità. Mette a confronto la persona col Vangelo e la forza dello
Spirito la porta fino all’identificazione con Cristo. L’amore fa uscire da se
stessi per giungere a vivere solo per Dio e per il prossimo.
Il processo di crescita è in tutti i casi il medesimo e
passa attraverso fasi successive. Come condizione iniziale ci vuole la purificazione
da tutti gli affetti e attaccamenti disordinati che separano da Dio. Solo così
si apre un cammino spedito nella sequela di Cristo. Con la contemplazione si
entra nella conoscenza sapienziale del Signore. Non è una conoscenza puramente
speculativa o scientifica. Non è un sapere, ma un assaporare. È una conoscenza
affettiva, vibrante, affacciante che avviene mediante l’azione dello Spirito.
Dalla conoscenza sgorga l’amore. Quanto più profonda e
totalizzante è la conoscenza tanto più appassionato e assorbente sarà l’amore.
L’amore mette in movimento un dinamismo che conduce all’identificazione con
l’Amato “attratti dalla sua soavità” (s. Bernardo). L’identificazione non
avviene tanto negli atti esterni, ma nei criteri, atteggiamenti, sentimenti fino
a giungere ad avere una stessa Vita, uno stesso Amore. Fino a poter dire in
tutta verità con Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal
2,10).
Dall’amore e dall’identificazione si passa alla consegna di
tutta la persona al Signore. «Accogli, Signore, e ricevi tutta la mia libertà,
l’intelletto, la capacità di amore, tutto ciò che sono e possiedo. Disponi
tutto secondo la tua volontà».
Questo itinerario, ha cura di sottolineare p. Palmés, è lo
stesso nella vita attiva e in quella contemplativa, nel religioso e nella
religiosa come anche nel sacerdote diocesano, nel laico e nella laica. Non
esiste altro cammino. Certo nella vita attiva, l’identificazione con Cristo
implica anche l’assunzione della sua missione evangelizzatrice al servizio dei
fratelli e delle sorelle. Ma il punto di partenza deve essere l’esperienza di
Dio nella preghiera personale. Da qui scaturisce poi l’esigenza di trasmettere
agli altri la buona Novella.
La preghiera, osserva ancora il padre, fa crescere nella
fede e nell’amore. Inoltre poco alla volta, inizia anche un processo di
conquista degli altri livelli, in modo che i livelli psichici e sensoriali
vengono incorporati nell’amore totale. Poco alla volta cambia la scala dei
valori, degli interessi che non sono più quelli personali, ma quelli del Regno.
L’amore a Cristo prende possesso del cuore della persona e tutti gli altri
interessi e amori si unificano e trovano significato.
Ciò non avviene se le preghiere che recitiamo rimangono in
superficie: queste non solo non trasformano la persona, ma possono anche
lasciarci stanchi in una perpetua mediocrità.
L’esperienza di molti anni, scrive p. Palmés, mi ha mostrato
che una vita spirituale solida e profonda, capace di alimentare una fede
robusta e di produrre una pienezza affettiva deriva da una pratica abituale
della preghiera da cui deriva e assume significato tutto il resto.
Questo si vede in quelle persone che, in mezzo alle loro
attività, danno il primato alla preghiera personale a tu per tu col Signore e
vi dedicano abitualmente l’ora migliore del giorno. Si tratta di una preghiera
tranquilla e trasformante, sia che poi si recitino oppure no le Lodi e i
Vespri. Una vita spirituale fondata solo su preghiere e atti devozionali può
essere un “pio intrattenimento”, ma che in genere non cambia gli atteggiamenti
profondi della persona né giunge alla conversione affettiva.
È tempo di chiarire i concetti e di non fermarsi a slogan
brillanti né a giustificazioni “teologiche” per continuare a vivere una vita
religiosa rilassata e superficiale o in un attivismo fuori misura.
La maggioranza degli istituti di vita consacrata prendono
sul serio la vita spirituale e le loro pratiche possono considerarsi un modello
adeguato per la vita attiva. Oltre l’ora di preghiera personale, celebrano
l’Eucaristia quotidiana, fanno l’esame di coscienza al termine della giornata,
non solo per rivedere gli sbagli compiuti, ma soprattutto per ringraziare la
presenza amorosa di Dio durante il giorno; praticano l’accompagnamento
spirituale periodico, specialmente durante la formazione; una volta l’anno gli
esercizi spirituali di otto giorni e alcune volte il giorno di ritiro.
Evidentemente questa vita spirituale deve integrarsi con l’apostolato e con una
vita comunitaria veramente fraterna.
Molte persone si sentono così pianamente contente e
realizzate nella loro vocazione.