IL CONVEGNO DI VERONA E I CONSACRATI

TESTIMONI E PROFETI DEL FUTURO

 

Il documento preparatorio del convegno invita i religiosi a una riscoperta e attualizzazione del loro patrimonio spirituale, della sapienza, dell’esperienza, della grande varietà di forme di apostolato e di impegno missionario. Il “di più” biblico, teologico e spirituale su cui si fonda la spiritualità di comunione dei consacrati.

 

Il convegno ecclesiale di Verona, è un evento che si inserisce nel cammino della Chiesa nel nostro paese, scandito dagli orientamenti pastorali Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. L’obiettivo di fondo è quello di chiamare i cattolici italiani a testimoniare, con uno stile credibile di vita, Gesù risorto. È lui, infatti, come si legge nella traccia preparatoria, la fede della Chiesa, la speranza che illumina e sostiene la vita e la testimonianza dei cristiani.

Il titolo del convegno Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, contiene quattro fondamentali elementi di riferimento: la persona di Gesù, il Risorto che vive in mezzo a noi, il mondo, nella concretezza della svolta sociale e culturale della quale noi stessi siamo destinatari e protagonisti, le attese di questo mondo, che il Vangelo apre alla vera speranza che viene da Dio e l’impegno dei cristiani chiamati a essere testimoni credibili del Risorto attraverso una vita rinnovata e capace di cambiare la storia.

Il passo biblico di riferimento è la prima lettera di Pietro. Ma forse non sarebbe meno significativo e appropriato anche l’episodio della guarigione dello storpio da parte di Pietro presso la porta del tempio detta “Bella” (At 3,1-10). È un episodio che va letto in stretta connessione con quanto gli Atti riferiscono sulla vita fraterna della prima comunità cristiana.

È infatti, vivendo l’unione fraterna, la koinonia, che Pietro e Giovanni possono donare allo storpio ben più di quello che si attendeva: Gesù Cristo Risorto. In questa icona biblica sono quindi facilmente rintracciabili gli aspetti più rilevanti del convegno di Verona: Gesù il Risorto presente nella sua Chiesa; il mondo, nella figura dello storpio, con le sue attese e speranze, la comunità cristiana con uno stile di vita credibile, capace di cambiare la storia.

MEMORIA VIVENTE

DI GESÙ RISORTO

Anche se nel documento preparatorio c’è un solo riferimento esplicito alla vita consacrata, ed esattamente là dove si parla delle esperienze da porre “sul candelabro” e che sono profezia di futuro (10), non mancano, comunque, numerosi spunti in grado di sollecitare, anche da parte dei consacrati, una autentica testimonianza di Gesù risorto, speranza del mondo.

La vita consacrata, infatti, da sempre, è chiamata a “ripartire da Cristo”, ad aderire a lui «contemplando il volto crocifisso e glorioso di Cristo e testimoniando il suo amore nel mondo», ravvivando nello stesso tempo il desiderio di una più intensa vita evangelica e spalancando gli orizzonti del dialogo e della missione» (RdC 1).

Anche ai consacrati è richiesta una duplice conversione. La prima riguarda l’identità di Gesù il quale non è solo il profeta che ha “rivendicato” di essere il Figlio di Dio, ma è il Signore che, seduto alla destra del Padre, conserva le piaghe del Crocifisso e ci trasfigura con la sua carità sino alla fine. La seconda riguarda il volto della Chiesa. Vedere il Risorto significa per la comunità dei discepoli diventare Chiesa-comunione che pone il Risorto al suo centro e lo annuncia ai fratelli. Soprattutto alle persone consacrate è richiesta una profonda spiritualità di comunione, in modo da essere testimoni e artefici di quel progetto di comunione che sta al vertice della storia dell’uomo secondo Dio (VC 46).

Proprio da questo fondamentale progetto di comunione scaturisce per tutti, anche per i consacrati, il compito della missione. La comunione e la missione della Chiesa sono i due nomi di uno stesso incontro, che custodisce il volto paterno di Dio e la vita fraterna e solidale dell’uomo (Traccia n. 4). La missionarietà della Chiesa non ha altro scopo che quello di condurre gli uomini a Gesù Cristo, attraverso la trasformazione della vita personale e sociale. L’efficacia della evangelizzazione si fonda sulla piena consapevolezza della presenza del Signore in mezzo ai suoi fedeli. Ma se l’evangelizzazione non nasce dalla comunione, non vive della comunione e non porta alla comunione, non è evangelizzazione. Evangelizzare significa, in altre parole, creare e sviluppare comunione. L’evangelizzazione sviluppa il mistero di comunione proprio della vita divina. Per cui ciò che conta è il fatto che Gesù continui a essere colui che cammina nel tempo.

Essere testimoni credibili mediante una vita rigenerata dallo Spirito e capace di porre i segni di un’umanità e di un mondo rinnovati, è quanto il convegno di Verona chiede anche ai religiosi. Il documento preparatorio richiama alcune caratteristiche di questa testimonianza. Essere memoria di Gesù fino a sentire e a fare come lui, assumendone i suoi stessi lineamenti. Vivere nella carità, nella pienezza dell’amore. Se, come dice Paolo, «la fede opera per mezzo della carità» (Gal 5,6), allora la testimonianza è la fede stessa che diventa “corpo” e si fa storia nella condivisione e nell’amore. Essere trasparenza di Cristo¸ fino a essere capaci di dedizione e gratuità, di libertà interiore e disponibilità ecclesiale, di creatività umana e intelligenza sociale. Un cammino di assimilazione a Cristo e di santità. Il protagonista dell’assimilazione a Cristo è lo Spirito Santo, che abita nel cuore dei credenti e li guida sul cammino di una vita nuova.

Solo in questo modo l’esistenza cristiana, e più ancora quella dei consacrati, può diventare vita secondo lo Spirito, se accoglie la sua presenza, si apre alla sua azione silenziosa e permanente, produce i suoi frutti di comunione, matura i suoi carismi di servizio alla Chiesa e al mondo. Questo è il cammino di santità a cui ogni credente è chiamato. Questa è l’autentica vita spirituale capace di rispondere alla domanda di interiorità che, seppure talora formulata in modo confuso, emerge nel nostro tempo.

La vita consacrata, fin dalle sue origini, si è configurata come memoria evangelica della vita del Cristo. Il succedersi e l’affermarsi di forme sempre nuove, ha fatto della vita consacrata quasi una specie di Vangelo dispiegato nei secoli, una “speciale presenza” del Signore risorto, una “memoria vivente” del modo di esistere e di agire di Gesù. Giustamente la società odierna si attende di vedere nei consacrati «il riflesso concreto dell’agire di Gesù, nel suo amore per ogni persona, senza distinzioni o aggettivi qualificanti» (RdC 2). Ma lo potranno fare solo ponendo la spiritualità al primo posto nella loro vita, una spiritualità «più ecclesiale e comunitaria, più esigente e matura nel reciproco aiuto verso il raggiungimento della santità, più generosa nelle scelte apostoliche», una spiritualità «più aperta a diventare pedagogia e pastorale della santità all’interno della vita consacrata e nella sua irradiazione a favore di tutto il popolo di Dio» (RdC 20).

Il nostro mondo oggi si attende dai consacrati la testimonianza non solo di una santità personale/individuale, ma anche comunità. La comunione, l’unità sono le vie della santità, sono la sua espressione più autentica. Essere santi insieme. Vivere insieme è un grande segno di santità comunitaria.

GLI AMBITI

DELLA TESTIMONIANZA

Il documento preparatorio di Verona, nella sua parte conclusiva, enuncia gli ambiti specifici della testimonianza sui quali tutte le realtà ecclesiali italiane sono invitate a riflettere e possibilmente anche a far pervenire il proprio contributo. C’è, anzitutto, l’ambito della vita affettiva, con l’invito a riflettere sulla fatica e la bellezza delle relazioni, al di là della passione, del sentimento e dell’emozione. Segue l’ambito del lavoro e della festa, del loro senso e delle loro condizioni nell’orizzonte della trasformazione materiale del mondo e della relazione sociale. Oggi non è più possibile, infatti, ignorare l’importanza della salvaguardia dei beni ambientali, il rispetto di diritti e delle responsabilità come capacità di prevenzione e controllo dei rischi presenti e futuri, il recupero della solidarietà.

Il terzo ambito è quello costituito dalle forme e dalle condizioni di esistenza in cui emerge la fragilità umana. Solo una cultura che sa dar conto di tutti gli aspetti dell’esistenza è una cultura davvero a misura d’uomo. Insegnando e praticando l’accoglienza del nascituro e del bambino, la cura del malato, il soccorso al povero, l’ospitalità dell’abbandonato, dell’emarginato, dell’immigrato, la visita al carcerato, l’assistenza all’incurabile, la protezione dell’anziano, la Chiesa è davvero maestra d’umanità. Ma la fragilità umana non riguarda solo le situazioni estreme. Anche la propria esistenza quotidiana deve costantemente fare i conti con la propria personale fragilità e con quella di quanti, in ogni ambiente umano, ci circondano.

Un altro ambito è quello della tradizione, intesa come esercizio del trasmettere ciò che costituisce il patrimonio vitale e culturale della società. Si aprono qui i vasti campi della comunicazione, della formazione, dell’educazione, della famiglia, dell’appartenenza e dell’identità collettiva. L’ultimo ambito, infine, è quello della cittadinanza, con cui si intende evidenziare le dimensioni dell’appartenenza e dell’impegno civile e sociale delle persone.

Proprio partendo da questi ambiti si possono utilmente trarre alcune conclusioni relative alla vita consacrata, chiamata, anzitutto, a essere un segno di amore oblativo, di donazione totale, di un amore non legato al sangue, all’appartenenza alla stessa famiglia, ma motivato unicamente da Gesù Cristo. «Le persone consacrate, perseverando nell’apertura allo Spirito creatore e mantenendosi nell’umile docilità, oggi sono chiamate a scommettere sulla carità, vivendo l’impegno di un amore operoso e concreto verso ogni essere umano» (RdC 10). Solo diventando “sacramento di Cristo e dell’incontro con Dio”, ai consacrati si offre «la possibilità concreta e, più ancora, la necessità insopprimibile per poter vivere il comandamento dell’amore reciproco e quindi la comunione trinitaria” (ibid. 29). Questo comandamento sarà tanto più efficace quanto più i consacrati riscopriranno nella propria vita il significato dell’Ora et labora della tradizione benedettina, la centralità del “giorno del Signore”, l’unione indissolubile di azione e contemplazione, la fiducia nella provvidenza, la riscoperta della povertà come lavoro, condivisione dei beni e solidarietà per la costruzione di un mondo nuovo.

Gli istituti religiosi sono sempre stati attenti alle fragilità umane. Molti, anzi, sono nati proprio in risposta a queste fragilità. I religiosi e religiose, infatti, da sempre vivono tra gli esclusi, si spingono fino “alle frontiere” per amore di Cristo, facendosi “prossimi degli ultimi”, sorretti da una nuova e grande “fantasia della carità”, ponendosi sempre a servizio della dignità della persona umana. Anche qui, però, non basta la carità dei singoli. È richiesta, insieme, quella delle comunità, in costante rapporto con tutte le componenti della realtà ecclesiale.

UNA SPIRITUALITÀ

DI COMUNIONE

Un convegno come quello di Verona dovrebbe stimolare i consacrati a riscoprire «il ricchissimo patrimonio spirituale, i molteplici tesori di sapienza e di esperienza e la grande varietà di forme di apostolato e di impegno missionario da condividere» con gli altri (RdC 30). I rapporti all’interno della comunità cristiana, infatti, si vanno configurando sempre meglio come “scambio di doni nella reciprocità e nella complementarietà”. Soprattutto all’interno delle comunità locali si possono fare passi concreti per far sì che la testimonianza dei valori evangelici e l’annuncio di Cristo raggiunga le persone, plasmi le comunità, incida profondamente nella società e nella cultura.

In riferimento, in particolare, all’ambito della testimonianza, i consacrati, infine, hanno il compito «di tener vivo e di testimoniare il senso della comunione tra i popoli, le razze, le culture» (RdC 29). Nella vita consacrata, infatti, è possibile favorire l’universalità con la comunione, la capacità di radicamento e inculturazione del Vangelo, purificando, valorizzando e assumendo le ricchezze delle culture di tutti i popoli, perché il mondo possa camminare più decisamente verso l’unità.

Parlare di unità, nella vita consacrata, significa parlare soprattutto di dialogo e di comunione tra carismi antichi e nuovi, nella piena consapevolezza di poter svolgere più efficacemente, lungo e tramite la via dell’unità, la propria missione nella Chiesa e per la Chiesa. La spiritualità di comunione, infatti, porta ad essere “uno” in Cristo, realizzando il comandamento nuovo, dell’amore reciproco, che genera la presenza costante di Cristo in mezzo ai suoi. Questa spiritualità, però, per non restare illusione, domanda di affondare le radici in Gesù crocifisso e abbandonato, la chiave più autentica dell’unità con Dio e con i fratelli.

La spiritualità di comunione ha un “di più” biblico, teologico e spirituale (Jésus Castellano). È un “di più” che si allarga nella missione, fino a tessere relazioni quasi senza numero con persone, istituzioni, comunità, popoli e cosmo, un “di più” programmatico, che diventa nuova cultura, modo di essere, stile di vita della Trinità portato da Gesù sulla terra. Senza questo “di più” la spiritualità di comunione rischia di non innestare la marcia giusta, di non realizzare fino in fondo la sua mistica e la sua ascesi, la sua pedagogia e il suo cammino costante ed aperto, di non trovare il segreto divino della sua riuscita. È la misura stessa della comunione.

Non è possibile, però, il dinamismo abissale della spiritualità di comunione senza questo sguardo profondo sul Crocifisso, il vertice di una spiritualità di comunione nello Spirito Santo, che unisce gli infiniti abissi di distanza fra Dio e l’uomo. Occorre quindi ridonare slancio, mistero, profondità, dinamismo e generosa imitazione di risposta. Solo contemplando il Crocifisso sarà possibile capire il “di più” che fonda e ricrea costantemente una autentica spiritualità di comunione.

 

p. Manuel Barbiero*

* Superiore provinciale dei Sacramentini. Questa sua relazione è stata tenuta a Loppiano, in occasione di un incontro regionale dei religiosi della Toscana in preparazione al convegno ecclesiale di Verona.