ASPETTI PSICOLOGICI DELLA CONFESSIONE (1)

DOVE C’È E DOVE NON C’È COLPA

 

La linea morale deve rimanere distinta dalla linea psicologica. Una cosa è prendere coscienza delle difficoltà che incontriamo nella vita spirituale e un’altra è chiederci che cosa possiamo e vogliamo fare di fronte a queste difficoltà: è quest’ultimo aspetto che interessa per l’esame di coscienza davanti a Dio.

 

La confessione, come gli altri sacramenti, è un segno sensibile ed efficace della grazia, attraverso il quale si realizza e si accresce la nostra amicizia con Gesù. È importante vivere l’incontro sacramentale nella verità: solo così esso è fonte di pace e di gioia e chi ne fa esperienza sente che potersi confessare è una grazia. Affinché ciò si realizzi, si richiedono alcuni requisiti e condizioni: nelle considerazioni che seguono mi limito a qualche annotazione riguardante alcuni aspetti e problemi di carattere prevalentemente psicologico, connessi con la confessione, che a volte mi sembrano lasciati un po’ in ombra o comunque meno presenti nelle riflessioni su questo sacramento.

 

ANALISI PSICOLOGICA

E RESPONSABILITÀ MORALE

 

Una persona si assopisce durante la preghiera a causa di una notte insonne (magari per una cattiva digestione); un’altra è continuamente presa dal pensiero di una grave preoccupazione che la tormenta da alcuni giorni e non riesce a concentrarsi; un’altra è ossessionata da “cattivi pensieri” che da un certo tempo la tormentano in continuazione... Arrivare subito a dire, in questi casi, che “prego male perché sono un cattivo religioso” significa passare indebitamente dal piano psicologico (o fisiologico) a quello morale. Diverso, infatti, sarebbe invece il caso di una persona che, alzandosi dopo una preghiera fatta prevalentemente “in sonno”, si mette a fare qualcosa d’altro e dice a se stessa: “...poi per la preghiera vedrò...”. In questo caso è intervenuta la sua volontà, ha fatto una scelta.

Dobbiamo imparare a saper distinguere, poiché spesso capita di nutrire sentimenti di colpevolezza là dove colpa non c’è. Dobbiamo rendere i nostri esami di coscienza lucidi e chiari come devono essere; non si deve confondere l’esame di coscienza con l’auto-esame di tipo psicologico. L’autoanalisi di tipo psicologico, legata alla capacità introspettiva del soggetto, ha lo scopo di cercare di capire che cosa avviene in noi e perché avviene: ricerca l’origine di meccanismi psicologici, analizza condizionamenti, cerca connessioni, descrive l’evolversi di situazioni interiori. L’esame di coscienza necessario per disporci alla confessione è, invece, la visione chiara, serena davanti a Dio delle proprie responsabilità, quindi delle scelte fatte nelle varie circostanze, chiedendoci se tali scelte sono state dettate più dall’amore di Dio e del prossimo o dalla ricerca del proprio interesse e dal proprio egoismo.

La linea morale deve rimanere distinta dalla linea psicologica. Non è corretto spostare la spiegazione dei problemi che incontriamo nella vita spirituale da una serie di cause ad un’altra. Una cosa è prendere coscienza delle difficoltà che incontriamo nella vita spirituale e dei comportamenti moralmente non buoni e interrogarci sui fattori che possono averli determinati e un’altra è chiederci che cosa possiamo e vogliamo fare di fronte a queste difficoltà e a questi comportamenti: è quest’ultimo aspetto che interessa per l’esame della nostra coscienza davanti a Dio.

 

“SO CHE È PECCATO MA

NON RIESCO A EVITARLO”

 

Non è raro che un sacerdote si senta dire da un penitente: “mi rendo conto che è una cosa cattiva e che non dovrei farlo..., ma proprio non riesco”. Può trattarsi di una persona che non riesce a controllare la propria ira, o non riesce a liberarsi dall’impulso di gioire di fronte alle disgrazie altrui o sperimenta una profonda avversione nei confronti di una consorella (un confratello), o si sente incapace di controllare i propri impulsi sessuali, o è dipendente da internet...La persona sperimenta un disagio crescente, oppressa e quasi schiacciata tra un senso di colpa da una parte e, dall’altra, la sensazione della ineluttabilità della condotta negativa. Le confessioni si ripetono, ma nello stesso tempo si accetta rassegnati, e non raramente con un profondo senso di umiliazione, una situazione morale vissuta come negativa e causa a volte di continui compromessi.

Di fronte a questa situazione si possono fare almeno due annotazioni.

Anzitutto, se la persona è realmente incapace – come lei stessa ripetutamente e lealmente afferma – di sottrarsi a una condotta moralmente cattiva, allora non c’è ragione per esortarla a impegnarsi di più o esortarla genericamente a pregare per migliorare. È invece senz’altro più utile esortarla a cercare di capire che cosa realmente le sta capitando, quando e come le si presenta il problema, quale potrebbe essere la causa, quale messaggio circa la propria vita e la sua persona le metacomunica il ripetersi di quel particolare “peccato”. In casi del genere, quindi, la responsabilità morale del soggetto non consiste anzitutto nel continuare nello sforzo per superare il suo problema – il quale, per sua stessa ammissione, è insuperabile! – quanto piuttosto nel porsi di fronte al problema stesso in modo diverso e più aperto. Ad esempio: interrogarsi sulle cause che possono determinare il suo problema, analizzando in modo più approfondito le situazioni e i contesti in cui esso si presenta, cercare un confronto con una persona esperta che lo aiuti a leggere meglio la propria vita, interrogarsi per verificare quando è sorto il problema e da quanto tempo dura...

Nella misura in cui la persona non è disponibile a un atteggiamento più aperto e a impegnarsi per una più adeguata comprensione del suo problema, allora in tal caso potrebbe essere lecito parlare di una sua responsabilità morale: di ciò, appunto, dovrebbe eventualmente confessarsi e non tanto della condotta negativa che si ripete e che lei non riesce a evitare. L’impegno morale, infatti, deve essere intelligente, ispirato dalla virtù cardinale della prudenza, altrimenti c’è il rischio di cadere nel volontarismo cieco e sterile. Così, ad esempio, può verificarsi il caso che una persona sia moralmente responsabile non tanto perché non riesce a evitare comportamenti particolarmente offensivi della carità, quanto piuttosto perché non si decide ad agire e non fa niente per farsi aiutare nel capire l’origine di certi meccanismi, più o meno inconsci, che da tempo si ripetono nella sua vita. Se, a causa della sua impulsività, questa persona si arrabbia in continuazione tutti i giorni e tratta male gli altri, sarebbe perlomeno assai superficiale (oltre che comodo) osservare che “purtroppo sono fatta così... sono stata abituata così... anche se ciò non significa che io non vi voglia bene...”: la sua responsabilità è quella di imparare poco alla volta, con pazienza e costanza, a capire da dove nasce il suo problema e vedere poi cosa può fare per prendere in mano responsabilmente se stessa. In situazioni come quelle sopra richiamate non c’è da accusarsi davanti a Dio, perché non c’è stata colpa, non c’è stato nessun “sì” e nessun “no” cosciente; si tratta invece di riconoscere che ci sono delle difficoltà da capire, anzitutto, per poi cercare di superarle. Certe mancanze morali vissute come invincibili dal soggetto hanno di norma il significato di sintomo e rimandano quindi a situazioni difficili da lui vissute: è a queste che egli deve essere aiutato a prestare attenzione, distogliendolo da un centrarsi ossessivo sul sintomo e cercando invece di lavorare sulle cause che ne stanno alla base. Queste possono essere, ad esempio: una vita comunitaria caratterizzata da freddezza, anonimato (sentirsi semplicemente un numero) e individualismo; poca stima di sé; senso di fallimento nella propria vita e perdita di significato; scelta vocazionale non autentica; mancanza di una responsabilità (un ruolo) sentita come significativa e gratificante; difficoltà di adattamento in seguito a un trasferimento o alla cessazione di un ruolo particolare. Tante persone sono andate avanti anche per anni, tormentandosi inutilmente, quando un modo più intelligente e illuminato di considerare i problemi avrebbe potuto risparmiare loro tanta sofferenza.

 

QUALCHE ACCORGIMENTO

PARTICOLARE

 

Ed ecco la seconda osservazione. Quando una persona afferma di non riuscire “assolutamente” a superare un problema morale, di fatto ciò è vero... solo in parte – e questa è la situazione che di norma è quella che si presenta più frequentemente rispetto a quella precedentemente descritta. Per aiutare la persona a rendersi conto che in realtà le cose stanno così può essere utile invitarla a considerare più attentamente il suo problema, stimolandola con alcune domande. Ad esempio: da quanto tempo è presente il problema? Ci sono situazioni in cui è assolutamente impossibile evitare il comportamento negativo e altre, invece, nelle quali ricorrendo a qualche accorgimento particolare (evitare ad esempio di trovarsi in certi luoghi, privarsi di qualche oggetto, evitare di stare da soli ecc.) le riesce di essere vittoriosa? Il problema si presenta alla stessa maniera sempre e dovunque o vi sono delle circostanze o contesti particolari che in realtà rendono più o meno possibile evitare il comportamento negativo? Distinguere tempi, momenti, situazioni, contesti è molto utile per evitare valutazioni sommarie e superficiali che finiscono per bloccare la persona e non farle vedere alcuna via d’uscita. Né si deve dimenticare che normalmente vi è una fase preparatoria che porta a compiere un atto moralmente cattivo: il potere che il soggetto ha di non cedere è psicologicamente diverso nei vari momenti di questa fase preparatoria e comunque è possibile esercitare la propria volontà fino a che non si arriva a un punto di non ritorno oltre il quale diventa praticamente impossibile resistere. È naturale, quindi, che la responsabilità morale varia anche a seconda del punto in cui ci si trova rispetto al momento in cui si compie l’atto cattivo (conosciamo l’ammonizione contenuta in un antico motto latino: principiis obsta...: resisti agli inizi).

 

PECCATO, SENSO DI COLPA

COMPLESSO DI COLPA

 

È importante aiutare le persone a non rimanere prigioniere di un permanente senso di impotenza, ad avere una percezione differenziata delle varie situazioni evitando conclusioni sommarie, a rendersi conto che in qualche caso il loro potere è maggiore che in altri, a sperimentare modalità e accorgimenti diversi, più intelligenti e funzionali, per affrontare i problemi. Da ricordare anche quest’altro suggerimento: “mai nella perfezione – mai nella disperazione”: ciò per sottolineare che, di norma, non è realistico proporsi di non fare mai o di evitare sempre un determinato atto moralmente cattivo. Tenendo conto di ciò, il confessore farebbe bene a esortare il penitente con queste parole: «Impegnati a non farlo tutte le volte... che ti è possibile». È un approccio più realistico e ragionevole per superare certi problemi morali: il soggetto, infatti, si rende conto che in alcuni casi ha il potere di scegliere – se vuole – e inoltre fa l’esperienza della riuscita e ha la piacevole sensazione di star facendo qualche progresso – e ciò è importante per recuperare la fiducia in se stesso.

«Il peccato è “una parola, un atto o un desiderio contrari alla legge eterna” (s. Agostino). È un’offesa a Dio, nella disobbedienza al suo amore».1 Chi ha il senso autentico del peccato ha dunque questa consapevolezza: da essa nasce il dolore e il pentimento. Questo non si riduce a un generico senso di disagio interiore, non è un dispiacere per aver dato un’impressione negativa di sé (narcisismo ferito) o per aver creato problemi, ma è riconoscere che nel modo di vivere la propria vita si è dimenticato Dio o che in precisi momenti si è agito coscientemente contro la volontà di Dio: «il Signore mi chiedeva questo e io ho detto di no».

Il senso di colpa, a sua volta, è un sentimento che può provare qualsiasi persona, anche chi non è credente: consiste in un sentimento di disagio interiore, quindi in una sensazione negativa, che attraverso l’apprendimento abbiamo imparato ad associare a determinati comportamenti, senza che ciò implichi un riferimento a Dio e alla sua legge. Imparare ad associare un senso di colpa a determinati comportamenti è un modo attraverso il quale si realizza il processo di socializzazione e si fa propria una determinata cultura: per tale motivo, far sperimentare già ai bambini moderati e controllabili sensi di colpa può essere una modalità valida per la lo loro educazione. In seguito all’educazione ricevuta si possono associare sensi di colpa a qualsiasi tipo di comportamento, che in sé può essere più o meno grave, e di per sé non è detto che si tratti senz’altro di qualcosa di negativo. Si tenga in ogni caso presente che il pentimento necessario perché la confessione sia valida è qualcosa di distinto dal semplice senso di colpa che una persona può sperimentare. Ci si accosta alla confessione non tanto per sgravarci da sensazioni dolorose o semplicemente per sentirci più in pace, ma anzitutto per celebrare la misericordia di Dio che ci ridona il suo perdono. Non la ricerca di un benessere personale al primo posto, ma la lode e l’adorazione del Signore, “ricco di grazia e di misericordia”. Il peccato, in definitiva, dice qualcosa di più di colpa. Esso ci apre davanti una nuova dimensione: quella del rapporto dell’uomo con Dio. Una persona che non crede in Dio può ancora sentirsi in colpa davanti agli altri e davanti a se stessa, ma il peccato implica colpa davanti a Dio: “Contro di te, contro te solo ho peccato”.2

Si parla, infine, anche di “complesso di colpa”, il quale pure si esprime attraverso un disagio interiore, ma è diverso dal senso di colpa perché ha una connotazione nevrotica. In questo caso la persona sperimenta una vaga e indefinita sensazione di non essere a posto, ma tale sensazione non è riferita e agganciata a qualche situazione personale concreta o a un comportamento specifico. Essa si sente piuttosto una “persona cattiva”, come se tutto il proprio essere sia connotato negativamente. Si tratta di un vissuto a carattere nevrotico, dovuto a particolari esperienze educative che hanno portato la persona stessa a sviluppare un’immagine molto negativa di sé. Ancora una volta, dunque, è necessario rifarsi a un corretto senso del peccato, che implica la consapevolezza di determinati comportamenti o atteggiamenti in contrasto con la volontà di Dio. Due annotazioni ancora: anzitutto, il bisogno che in questi casi spinge a confessarsi è piuttosto di tipo compulsivo, quindi non del tutto libero; in secondo luogo, è assai difficile se non praticamente impossibile un autentico progresso spirituale quando non è chiaro ciò che nella propria vita deve essere cambiato per realizzare un’autentica conversione. La confessione non è un mezzo adatto per curare stati nevrotici; ad essa ci si accosta per dire al Signore: “riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinnanzi”.3

 

Aldo Basso

 

1 Catechismo della Chiesa Cattolica, Compendio (n. 392).

2 Sal 51,5.

3 Sal 51,5.