PREVENIRE GLI ABBANDONI E RAFFORZARE LA
FEDELTÀ
VERITÀ E LIBERTÀ NELLA FORMAZIONE
Il problema degli abbandoni chiama in causa tutta la comunità. L’identità
carismatica, un evento sempre nuovo. L’abisso enorme tra le affermazioni
teoriche e la vita pratica. Difficoltà ed esigenze di una autentica maturità
umana, cristiana e vocazionale. Circolo continuo tra formazione iniziale e
formazione permanente.
Il fenomeno degli abbandoni nella vita
consacrata continua, giustamente, a preoccuparci. Oggigiorno non possiamo più
limitarci solo ai dati, spesso desolanti e costanti, o alle analisi. Ci
chiediamo, perché ne sentiamo la necessità, come affrontare questa situazione,
lasciando che essa interroghi la qualità della nostra vita di sequela radicale
del Signore e, quindi, della nostra formazione. Ci lasciamo interrogare, perché
riconosciamo che gli abbandoni toccano molto da vicino la nostra vita e
missione di religiosi e consacrati.1
Le letture che possiamo dare degli
abbandoni sono diverse. Tra l’altro, possiamo interpretare gli abbandoni come
il sintomo di un problema che riconosciamo e chiamiamo per nome, ma anche come
un invito a valutare seriamente le scelte valoriali e pedagogiche dei nostri
itinerari di formazione permanente e iniziale.
Con questa riflessione intendo proprio
offrire, senza soffermarmi su troppi esempi concreti, alcuni orientamenti per
formare a una vita in pienezza e, così, per quanto possibile, prevenire gli
abbandoni e rafforzare la fedeltà. Non potendo essere diversamente, considero
come presupposto che le indicazioni offerte si incarnino poi in scelte concrete
di animazione nella formazione permanente e nelle diverse tappe della
formazione iniziale.
Riguardo alla formazione permanente
ricordo, solo a titolo di segnalazione, l’importanza dell’accompagnamento
personalizzato, che deve tener presenti le diverse fasi della vita, con
particolare attenzione ai primi anni dopo la professione solenne o perpetua e,
quindi, all’inserimento nelle comunità locali e nel ministero apostolico. In
riferimento alla formazione iniziale sottolineo, invece, l’importanza di valorizzarne
le diverse tappe, mirando soprattutto alla personalizzazione del metodo e degli
itinerari. Considero, inoltre, importante una chiara opzione per
l’accompagnamento personale e per la dimensione pratica della formazione
integrale, così come la necessità di curare la qualità degli studi, in quanto
risorsa intellettuale e spirituale, che aiuterà la fedeltà vocazionale nel
corso degli anni.
GLI ABBANDONI
UN PROBLEMA DI TUTTI
La disponibilità a leggere il fenomeno
degli abbandoni come segnale di un problema interno alla vita consacrata oggi,
non può essere conseguenza di un nostro complesso di colpa, ma deve, piuttosto,
essere una possibilità di auto-formazione attraverso situazioni delicate e
difficili. Dobbiamo, infatti, riconoscere che l’uscita di un religioso dal
proprio ordine o istituto non è qualcosa che deve essere considerato solamente
in ambito privato, ma dovrebbe toccare molto in profondità tutta la comunità.
Di fronte all’abbandono di uno dei
nostri dovremmo chiederci: perché uno di noi, ad un certo punto, considera
terminato un progetto di vita che, non solo ha fatto suo nel corso degli anni,
a volte molti anni, ma che spesso ha vissuto con molta generosità? Cosa dice
alla nostra comunità un simile fatto? Questo ci può aiutare ad illuminare
alcuni aspetti per una valutazione e un recupero? Generalmente tra noi si
chiude il tema degli abbandoni come se fosse un problema esclusivo
dell’individuo.
Questa prospettiva deve essere
superata. Nessuno di noi è un’isola. Ciascuno è intimamente legato agli altri.
In una visione antropologica genuinamente cristiana la persona è capacità di
relazione, ma anche un essere in relazione. Ciò che succede ad ogni individuo
interessa, provoca e pone in questione il contesto in cui si trova. È
dall’interno di questa capacità di rapporto che guardiamo alla persona come
mistero, come “essere per l’altro”. Vista così la persona, non ci meravigliamo
che la dimensione personale e relazionale siano intimamente connesse, fino al
punto da illuminare la stessa dimensione trascendente. Di fatto, come afferma
Lévinas: «la dimensione del divino si apre a partire dal volto umano».2 Questa
prospettiva è anche profeticamente attuale in un tempo di conflitto e di
affermazioni unilaterali di identità: «Nell’età futura – il terzo millennio –
l’altro, e il suo volto, dovrà trasformarsi nel termine comprensivo di tutto,
biblicamente è il prossimo, e si svolgerà intorno a lui una cultura di pace,
cominciando a spuntare, finalmente, il Vangelo».3
Alla luce di queste considerazioni la
mia convinzione è che il fenomeno degli abbandoni possa procurarci elementi
validi per leggere con sapienza, senza cadere nell’emotività del momento,
alcuni aspetti della vita consacrata di oggi, che, senza dubbio, continua ad
attraversare «un periodo delicato e faticoso … non privo di tensioni e di
travagli» e da cui sembra difficile scorgere l’altra riva, benché non sia privo
«di speranze, di tentativi e proposte innovatrici miranti a rinvigorire la
professione dei consigli evangelici» (VC 13). Dobbiamo accettare di rimanere in
una situazione come questa, senza la pretesa di trovare soluzioni per scappare,
perché è qui che si nasconde per noi la parola che il Signore ci manda per
questo tempo. Senza l’ascesi di una simile permanenza, incontriamo solo parole
parziali, di breve durata, senza la vitalità dello Spirito che anima e rende
creativa la nostra intelligenza e la nostra volontà.4
Mentre ci interroghiamo sul fenomeno
degli abbandoni non lo facciamo con l’ingenua pretesa di trovare facili ricette
per uscire dal problema. Lo facciamo piuttosto per lasciarci purificare e
illuminare in un’ora di grande prova per noi e, pertanto, con fiducia nelle
grandi possibilità.
In questa prospettiva propongo tre
possibili ambiti di problemi riguardo al fenomeno degli abbandoni. Il primo fa
riferimento alla questione delle identità della vita consacrata, il secondo
alla differenza tra le affermazioni teoriche e la qualità della nostra vita
ordinaria e il terzo alla fragilità personale e istituzionale.
CRISI
D’IDENTITÀ
In questa sede mi limito solo a
ricordare alcune questioni centrali dell’identità carismatica della vita
religiosa, oggi più che mai urgenti. Ci rendiamo conto, in effetti, che davanti
all’evidente crisi non sono sufficienti la teologia, l’analisi sociale e neppure
la spiritualità. Siamo, almeno mi sembra, troppo preoccupati di contenere la
crisi delle nostre istituzioni ad intra e non tanto di alimentare la tensione
propria dello Spirito che ci spinge verso il futuro, ad osare di più, a partire
dall’ascolto della parola di Dio e dalla lettura dei segni dei tempi. La crisi
evidente e le nostre preoccupazioni ci fanno capire che dobbiamo andare oltre,
se non vogliamo rimanere prigionieri delle nostre analisi e delle nostre
difese. Riceviamo l’identità carismatica come un dono sempre nuovo dello
Spirito di Dio, che agisce nella vita di ciascuno, nella storia della Chiesa,
del mondo e della nostra comunità. Un dono che deve essere chiesto a Dio,
disponendosi a riceverlo. L’identità della nostra forma di vita non è tanto un
dato statico che dobbiamo difendere, ma piuttosto un evento sempre nuovo che
mai possediamo del tutto.
L’ascolto e la conoscenza diretta di
molti casi di abbandono, come la fragile appartenenza di quanti, loro malgrado,
restano, ci possono aiutare a valutare la crisi d’identità. Essa non è legata
solo ad un fatto intellettuale o di confusione sull’ortodossia della vita
consacrata, ma allo sforzo di dirigere l’identità carismatica all’interno
dell’apertura costante allo Spirito, che agisce nella nostra storia. Per alcuni
di noi in un determinato momento le domande chi sono? chi siamo? diventano
inconsistenti e incapaci di sostenere le esigenze della sequela di Cristo nella
vita consacrata. Insieme all’ortodossia viene allora compromessa anche – e io direi
soprattutto – l’ortoprassi,5 nel senso di un significato vitale e capace di
motivare una scelta radicale e definitiva in tempi di frammentazione, in tempi
brevissimi e sempre precari.
Uno dei segnali della crisi d’identità,
che tocca direttamente soprattutto la formazione permanente, è l’abisso enorme
tra lo sforzo teorico (teologia, documenti ufficiali, cammini di
rifondazione…), la verità pratica della nostra sequela di Gesù, e la creatività
concreta delle forme di vita che rispondono al nostro tempo.
Questo abisso si trasforma in qualcosa
di particolarmente problematico al termine della formazione iniziale, spesso
realizzata in ambienti molto “protetti”, quando si passa alla vita e ai servizi
ordinari delle comunità locali. È frequente il caso di non trovare più il tipo
di vita su cui ha puntato la formazione iniziale. Sembra particolarmente
difficile recuperare l’impulso e l’entusiasmo di uomini e donne appassionati di
Cristo e dell’uomo, contenti di vivere oggi, e non ieri, la propria vocazione, dotati
di un profondo senso ecclesiale per rispondere ad una vocazione che non
appartiene loro, come qualcosa di privato, perché è un dono e un segno per il
bene di tutti. Limiti personali e comunitari, infedeltà o mancanza di risposta
vocazionale, paure e chiusure in se stessi rischiano di rendere più grande
l’abisso menzionato e di indebolire la nostra significatività oggi.
Questo abisso debilita ulteriormente le
scelte, già di per sé fragili, soprattutto dal punto di vista della maturità
umana e delle scelte di fede. Ora, spesso questo indebolimento è silenzioso e
si manifesta solo quando le decisioni sono già state prese e appena …
comunicate ai responsabili! Non potrebbe essere anche questa una conseguenza di
quelle fraternità in cui la comunicazione è troppo debole e funzionale, non
sempre capace di toccare e provocare gli affetti? In effetti, come ricorda
l’istruzione La vita fraterna in comunità, «la mancanza e la povertà di
comunicazione genera di solito l’indebolimento della fraternità, per la non conoscenza
del vissuto altrui che rende estraneo il confratello e anonimo il rapporto,
oltre che creare vere e proprie situazioni di isolamento e di solitudine» (32).
FRAGILITÀ PERSONALE
E ISTITUZIONALE
Soprattutto nel mondo occidentale, ma
per ciò che conosco non solo in esso, è innegabile che la vita consacrata viva
un momento di debolezza istituzionale e personale, legato a molteplici fattori,
fra cui l’inarrestabile invecchiamento, la mancanza di nuove vocazioni, il
problema di lasciare o rinnovare strutture e opere, ecc.
Queste e altre situazioni non ci
permettono di realizzare quello che con tanta maestria mettiamo per iscritto
nei nostri documenti ufficiali: una qualità accettabile di vita di fede, di
fraternità, di missione, e la coerenza tra ciò che diciamo e ciò che facciamo.
Soffriamo, con tutto ciò, anche di una crisi di verità. Senza dubbio
l’elevatezza dei principi proclamati e delle nostre intuizioni motiva e
sostiene vocazioni che, poi, di fatto, non trovano sempre la possibilità di
vivere secondo quelle esigenze. Di nuovo ci scontriamo con una fragilità
personale, che fa venire meno le scelte, spesso private di un contesto
comunitario in grado di sostenerle. Se un tempo era possibile formare
personalità autonome e forti, capaci di affrontare ogni difficoltà, oggi
dobbiamo riconoscere il bisogno di formare per vivere non come navigatori
solitari, ma come persone capaci di entrare in relazione, di condividere e
collaborare con gli altri, oltre che di mettersi in gioco personalmente nelle
relazioni e nel lavoro.
Una conseguenza della fragilità
istituzionale è anche quella di comunicare molta insicurezza in rapporto al
futuro delle nostre comunità e della stessa vita consacrata. Dobbiamo aver
chiaro che, mentre tutta la formazione è un laboratorio in cui anticipiamo il
futuro, siamo anche chiamati a proporre non un progetto di vita in continua
discussione e rielaborazione, ma una forma di vita chiara e vitale, seguita da
un continuo processo di crescita, che presenta una visione del futuro, soprattutto
negli anni della formazione iniziale.
Lo stesso fatto di mettere in rapporto
il fenomeno degli abbandoni con alcune situazioni di malessere interno alla
vita consacrata, lungi dal chiuderci in noi stessi, dovrebbe portarci ad una
lettura autentica e umile di noi, della nostra vita, della nostra missione.
Tempi di crisi come il nostro, sono tempi in cui l’azione di Dio, del suo
Spirito, si fa più forte, proprio perché è più invisibile, debole e nascosto
rispetto al mondo. Sono questi i tempi in cui il primato della sua salvezza può
brillare con più forza e in cui l’esigenza del primato del credere sul fare può
trasformarsi in qualcosa di ancor più determinante! Le nostre stesse fragilità
possono essere, paradossalmente, qualcosa di grande aiuto e di orientamento
nella relativizzazione di ciò che non è essenziale per guardare con decisione
più avanti. È quanto ci viene detto con chiarezza in Ripartire da Cristo: «Le
difficoltà e gli interrogativi che oggi la vita consacrata vive, possono
introdurre in un nuovo kairós, un tempo di grazia. In essi si cela un autentico
appello dello Spirito Santo a riscoprire le ricchezze e le potenzialità di
questa forma di vita» (13).
Per tutti questi motivi non intendo
risolvere il problema di come prevenire gli abbandoni o le appartenenze fragili
e senza motivazioni. Sarebbe una pretesa inutile, dal momento che sia gli uni
che le altre ci saranno sempre. Più semplicemente mi chiedo: i nostri itinerari
formativi, permanenti e iniziali, di che cosa hanno bisogno per garantire una
fedeltà dinamica e creativa, capace di rispondere alla chiamata propria della
vita consacrata in tempi come i nostri, assumendone con fede e lucidità le
sfide?
Solo per comodità parlo di un triplice
livello di maturità: umana, cristiana e vocazionale, da tenere in seria
considerazione in ogni proposta formativa. È una distinzione più didattica che
reale. Nel soggetto concreto, di fatto, queste tre dimensioni le troviamo
sempre strettamente interconnesse tra loro. Già nel documento Potissimum
institutioni si affermava che «la formazione integrale della persona comporta
una dimensione fisica, morale, intellettuale e spirituale» (34). È quanto mai
importante, allora, guardare sempre alla persona in cammino verso la sua piena
maturità, cristiana e vocazionale.6
MATURITÀ
UMANA
Quando parlo di maturità umana, più che
considerarla una meta finale, la vedo come un continuo succedersi di tappe di
crescita, in un lavoro di orientamento e di completamento progressivo, nella
piena integrazione anche delle situazioni critiche che ogni persona incrocia
abitualmente nella propria vita.
Teologia e scienza dell’educazione, in
un fecondo dialogo tra loro, possono sicuramente favorire questo cammino di
formazione verso la maturità. È un cammino che, sul versante pratico, necessita
di un progetto di vita personale e comunitaria o fraterna, un progetto che
aiuti le persone consacrate a confrontare le scelte operative coscienti con gli
obiettivi e i contenuti professati.
Da questo punto di vista, in ogni età e
in ogni esperienza di vita, anche il religioso si trova in uno stato di cammino
verso la maturità proprio perché «la vita stessa segue uno sviluppo costante e
progressivo. Essa non si ferma mai. Il religioso non è chiamato e consacrato
una volta sola. La chiamata di Dio e la sua consacrazione continuano lungo
tutta la vita, in una capacità permanente di crescita e di approfondimento che
va oltre ogni nostra comprensione».7
Così compresa, la maturità varia col
variare dell’età, della struttura psichica della persona e anche in accordo con
le culture. Essa rimane come una meta che ciascuno raggiunge nel tempo e nello
spazio della propria vita, intesa come compito da realizzare in ciascuna tappa
dello svolgersi della propria esistenza, «un modo specifico d’essere, di servire
e d’amare» (VC 10). A questo proposito è importante saper sviluppare le
componenti dinamiche della crescita in un contesto comunitario e fraterno
adeguato. Solo in questo modo la fraternità in cui viviamo si trasformerà in un
«ambiente naturale del processo di crescita di tutti, ove ognuno diviene
corresponsabile della crescita dell’altro» (La vita fraterna in comunità, 43).
Grazie a questa visione dinamica della
formazione alla maturità umana sarà possibile rileggere e consolidare i nostri
itinerari formativi, in modo da favorire il cambio di mentalità da una visione
statica della fedeltà a una visione più creativa. Vorrei accennare a tre ambiti
particolari in cui perseguire più convintamene questa formazione alla maturità
umana: l’affettività e le relazioni, l’abitudine ad un lavoro costante e
creativo e l’elaborazione delle frustrazioni.
Anzitutto il mondo dell’affettività e
delle relazioni. Dovrebbe essere curato in maniera particolare, attraverso una
chiara scelta di formazione interpersonale. Non formiamo individui
autosufficienti, ma persone capaci di stare in relazione e di crescere
all’interno di esse. In questo ambito sarà importante abituarci e abituare al
metodo autobiografico. Attraverso, cioè, una rilettura della propria storia in
maniera nuova potrebbe essere più facile aprire le parti meno conosciute di noi
stessi a nuovi cammini di crescita e permettere così di riconoscere nella
propria vita i segni della presenza del Signore e della sua chiamata. Questa
rilettura diventa così una specie di apprendistato autobiografico.
L’esperienza, che l’individuo ha avuto o si è costruito si trasforma in un
“libro”, con cui il soggetto si arricchisce, aggiungendovi continuamente nuove
pagine.8 Sarà più facile, allora, riconoscere i segni buoni e quelli di crisi,
i sintomi dei momenti difficili e i doni da far fruttificare.
Spesso l’incapacità di un tale
apprendistato dalla e per la vita genera le crisi che vengono dalla scoperta
delle parti inesplorate di noi stessi. Queste provocano paura e incapacità di
leggere insieme gli eventi e le situazioni del passato in prospettiva del
futuro. Spesso anche le crisi di perseveranza vocazionale sono causate da
queste situazioni. Le persone si bloccano e non riescono a tenere unite le
diverse dimensioni della propria storia e della propria realtà profonda. Il
cammino dell’abbandono appare allora come il più facile.
L’abitudine, poi, a un lavoro costante
e creativo mi sembra un capitolo molto importante nella formazione alla
maturità. La persona esprime sé stessa attraverso l’opera delle proprie mani,
della sua intelligenza e volontà. Il lavoro, anche manuale e non solo
intellettuale, plasma la persona, la rivela e l’aiuta a maturare. Le permette
di rimanere con i piedi per terra favorendo la capacità di rimanere in contatto
con la realtà. Le permette anche di conoscere meglio i propri limiti, di
affrontare e superare le difficoltà e gli imprevisti, di educare al senso di
responsabilità e di partecipazione del proprio lavoro con gli altri, di formare
alla perseveranza quotidiana, frequentemente nascosta e povera di
gratificazioni.
Probabilmente i nostri itinerari non
tengono sufficientemente presente questa dimensione, che, insieme alle altre,
può aiutare la persona a crescere in modo più armonico, anche per affrontare
gli ostacoli che si presentano nelle diverse tappe della crescita. Già Paolo VI
ricordava come «un aspetto essenziale della vostra povertà sarà dunque quello
di attestare il senso umano del lavoro, svolto in libertà di spirito e
restituito alla sua natura di mezzo di sostentamento e di servizio» (Evangelica
Testificatio 20).
L’elaborazione delle frustrazioni,
infine, è un altro aspetto molto importante. Dall’infanzia la vita riserva per
ciascuno di noi esperienze di limite che ci mettono in questione, danneggiano
l’immagine personale e sociale che abbiamo di noi stessi, impediscono di avere
tutto ciò che desideriamo e come lo desideriamo, ecc. Se le frustrazioni non
sono riconosciute, chiamate per nome, affrontate e rielaborate, si trasformano
in vero e proprio “veleno”, che non permette alla persona di affrontare i
passaggi specifici dei diversi cicli della vita.
Le esperienze di frustrazione sono
molte anche nel corso della vita consacrata. Basti pensare all’ambito della
vita fraterna, in comunità, e dei diversi ministeri. Un’elaborazione
insufficiente o inesistente delle frustrazioni è senza dubbio alla base di
molte crisi e di molti abbandoni, soprattutto dopo i primi anni di attività
apostolica.
Proprio per questo è importante che la
formazione, fin dai primi anni, sia esigente, non necessariamente “rigida”,
così che ci sia una progressiva integrazione tra l’esigenza evangelica della
radicalità e il rispetto della libertà originaria della persona. Dovrebbe
essere anche una formazione “esperienziale”, così da riuscire,
progressivamente, a tradurre in vita ciò che si impara. Dovrebbe, ancora,
svolgersi in un clima di responsabilità e di libertà, coscienti che uno è
realmente libero solo se si assume la responsabilità di portare avanti il
proprio progetto vocazionale come persona e, nel nostro caso, come consacrato.
L’esperienza ci dice che una formazione troppo preoccupata perché il candidato
“si senta bene”, una “formazione in serra” o una formazione troppo “chiusa” non
aiuta ad affrontare le difficoltà proprie di ogni cammino umano, cristiano e
religioso.
MATURITÀ
CRISTIANA
La centralità dell’esperienza di fede,
intesa come incontro personale con il Signore, e della viva amicizia con Lui, è
essenziale per la vita consacrata. È un gradino che non può essere mai saltato
o un aspetto che non può essere mai ignorato. In tempi, come i nostri, di
scarsa trasmissione della fede in famiglia e nella comunità cristiana si deve
prestare molta attenzione ad una vera e autentica iniziazione cristiana. Il
fenomeno delle cosiddette “conversioni”, che giungono in tempi relativamente
brevi alla vita consacrata, aumenta l’esigenza di una crescita più organica
nella vita di fede, specialmente in rapporto alla dimensione ecclesiale.
Dell’esperienza di fede ricordo qui i
“pilastri” che considero fondamentali: l’ascolto obbediente della parola di Dio
contenuta nella Scrittura, nella vita e negli altri, la vita sacramentale,
soprattutto l’eucaristia, celebrata, adorata, vissuta, e la riconciliazione,
come strumento privilegiato per l’incontro profondo con sé stessi e con l’amore
salvifico di Dio. Di fronte al ritorno di un certo “devozionismo” parziale, che
tende ad isolare i contenuti della fede cristiana dai loro grandi riferimenti,
è necessario formare ad un’esperienza integrale della fede, ancorata alle
fondamenta e vissuta nel contesto della Chiesa e in comunione affettiva ed
effettiva con essa, perché la Chiesa sia il luogo in cui la fede è
testimoniata, annunciata e ricevuta, il luogo, in altre parole, dove matura e
cresce.
Se i motivi degli abbandoni o delle
appartenenze fragili sono molte volte riconducibili a motivazioni legate alla
dimensione affettiva e relazionale, non possiamo negare che la scarsa
interiorizzazione di un’autentica esperienza di fede, soprattutto in chiave personale,
influisca, spesso in maniera decisiva, nella scelta di molti di abbandonare la
vita religiosa. È come se a molti, al sopraggiungere delle diverse e
inevitabili difficoltà della vita, venisse a mancare la terra sotto i piedi.
Tutto crolla. Ora, proprio in queste situazioni la fede, invece, sostiene e
motiva il rimanere fedeli alla risposta data alla chiamata divina, permettendo
alla nostra dimensione umana di svilupparsi meglio, secondo il disegno e il
progetto di Dio scritto nella nostra storia.
Alla maturità della fede appartiene
anche un’importante coscienza missionaria, che deve essere approfondita e
alimentata lungo tutto il processo formativo fino a farla propria veramente. È
l’unico modo per evitare il rischio di una vita consacrata troppo condizionata
dalle necessità e dalle aspettative personali. Come ricordava Paolo VI: «I
religiosi, a loro volta, trovano nella vita consacrata un mezzo privilegiato
per una evangelizzazione efficace. Con la stessa intima natura del loro essere
si collocano nel dinamismo della Chiesa, assetata dell’assoluto di Dio,
chiamata alla santità. Di questa santità essi sono testimoni. Incarnano la
Chiesa in quanto desiderosa di abbandonarsi al radicalismo delle beatitudini.
Con la loro vita sono il segno della totale disponibilità verso Dio, verso la
Chiesa, verso i fratelli. In questo essi rivestono un’importanza speciale nel
contesto di una testimonianza che, come abbiamo affermato, è primordiale
nell’evangelizzazione» (Evangelii nuntiandi 69).
Nella formazione questa dimensione non
può essere trascurata o ridotta a “esperimenti”. Frequentemente
un’insufficiente maturità di questo aspetto può condurre a profonde e
preoccupanti crisi nel religioso, giovane e adulto, nel momento in cui egli
deve confrontarsi con la complessità del mondo attuale, in cui è chiamato a
incarnare l’azione pastorale della Chiesa e il suo specifico contributo.
Questa dimensione missionaria aiuterà
noi consacrati a vivere una trasformazione graduale che ci permetta di
mantenere un «vigile senso critico ma anche di fiduciosa attenzione» (VC 98)
verso i problemi del mondo contemporaneo, così da convertirci in interlocutori
idonei dell’attuale cultura e capaci di un fecondo dialogo con essa. Senza
questo apprendistato molte crisi non potranno essere evitate. Per questo
dialogo considero però fondamentale, come ho già prima indicato, un’adeguata
formazione intellettuale alle esigenze di oggi, che aiuti i religiosi,
soprattutto i più giovani, a rendere ragione della propria scelta vocazionale e
a porre il Vangelo nel cuore della cultura attuale.
MATURITÀ
VOCAZIONALE
Ho già prima ricordato la necessità di
coltivare una visione dinamica dell’identità carismatica della vita consacrata
per sostenere una fedeltà creativa. La prospettiva di una formazione alla
maturità ha ulteriormente confermato questa visione. Con queste premesse è
possibile affermare che una formazione integrale, che respiri in un orizzonte
ampio, aiuta ad accompagnare i consacrati verso un progetto di vita aperto al
futuro e capace di sostenere e alimentare la fedeltà.
In questo contesto mi riferisco a tre
punti che, a mio giudizio, sono di particolare importanza: educare alla
stabilità e al cambiamento, offrire prospettive di futuro e alimentare la
speranza, situare la vita consacrata nel mondo e nella storia.
Educare alla stabilità e al cambiamento
può sembrare una contraddizione. Penso al fatto che vivendo in tempi di
cambiamento rapidi e continui, e assumendo una visione dinamica della persona
nelle diverse tappe della vita, nella formazione potremmo correre il rischio di
trasmettere come normale il fatto che cammin facendo si possa “cambiar d’abito”
o la scelta, quando a qualcuno questo piaccia o le cose non vadano più come si
era previsto. Questo cambiamento farebbe parte di una vita che desidera essere
autentica. Probabilmente questa mentalità influisce più di quanto noi stessi
pensiamo. L’alternativa non è, senza dubbio, quella di educare le persone a
essere “impenetrabili e indistruttibili”, ma piuttosto di educarle perché siano
capaci di rimanere solide e fermamente stabili nell’essenziale, mentre, allo
stesso tempo, si è in un continuo cammino di sviluppo e di crescita.
La maturità umana e vocazionale non è
uno stato fisso che si raggiunge una volta per sempre, ma un equilibrio dinamico
di tutte le componenti della persona, che la mantengono psichicamente sana e
moralmente creativa nelle sue scelte, aperta alla crescita e anche al
cambiamento, tutte le volte che questo è sollecitato dalla realtà in cui ci
muoviamo e dalle mete che ci si propone. Sostenere un cammino come questo
aiuterà tutti ad affrontare le crisi di stabilità e le fasi di cambiamento in
maniera più creativa. Il documento Potissimum institutioni lo ricordava con
chiarezza: «La formazione continua aiuta il religioso a integrare la creatività
nella fedeltà, poiché la vocazione cristiana e religiosa richiede una crescita
dinamica e una fedeltà nelle circostanze concrete dell’esigenza. Ciò esige una
formazione spirituale interiormente unificante, ma duttile ed attenta agli avvenimenti
quotidiani della vita personale e del mondo» (67).
Offrire prospettive di futuro e
alimentare la speranza: un programma esigente in questi tempi, in cui sembra
più facile chiudersi in sé stessi per alimentare la speranza, equivale a volte
ad un suicidio! La formazione alla vita consacrata si articola in tappe
diverse. Se da una parte non si possono nascondere le difficoltà di fronte alle
quali ci si viene a trovare, dall’altra non può trasmettere il sentimento
negativo di una diffusa tendenza a leggere tutto in modo unilaterale e
problematico. Una tale lettura ci porterebbe inevitabilmente, giovani e adulti,
a perdere il senso del possibile futuro della vita consacrata e anche della
speranza come ideale, parola oggi fuori moda, per il quale, però, vale la pena
di vivere e anche di resistere nella prova. Anche se ne ignoriamo i modi e i
tempi, sappiamo, però, che è lo Spirito colui che ci spinge verso il futuro (VC
110) e che, quindi, ci sono tutti i motivi per continuare a guardare in avanti,
per continuare a “prendere il largo”.
Una vita consacrata ben situata nel
mondo e nella storia, che accetta di rimanere non ai margini ma dentro la
storia, soprattutto nei “chiostri abbandonati”, ci permette di trovare un modo
nuovo di vivere la spiritualità della nostra vita.9 La sua proposta si
trasforma così in qualcosa di più evangelicamente attraente, essendo anche più
solida la motivazione per rimanere lì. In effetti una vita consacrata che si
viva in forma parallela alle grandi questioni e sfide dell’uomo di oggi sarebbe
una “cisterna screpolata”, un pozzo da cui non si può attingere ciò che dà
senso alla vita di fede, di cui oggi c’è tanta sete.
Formare alla vita consacrata oggi non
può significare che educare a rimanere tra gli uomini e le donne del nostro
tempo, interessati a tutto ciò che è umano, segnando la differenza evangelica
del Vangelo della croce in rapporto alla mondanità proprio attraverso la
condivisione e la compassione. Penso in particolare all’importanza del tema e
della pratica del dialogo nell’attuale momento storico. Come religiosi non
possiamo sentirci esenti da questo compito. Solo una tale apertura permette che
la vita religiosa sia meno concentrata su se stessa e sui suoi problemi e più
“dis-tratta” dall’altro.10
Di fronte alla tentazione di vivere una
vita consacrata ripiegata su se stessa, lontana dal mondo quotidiano delle
persone, cercando altrove la pienezza di rapporti e di vita che qui
sembrerebbe, dobbiamo formare a una vita consacrata alimentata da una
spiritualità incarnata, capace di confessare davanti al mondo, con una vita
alternativa e grazie alla pratica generosa dei consigli evangelici, che
l’incontro con Gesù Cristo ci rende più umani.
FORMAZIONE PERMANENTE
UNA PRIORITÀ
Sintetizzando quanto sono venuto fin
qui dicendo, vorrei presentare alcune convinzioni che ritengo importanti per
formare alla vita in pienezza, prevenendo così, per quanto possibile, gli
abbandoni.
Il fenomeno degli abbandoni deve
aiutare a riflettere, con serenità e serietà, tutti gli ordini e gli istituti
e, in particolare, le fraternità o comunità locali. Non ci si dovrebbe
sottrarre a due domande fondamentali: perché un fratello se ne va? Perché noi
rimaniamo e come viviamo, noi che restiamo, la sequela di Cristo? Una
riflessione del genere potrebbe aiutarci a discernere i mezzi che riducono la
distanza tra ciò che proponiamo come ideale e ciò che realmente viviamo.
In questo contesto considero
fondamentale dare la priorità alla formazione permanente in quanto humus della
formazione iniziale. Si forma o si deforma per “contatto”. Da qui la necessità
che tutta la fraternità o comunità prenda coscienza di essere formatrice e
faccia tutto ciò che è in suo potere per esserlo. Ma questo non sarà possibile
senza un’opzione chiara e concreta in favore della formazione permanente.
Soprattutto nei primi anni dopo la professione solenne o perpetua, dopo
l’ordinazione sacerdotale la formazione permanente si dovrebbe svolgere in un
clima di responsabilità, di libertà, di familiarità per rendere possibile una comunicazione
profonda a livello di attività, di pensiero e di sentimenti.
La formazione, permanente e iniziale,
deve aiutare i consacrati a essere “persone in relazione”, capaci di offrire
collaborazione e di condivisione. Non può prescindere da alcune connotazioni
fondamentali: deve essere sempre una formazione integrale, personalizzata,
permanente, progressiva, graduale e accompagnata. Solo allora sarà favorita la
passione per Cristo e per l’umanità, in una pienezza di vita e di fedeltà.
Con queste considerazioni ho inteso
offrire semplicemente un abbozzo per iniziare un confronto e un dialogo. Ne
abbiamo assoluto bisogno se intendiamo affrontare in maniera creativa e non
puramente passiva, quasi da vittime, il fenomeno degli abbandoni. È un fenomeno
che ci inquieta, ma, insieme, ci interroga e ci spinge a trovare un ulteriore
stimolo per rimanere fedeli al dono ricevuto.
Solo se assumiamo con rinnovato vigore
la proposta di una vita consacrata veramente evangelica e profetica per il
nostro tempo, potremo dar motivo ai nostri fratelli, e a noi stessi, di
continuare a vivere oggi la sequela del Signore attraverso una vita obbediente,
povera e casta.
La persona continua ad essere un
mistero e certamente non potremo mai trovare una formula infallibile per
evitare le crisi e le decisioni dolorose. Potremo invece sempre camminare e
accompagnare i fratelli verso la verità e la libertà. La sequela del Signore
Gesù non può ridursi ad una vernice esterna ed estranea alla nostra vita più
profonda. Deve, invece, continuare ad essere il principale motivo, la ragione
ultima, della nostra speranza, per la quale possiamo ripetere con fiducia e
amore: «So infatti a chi ho creduto» (2Tim 1,12).
Fr. José Rodríguez Carballo
Ministro generale OFM
1 Relazione tenuta in occasione
dell’ultima assemblea dell’USG (cf.
2 Lévinas E, Totalidad e
Infinito, 76.
3 Mancini I., Tornino i volti,
ed. Marietti, 69.
4 Cf. Todisco O., Lo stupore
della ragione. Il pensare francescano e la filosofia moderna, Padova 2003,
132ss.
5 Cf. Bini G., L’ordine oggi.
Riflessioni e prospettive, Roma 2000, III, 1,27-28.
6 Per quel che segue cfr. Crea
G., Gli altri e la formazione di sé, EDB, Bologna 2005.
7 CIVCSVA, La vita religiosa
nell’insegnamento della Chiesa. I suoi elementi essenziali negli istituti
dediti alle opere di apostolato, 1983, n. 44.
8 Cf. Demetrio D., Manuale di
educazione degli adulti, Bari 2003, 8.
9 Cf. Maccise C., “Non ai margini
ma dentro la storia”,
10 Cfr. Ciardi F., “Ruolo della vita
consacrata in Europa oggi come ieri”,