IL CONVEGNO DI VERONA E I CONSACRATI
TESTIMONI E PROFETI DEL FUTURO
Il documento
preparatorio del convegno invita i religiosi a una riscoperta e attualizzazione
del loro patrimonio spirituale, della sapienza, dell’esperienza, della grande
varietà di forme di apostolato e di impegno missionario. Il “di più” biblico,
teologico e spirituale su cui si fonda la spiritualità di comunione dei
consacrati.
Il convegno ecclesiale di Verona, è un evento che si
inserisce nel cammino della Chiesa nel nostro paese, scandito dagli
orientamenti pastorali Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia.
L’obiettivo di fondo è quello di chiamare i cattolici italiani a testimoniare,
con uno stile credibile di vita, Gesù risorto. È lui, infatti, come si legge
nella traccia preparatoria, la fede della Chiesa, la speranza che illumina e
sostiene la vita e la testimonianza dei cristiani.
Il titolo del convegno
Il passo biblico di riferimento è la prima lettera di
Pietro. Ma forse non sarebbe meno significativo e appropriato anche l’episodio
della guarigione dello storpio da parte di Pietro presso la porta del tempio
detta “Bella” (At 3,1-10). È un episodio che va letto in stretta connessione
con quanto gli Atti riferiscono sulla vita fraterna della prima comunità
cristiana.
È infatti, vivendo l’unione fraterna, la koinonia, che
Pietro e Giovanni possono donare allo storpio ben più di quello che si
attendeva: Gesù Cristo Risorto. In questa icona biblica sono quindi facilmente
rintracciabili gli aspetti più rilevanti del convegno di Verona: Gesù il Risorto
presente nella sua Chiesa; il mondo, nella figura dello storpio, con le sue
attese e speranze, la comunità cristiana con uno stile di vita credibile,
capace di cambiare la storia.
MEMORIA VIVENTE
DI GESÙ RISORTO
Anche se nel documento preparatorio c’è un solo riferimento
esplicito alla vita consacrata, ed esattamente là dove si parla delle
esperienze da porre “sul candelabro” e che sono profezia di futuro (10), non
mancano, comunque, numerosi spunti in grado di sollecitare, anche da parte dei
consacrati, una autentica testimonianza di Gesù risorto, speranza del mondo.
La vita consacrata, infatti, da sempre, è chiamata a
“ripartire da Cristo”, ad aderire a lui «contemplando il volto crocifisso e
glorioso di Cristo e testimoniando il suo amore nel mondo», ravvivando nello
stesso tempo il desiderio di una più intensa vita evangelica e spalancando gli
orizzonti del dialogo e della missione» (RdC 1).
Anche ai consacrati è richiesta una duplice conversione. La
prima riguarda l’identità di Gesù il quale non è solo il profeta che ha
“rivendicato” di essere il Figlio di Dio, ma è il Signore che, seduto alla
destra del Padre, conserva le piaghe del Crocifisso e ci trasfigura con la sua
carità sino alla fine. La seconda riguarda il volto della Chiesa. Vedere il Risorto
significa per la comunità dei discepoli diventare Chiesa-comunione che pone il
Risorto al suo centro e lo annuncia ai fratelli. Soprattutto alle persone
consacrate è richiesta una profonda spiritualità di comunione, in modo da
essere testimoni e artefici di quel progetto di comunione che sta al vertice
della storia dell’uomo secondo Dio (VC 46).
Proprio da questo fondamentale progetto di comunione
scaturisce per tutti, anche per i consacrati, il compito della missione. La
comunione e la missione della Chiesa sono i due nomi di uno stesso incontro,
che custodisce il volto paterno di Dio e la vita fraterna e solidale dell’uomo
(Traccia n. 4). La missionarietà della Chiesa non ha altro scopo che quello di
condurre gli uomini a Gesù Cristo, attraverso la trasformazione della vita
personale e sociale. L’efficacia della evangelizzazione si fonda sulla piena
consapevolezza della presenza del Signore in mezzo ai suoi fedeli. Ma se
l’evangelizzazione non nasce dalla comunione, non vive della comunione e non porta
alla comunione, non è evangelizzazione.
Essere testimoni credibili mediante una vita rigenerata
dallo Spirito e capace di porre i segni di un’umanità e di un mondo rinnovati,
è quanto il convegno di Verona chiede anche ai religiosi. Il documento
preparatorio richiama alcune caratteristiche di questa testimonianza. Essere
memoria di Gesù fino a sentire e a fare come lui, assumendone i suoi stessi
lineamenti. Vivere nella carità, nella pienezza dell’amore. Se, come dice
Paolo, «la fede opera per mezzo della carità» (Gal 5,6), allora la
testimonianza è la fede stessa che diventa “corpo” e si fa storia nella
condivisione e nell’amore. Essere trasparenza di Cristo¸ fino a essere capaci
di dedizione e gratuità, di libertà interiore e disponibilità ecclesiale, di
creatività umana e intelligenza sociale. Un cammino di assimilazione a Cristo e
di santità. Il protagonista dell’assimilazione a Cristo è lo Spirito Santo, che
abita nel cuore dei credenti e li guida sul cammino di una vita nuova.
Solo in questo modo l’esistenza cristiana, e più ancora
quella dei consacrati, può diventare vita secondo lo Spirito, se accoglie la
sua presenza, si apre alla sua azione silenziosa e permanente, produce i suoi
frutti di comunione, matura i suoi carismi di servizio alla Chiesa e al mondo. Questo
è il cammino di santità a cui ogni credente è chiamato. Questa è l’autentica
vita spirituale capace di rispondere alla domanda di interiorità che, seppure
talora formulata in modo confuso, emerge nel nostro tempo.
La vita consacrata, fin dalle sue origini, si è configurata
come memoria evangelica della vita del Cristo. Il succedersi e l’affermarsi di
forme sempre nuove, ha fatto della vita consacrata quasi una specie di Vangelo
dispiegato nei secoli, una “speciale presenza” del Signore risorto, una “memoria
vivente” del modo di esistere e di agire di Gesù. Giustamente la società
odierna si attende di vedere nei consacrati «il riflesso concreto dell’agire di
Gesù, nel suo amore per ogni persona, senza distinzioni o aggettivi
qualificanti» (RdC 2). Ma lo potranno fare solo ponendo la spiritualità al
primo posto nella loro vita, una spiritualità «più ecclesiale e comunitaria,
più esigente e matura nel reciproco aiuto verso il raggiungimento della
santità, più generosa nelle scelte apostoliche», una spiritualità «più aperta a
diventare pedagogia e pastorale della santità all’interno della vita consacrata
e nella sua irradiazione a favore di tutto il popolo di Dio» (RdC 20).
Il nostro mondo oggi si attende dai consacrati la
testimonianza non solo di una santità personale/individuale, ma anche comunità.
La comunione, l’unità sono le vie della santità, sono la sua espressione più
autentica. Essere santi insieme. Vivere insieme è un grande segno di santità
comunitaria.
GLI AMBITI
DELLA TESTIMONIANZA
Il documento preparatorio di Verona, nella sua parte
conclusiva, enuncia gli ambiti specifici della testimonianza sui quali tutte le
realtà ecclesiali italiane sono invitate a riflettere e possibilmente anche a
far pervenire il proprio contributo. C’è, anzitutto, l’ambito della vita
affettiva, con l’invito a riflettere sulla fatica e la bellezza delle
relazioni, al di là della passione, del sentimento e dell’emozione. Segue
l’ambito del lavoro e della festa, del loro senso e delle loro condizioni
nell’orizzonte della trasformazione materiale del mondo e della relazione
sociale. Oggi non è più possibile, infatti, ignorare l’importanza della
salvaguardia dei beni ambientali, il rispetto di diritti e delle responsabilità
come capacità di prevenzione e controllo dei rischi presenti e futuri, il
recupero della solidarietà.
Il terzo ambito è quello costituito dalle forme e dalle
condizioni di esistenza in cui emerge la fragilità umana. Solo una cultura che
sa dar conto di tutti gli aspetti dell’esistenza è una cultura davvero a misura
d’uomo. Insegnando e praticando l’accoglienza del nascituro e del bambino, la
cura del malato, il soccorso al povero, l’ospitalità dell’abbandonato,
dell’emarginato, dell’immigrato, la visita al carcerato, l’assistenza
all’incurabile, la protezione dell’anziano, la Chiesa è davvero maestra
d’umanità. Ma la fragilità umana non riguarda solo le situazioni estreme. Anche
la propria esistenza quotidiana deve costantemente fare i conti con la propria
personale fragilità e con quella di quanti, in ogni ambiente umano, ci
circondano.
Un altro ambito è quello della tradizione, intesa come
esercizio del trasmettere ciò che costituisce il patrimonio vitale e culturale
della società. Si aprono qui i vasti campi della comunicazione, della
formazione, dell’educazione, della famiglia, dell’appartenenza e dell’identità
collettiva. L’ultimo ambito, infine, è quello della cittadinanza, con cui si
intende evidenziare le dimensioni dell’appartenenza e dell’impegno civile e
sociale delle persone.
Proprio partendo da questi ambiti si possono utilmente
trarre alcune conclusioni relative alla vita consacrata, chiamata, anzitutto, a
essere un segno di amore oblativo, di donazione totale, di un amore non legato
al sangue, all’appartenenza alla stessa famiglia, ma motivato unicamente da
Gesù Cristo. «Le persone consacrate, perseverando nell’apertura allo Spirito
creatore e mantenendosi nell’umile docilità, oggi sono chiamate a scommettere
sulla carità, vivendo l’impegno di un amore operoso e concreto verso ogni
essere umano» (RdC 10). Solo diventando “sacramento di Cristo e dell’incontro
con Dio”, ai consacrati si offre «la possibilità concreta e, più ancora, la
necessità insopprimibile per poter vivere il comandamento dell’amore reciproco
e quindi la comunione trinitaria” (ibid. 29). Questo comandamento sarà tanto
più efficace quanto più i consacrati riscopriranno nella propria vita il
significato dell’Ora et labora della tradizione benedettina, la centralità del
“giorno del Signore”, l’unione indissolubile di azione e contemplazione, la
fiducia nella provvidenza, la riscoperta della povertà come lavoro,
condivisione dei beni e solidarietà per la costruzione di un mondo nuovo.
Gli istituti religiosi sono sempre stati attenti alle
fragilità umane. Molti, anzi, sono nati proprio in risposta a queste fragilità.
I religiosi e religiose, infatti, da sempre vivono tra gli esclusi, si spingono
fino “alle frontiere” per amore di Cristo, facendosi “prossimi degli ultimi”,
sorretti da una nuova e grande “fantasia della carità”, ponendosi sempre a
servizio della dignità della persona umana. Anche qui, però, non basta la
carità dei singoli. È richiesta, insieme, quella delle comunità, in costante
rapporto con tutte le componenti della realtà ecclesiale.
UNA SPIRITUALITÀ
DI COMUNIONE
Un convegno come quello di Verona dovrebbe stimolare i
consacrati a riscoprire «il ricchissimo patrimonio spirituale, i molteplici
tesori di sapienza e di esperienza e la grande varietà di forme di apostolato e
di impegno missionario da condividere» con gli altri (RdC 30). I rapporti
all’interno della comunità cristiana, infatti, si vanno configurando sempre
meglio come “scambio di doni nella reciprocità e nella complementarietà”.
Soprattutto all’interno delle comunità locali si possono fare passi concreti
per far sì che la testimonianza dei valori evangelici e l’annuncio di Cristo
raggiunga le persone, plasmi le comunità, incida profondamente nella società e
nella cultura.
In riferimento, in particolare, all’ambito della
testimonianza, i consacrati, infine, hanno il compito «di tener vivo e di
testimoniare il senso della comunione tra i popoli, le razze, le culture» (RdC
29). Nella vita consacrata, infatti, è possibile favorire l’universalità con la
comunione, la capacità di radicamento e inculturazione del Vangelo,
purificando, valorizzando e assumendo le ricchezze delle culture di tutti i
popoli, perché il mondo possa camminare più decisamente verso l’unità.
Parlare di unità, nella vita consacrata, significa parlare
soprattutto di dialogo e di comunione tra carismi antichi e nuovi, nella piena
consapevolezza di poter svolgere più efficacemente, lungo e tramite la via
dell’unità, la propria missione nella Chiesa e per la Chiesa. La spiritualità
di comunione, infatti, porta ad essere “uno” in Cristo, realizzando il comandamento
nuovo, dell’amore reciproco, che genera la presenza costante di Cristo in mezzo
ai suoi. Questa spiritualità, però, per non restare illusione, domanda di
affondare le radici in Gesù crocifisso e abbandonato, la chiave più autentica
dell’unità con Dio e con i fratelli.
La spiritualità di comunione ha un “di più” biblico,
teologico e spirituale (Jésus Castellano). È un “di più” che si allarga nella
missione, fino a tessere relazioni quasi senza numero con persone, istituzioni,
comunità, popoli e cosmo, un “di più” programmatico, che diventa nuova cultura,
modo di essere, stile di vita della Trinità portato da Gesù sulla terra. Senza
questo “di più” la spiritualità di comunione rischia di non innestare la marcia
giusta, di non realizzare fino in fondo la sua mistica e la sua ascesi, la sua
pedagogia e il suo cammino costante ed aperto, di non trovare il segreto divino
della sua riuscita. È la misura stessa della comunione.
Non è possibile, però, il dinamismo abissale della
spiritualità di comunione senza questo sguardo profondo sul Crocifisso, il
vertice di una spiritualità di comunione nello Spirito Santo, che unisce gli
infiniti abissi di distanza fra Dio e l’uomo. Occorre quindi ridonare slancio,
mistero, profondità, dinamismo e generosa imitazione di risposta. Solo
contemplando il Crocifisso sarà possibile capire il “di più” che fonda e ricrea
costantemente una autentica spiritualità di comunione.
p. Manuel
Barbiero*
* Superiore provinciale dei Sacramentini. Questa sua
relazione è stata tenuta a Loppiano, in occasione di un incontro regionale dei
religiosi della Toscana in preparazione al convegno ecclesiale di Verona.