PREVENIRE GLI ABBANDONI E RAFFORZARE LA FEDELTÀ

VERITÀ E LIBERTÀ NELLA FORMAZIONE

 

Il problema degli abbandoni chiama in causa tutta la comunità. L’identità carismatica, un evento sempre nuovo. L’abisso enorme tra le affermazioni teoriche e la vita pratica. Difficoltà ed esigenze di una autentica maturità umana, cristiana e vocazionale. Circolo continuo tra formazione iniziale e formazione permanente.

 

Il fenomeno degli abbandoni nella vita consacrata continua, giustamente, a preoccuparci. Oggigiorno non possiamo più limitarci solo ai dati, spesso desolanti e costanti, o alle analisi. Ci chiediamo, perché ne sentiamo la necessità, come affrontare questa situazione, lasciando che essa interroghi la qualità della nostra vita di sequela radicale del Signore e, quindi, della nostra formazione. Ci lasciamo interrogare, perché riconosciamo che gli abbandoni toccano molto da vicino la nostra vita e missione di religiosi e consacrati.1

Le letture che possiamo dare degli abbandoni sono diverse. Tra l’altro, possiamo interpretare gli abbandoni come il sintomo di un problema che riconosciamo e chiamiamo per nome, ma anche come un invito a valutare seriamente le scelte valoriali e pedagogiche dei nostri itinerari di formazione permanente e iniziale.

Con questa riflessione intendo proprio offrire, senza soffermarmi su troppi esempi concreti, alcuni orientamenti per formare a una vita in pienezza e, così, per quanto possibile, prevenire gli abbandoni e rafforzare la fedeltà. Non potendo essere diversamente, considero come presupposto che le indicazioni offerte si incarnino poi in scelte concrete di animazione nella formazione permanente e nelle diverse tappe della formazione iniziale.

Riguardo alla formazione permanente ricordo, solo a titolo di segnalazione, l’importanza dell’accompagnamento personalizzato, che deve tener presenti le diverse fasi della vita, con particolare attenzione ai primi anni dopo la professione solenne o perpetua e, quindi, all’inserimento nelle comunità locali e nel ministero apostolico. In riferimento alla formazione iniziale sottolineo, invece, l’importanza di valorizzarne le diverse tappe, mirando soprattutto alla personalizzazione del metodo e degli itinerari. Considero, inoltre, importante una chiara opzione per l’accompagnamento personale e per la dimensione pratica della formazione integrale, così come la necessità di curare la qualità degli studi, in quanto risorsa intellettuale e spirituale, che aiuterà la fedeltà vocazionale nel corso degli anni.

 

GLI ABBANDONI

UN PROBLEMA DI TUTTI

 

La disponibilità a leggere il fenomeno degli abbandoni come segnale di un problema interno alla vita consacrata oggi, non può essere conseguenza di un nostro complesso di colpa, ma deve, piuttosto, essere una possibilità di auto-formazione attraverso situazioni delicate e difficili. Dobbiamo, infatti, riconoscere che l’uscita di un religioso dal proprio ordine o istituto non è qualcosa che deve essere considerato solamente in ambito privato, ma dovrebbe toccare molto in profondità tutta la comunità.

Di fronte all’abbandono di uno dei nostri dovremmo chiederci: perché uno di noi, ad un certo punto, considera terminato un progetto di vita che, non solo ha fatto suo nel corso degli anni, a volte molti anni, ma che spesso ha vissuto con molta generosità? Cosa dice alla nostra comunità un simile fatto? Questo ci può aiutare ad illuminare alcuni aspetti per una valutazione e un recupero? Generalmente tra noi si chiude il tema degli abbandoni come se fosse un problema esclusivo dell’individuo.

Questa prospettiva deve essere superata. Nessuno di noi è un’isola. Ciascuno è intimamente legato agli altri. In una visione antropologica genuinamente cristiana la persona è capacità di relazione, ma anche un essere in relazione. Ciò che succede ad ogni individuo interessa, provoca e pone in questione il contesto in cui si trova. È dall’interno di questa capacità di rapporto che guardiamo alla persona come mistero, come “essere per l’altro”. Vista così la persona, non ci meravigliamo che la dimensione personale e relazionale siano intimamente connesse, fino al punto da illuminare la stessa dimensione trascendente. Di fatto, come afferma Lévinas: «la dimensione del divino si apre a partire dal volto umano».2 Questa prospettiva è anche profeticamente attuale in un tempo di conflitto e di affermazioni unilaterali di identità: «Nell’età futura – il terzo millennio – l’altro, e il suo volto, dovrà trasformarsi nel termine comprensivo di tutto, biblicamente è il prossimo, e si svolgerà intorno a lui una cultura di pace, cominciando a spuntare, finalmente, il Vangelo».3

Alla luce di queste considerazioni la mia convinzione è che il fenomeno degli abbandoni possa procurarci elementi validi per leggere con sapienza, senza cadere nell’emotività del momento, alcuni aspetti della vita consacrata di oggi, che, senza dubbio, continua ad attraversare «un periodo delicato e faticoso … non privo di tensioni e di travagli» e da cui sembra difficile scorgere l’altra riva, benché non sia privo «di speranze, di tentativi e proposte innovatrici miranti a rinvigorire la professione dei consigli evangelici» (VC 13). Dobbiamo accettare di rimanere in una situazione come questa, senza la pretesa di trovare soluzioni per scappare, perché è qui che si nasconde per noi la parola che il Signore ci manda per questo tempo. Senza l’ascesi di una simile permanenza, incontriamo solo parole parziali, di breve durata, senza la vitalità dello Spirito che anima e rende creativa la nostra intelligenza e la nostra volontà.4

Mentre ci interroghiamo sul fenomeno degli abbandoni non lo facciamo con l’ingenua pretesa di trovare facili ricette per uscire dal problema. Lo facciamo piuttosto per lasciarci purificare e illuminare in un’ora di grande prova per noi e, pertanto, con fiducia nelle grandi possibilità.

In questa prospettiva propongo tre possibili ambiti di problemi riguardo al fenomeno degli abbandoni. Il primo fa riferimento alla questione delle identità della vita consacrata, il secondo alla differenza tra le affermazioni teoriche e la qualità della nostra vita ordinaria e il terzo alla fragilità personale e istituzionale.

 

CRISI

D’IDENTITÀ

 

In questa sede mi limito solo a ricordare alcune questioni centrali dell’identità carismatica della vita religiosa, oggi più che mai urgenti. Ci rendiamo conto, in effetti, che davanti all’evidente crisi non sono sufficienti la teologia, l’analisi sociale e neppure la spiritualità. Siamo, almeno mi sembra, troppo preoccupati di contenere la crisi delle nostre istituzioni ad intra e non tanto di alimentare la tensione propria dello Spirito che ci spinge verso il futuro, ad osare di più, a partire dall’ascolto della parola di Dio e dalla lettura dei segni dei tempi. La crisi evidente e le nostre preoccupazioni ci fanno capire che dobbiamo andare oltre, se non vogliamo rimanere prigionieri delle nostre analisi e delle nostre difese. Riceviamo l’identità carismatica come un dono sempre nuovo dello Spirito di Dio, che agisce nella vita di ciascuno, nella storia della Chiesa, del mondo e della nostra comunità. Un dono che deve essere chiesto a Dio, disponendosi a riceverlo. L’identità della nostra forma di vita non è tanto un dato statico che dobbiamo difendere, ma piuttosto un evento sempre nuovo che mai possediamo del tutto.

L’ascolto e la conoscenza diretta di molti casi di abbandono, come la fragile appartenenza di quanti, loro malgrado, restano, ci possono aiutare a valutare la crisi d’identità. Essa non è legata solo ad un fatto intellettuale o di confusione sull’ortodossia della vita consacrata, ma allo sforzo di dirigere l’identità carismatica all’interno dell’apertura costante allo Spirito, che agisce nella nostra storia. Per alcuni di noi in un determinato momento le domande chi sono? chi siamo? diventano inconsistenti e incapaci di sostenere le esigenze della sequela di Cristo nella vita consacrata. Insieme all’ortodossia viene allora compromessa anche – e io direi soprattutto – l’ortoprassi,5 nel senso di un significato vitale e capace di motivare una scelta radicale e definitiva in tempi di frammentazione, in tempi brevissimi e sempre precari.

Uno dei segnali della crisi d’identità, che tocca direttamente soprattutto la formazione permanente, è l’abisso enorme tra lo sforzo teorico (teologia, documenti ufficiali, cammini di rifondazione…), la verità pratica della nostra sequela di Gesù, e la creatività concreta delle forme di vita che rispondono al nostro tempo.

Questo abisso si trasforma in qualcosa di particolarmente problematico al termine della formazione iniziale, spesso realizzata in ambienti molto “protetti”, quando si passa alla vita e ai servizi ordinari delle comunità locali. È frequente il caso di non trovare più il tipo di vita su cui ha puntato la formazione iniziale. Sembra particolarmente difficile recuperare l’impulso e l’entusiasmo di uomini e donne appassionati di Cristo e dell’uomo, contenti di vivere oggi, e non ieri, la propria vocazione, dotati di un profondo senso ecclesiale per rispondere ad una vocazione che non appartiene loro, come qualcosa di privato, perché è un dono e un segno per il bene di tutti. Limiti personali e comunitari, infedeltà o mancanza di risposta vocazionale, paure e chiusure in se stessi rischiano di rendere più grande l’abisso menzionato e di indebolire la nostra significatività oggi.

Questo abisso debilita ulteriormente le scelte, già di per sé fragili, soprattutto dal punto di vista della maturità umana e delle scelte di fede. Ora, spesso questo indebolimento è silenzioso e si manifesta solo quando le decisioni sono già state prese e appena … comunicate ai responsabili! Non potrebbe essere anche questa una conseguenza di quelle fraternità in cui la comunicazione è troppo debole e funzionale, non sempre capace di toccare e provocare gli affetti? In effetti, come ricorda l’istruzione La vita fraterna in comunità, «la mancanza e la povertà di comunicazione genera di solito l’indebolimento della fraternità, per la non conoscenza del vissuto altrui che rende estraneo il confratello e anonimo il rapporto, oltre che creare vere e proprie situazioni di isolamento e di solitudine» (32).

 

FRAGILITÀ PERSONALE

E ISTITUZIONALE

 

Soprattutto nel mondo occidentale, ma per ciò che conosco non solo in esso, è innegabile che la vita consacrata viva un momento di debolezza istituzionale e personale, legato a molteplici fattori, fra cui l’inarrestabile invecchiamento, la mancanza di nuove vocazioni, il problema di lasciare o rinnovare strutture e opere, ecc.

Queste e altre situazioni non ci permettono di realizzare quello che con tanta maestria mettiamo per iscritto nei nostri documenti ufficiali: una qualità accettabile di vita di fede, di fraternità, di missione, e la coerenza tra ciò che diciamo e ciò che facciamo. Soffriamo, con tutto ciò, anche di una crisi di verità. Senza dubbio l’elevatezza dei principi proclamati e delle nostre intuizioni motiva e sostiene vocazioni che, poi, di fatto, non trovano sempre la possibilità di vivere secondo quelle esigenze. Di nuovo ci scontriamo con una fragilità personale, che fa venire meno le scelte, spesso private di un contesto comunitario in grado di sostenerle. Se un tempo era possibile formare personalità autonome e forti, capaci di affrontare ogni difficoltà, oggi dobbiamo riconoscere il bisogno di formare per vivere non come navigatori solitari, ma come persone capaci di entrare in relazione, di condividere e collaborare con gli altri, oltre che di mettersi in gioco personalmente nelle relazioni e nel lavoro.

Una conseguenza della fragilità istituzionale è anche quella di comunicare molta insicurezza in rapporto al futuro delle nostre comunità e della stessa vita consacrata. Dobbiamo aver chiaro che, mentre tutta la formazione è un laboratorio in cui anticipiamo il futuro, siamo anche chiamati a proporre non un progetto di vita in continua discussione e rielaborazione, ma una forma di vita chiara e vitale, seguita da un continuo processo di crescita, che presenta una visione del futuro, soprattutto negli anni della formazione iniziale.

Lo stesso fatto di mettere in rapporto il fenomeno degli abbandoni con alcune situazioni di malessere interno alla vita consacrata, lungi dal chiuderci in noi stessi, dovrebbe portarci ad una lettura autentica e umile di noi, della nostra vita, della nostra missione. Tempi di crisi come il nostro, sono tempi in cui l’azione di Dio, del suo Spirito, si fa più forte, proprio perché è più invisibile, debole e nascosto rispetto al mondo. Sono questi i tempi in cui il primato della sua salvezza può brillare con più forza e in cui l’esigenza del primato del credere sul fare può trasformarsi in qualcosa di ancor più determinante! Le nostre stesse fragilità possono essere, paradossalmente, qualcosa di grande aiuto e di orientamento nella relativizzazione di ciò che non è essenziale per guardare con decisione più avanti. È quanto ci viene detto con chiarezza in Ripartire da Cristo: «Le difficoltà e gli interrogativi che oggi la vita consacrata vive, possono introdurre in un nuovo kairós, un tempo di grazia. In essi si cela un autentico appello dello Spirito Santo a riscoprire le ricchezze e le potenzialità di questa forma di vita» (13).

Per tutti questi motivi non intendo risolvere il problema di come prevenire gli abbandoni o le appartenenze fragili e senza motivazioni. Sarebbe una pretesa inutile, dal momento che sia gli uni che le altre ci saranno sempre. Più semplicemente mi chiedo: i nostri itinerari formativi, permanenti e iniziali, di che cosa hanno bisogno per garantire una fedeltà dinamica e creativa, capace di rispondere alla chiamata propria della vita consacrata in tempi come i nostri, assumendone con fede e lucidità le sfide?

Solo per comodità parlo di un triplice livello di maturità: umana, cristiana e vocazionale, da tenere in seria considerazione in ogni proposta formativa. È una distinzione più didattica che reale. Nel soggetto concreto, di fatto, queste tre dimensioni le troviamo sempre strettamente interconnesse tra loro. Già nel documento Potissimum institutioni si affermava che «la formazione integrale della persona comporta una dimensione fisica, morale, intellettuale e spirituale» (34). È quanto mai importante, allora, guardare sempre alla persona in cammino verso la sua piena maturità, cristiana e vocazionale.6

 

MATURITÀ

UMANA

 

Quando parlo di maturità umana, più che considerarla una meta finale, la vedo come un continuo succedersi di tappe di crescita, in un lavoro di orientamento e di completamento progressivo, nella piena integrazione anche delle situazioni critiche che ogni persona incrocia abitualmente nella propria vita.

Teologia e scienza dell’educazione, in un fecondo dialogo tra loro, possono sicuramente favorire questo cammino di formazione verso la maturità. È un cammino che, sul versante pratico, necessita di un progetto di vita personale e comunitaria o fraterna, un progetto che aiuti le persone consacrate a confrontare le scelte operative coscienti con gli obiettivi e i contenuti professati.

Da questo punto di vista, in ogni età e in ogni esperienza di vita, anche il religioso si trova in uno stato di cammino verso la maturità proprio perché «la vita stessa segue uno sviluppo costante e progressivo. Essa non si ferma mai. Il religioso non è chiamato e consacrato una volta sola. La chiamata di Dio e la sua consacrazione continuano lungo tutta la vita, in una capacità permanente di crescita e di approfondimento che va oltre ogni nostra comprensione».7

Così compresa, la maturità varia col variare dell’età, della struttura psichica della persona e anche in accordo con le culture. Essa rimane come una meta che ciascuno raggiunge nel tempo e nello spazio della propria vita, intesa come compito da realizzare in ciascuna tappa dello svolgersi della propria esistenza, «un modo specifico d’essere, di servire e d’amare» (VC 10). A questo proposito è importante saper sviluppare le componenti dinamiche della crescita in un contesto comunitario e fraterno adeguato. Solo in questo modo la fraternità in cui viviamo si trasformerà in un «ambiente naturale del processo di crescita di tutti, ove ognuno diviene corresponsabile della crescita dell’altro» (La vita fraterna in comunità, 43).

Grazie a questa visione dinamica della formazione alla maturità umana sarà possibile rileggere e consolidare i nostri itinerari formativi, in modo da favorire il cambio di mentalità da una visione statica della fedeltà a una visione più creativa. Vorrei accennare a tre ambiti particolari in cui perseguire più convintamene questa formazione alla maturità umana: l’affettività e le relazioni, l’abitudine ad un lavoro costante e creativo e l’elaborazione delle frustrazioni.

Anzitutto il mondo dell’affettività e delle relazioni. Dovrebbe essere curato in maniera particolare, attraverso una chiara scelta di formazione interpersonale. Non formiamo individui autosufficienti, ma persone capaci di stare in relazione e di crescere all’interno di esse. In questo ambito sarà importante abituarci e abituare al metodo autobiografico. Attraverso, cioè, una rilettura della propria storia in maniera nuova potrebbe essere più facile aprire le parti meno conosciute di noi stessi a nuovi cammini di crescita e permettere così di riconoscere nella propria vita i segni della presenza del Signore e della sua chiamata. Questa rilettura diventa così una specie di apprendistato autobiografico. L’esperienza, che l’individuo ha avuto o si è costruito si trasforma in un “libro”, con cui il soggetto si arricchisce, aggiungendovi continuamente nuove pagine.8 Sarà più facile, allora, riconoscere i segni buoni e quelli di crisi, i sintomi dei momenti difficili e i doni da far fruttificare.

Spesso l’incapacità di un tale apprendistato dalla e per la vita genera le crisi che vengono dalla scoperta delle parti inesplorate di noi stessi. Queste provocano paura e incapacità di leggere insieme gli eventi e le situazioni del passato in prospettiva del futuro. Spesso anche le crisi di perseveranza vocazionale sono causate da queste situazioni. Le persone si bloccano e non riescono a tenere unite le diverse dimensioni della propria storia e della propria realtà profonda. Il cammino dell’abbandono appare allora come il più facile.

L’abitudine, poi, a un lavoro costante e creativo mi sembra un capitolo molto importante nella formazione alla maturità. La persona esprime sé stessa attraverso l’opera delle proprie mani, della sua intelligenza e volontà. Il lavoro, anche manuale e non solo intellettuale, plasma la persona, la rivela e l’aiuta a maturare. Le permette di rimanere con i piedi per terra favorendo la capacità di rimanere in contatto con la realtà. Le permette anche di conoscere meglio i propri limiti, di affrontare e superare le difficoltà e gli imprevisti, di educare al senso di responsabilità e di partecipazione del proprio lavoro con gli altri, di formare alla perseveranza quotidiana, frequentemente nascosta e povera di gratificazioni.

Probabilmente i nostri itinerari non tengono sufficientemente presente questa dimensione, che, insieme alle altre, può aiutare la persona a crescere in modo più armonico, anche per affrontare gli ostacoli che si presentano nelle diverse tappe della crescita. Già Paolo VI ricordava come «un aspetto essenziale della vostra povertà sarà dunque quello di attestare il senso umano del lavoro, svolto in libertà di spirito e restituito alla sua natura di mezzo di sostentamento e di servizio» (Evangelica Testificatio 20).

L’elaborazione delle frustrazioni, infine, è un altro aspetto molto importante. Dall’infanzia la vita riserva per ciascuno di noi esperienze di limite che ci mettono in questione, danneggiano l’immagine personale e sociale che abbiamo di noi stessi, impediscono di avere tutto ciò che desideriamo e come lo desideriamo, ecc. Se le frustrazioni non sono riconosciute, chiamate per nome, affrontate e rielaborate, si trasformano in vero e proprio “veleno”, che non permette alla persona di affrontare i passaggi specifici dei diversi cicli della vita.

Le esperienze di frustrazione sono molte anche nel corso della vita consacrata. Basti pensare all’ambito della vita fraterna, in comunità, e dei diversi ministeri. Un’elaborazione insufficiente o inesistente delle frustrazioni è senza dubbio alla base di molte crisi e di molti abbandoni, soprattutto dopo i primi anni di attività apostolica.

Proprio per questo è importante che la formazione, fin dai primi anni, sia esigente, non necessariamente “rigida”, così che ci sia una progressiva integrazione tra l’esigenza evangelica della radicalità e il rispetto della libertà originaria della persona. Dovrebbe essere anche una formazione “esperienziale”, così da riuscire, progressivamente, a tradurre in vita ciò che si impara. Dovrebbe, ancora, svolgersi in un clima di responsabilità e di libertà, coscienti che uno è realmente libero solo se si assume la responsabilità di portare avanti il proprio progetto vocazionale come persona e, nel nostro caso, come consacrato. L’esperienza ci dice che una formazione troppo preoccupata perché il candidato “si senta bene”, una “formazione in serra” o una formazione troppo “chiusa” non aiuta ad affrontare le difficoltà proprie di ogni cammino umano, cristiano e religioso.

 

MATURITÀ

CRISTIANA

 

La centralità dell’esperienza di fede, intesa come incontro personale con il Signore, e della viva amicizia con Lui, è essenziale per la vita consacrata. È un gradino che non può essere mai saltato o un aspetto che non può essere mai ignorato. In tempi, come i nostri, di scarsa trasmissione della fede in famiglia e nella comunità cristiana si deve prestare molta attenzione ad una vera e autentica iniziazione cristiana. Il fenomeno delle cosiddette “conversioni”, che giungono in tempi relativamente brevi alla vita consacrata, aumenta l’esigenza di una crescita più organica nella vita di fede, specialmente in rapporto alla dimensione ecclesiale.

Dell’esperienza di fede ricordo qui i “pilastri” che considero fondamentali: l’ascolto obbediente della parola di Dio contenuta nella Scrittura, nella vita e negli altri, la vita sacramentale, soprattutto l’eucaristia, celebrata, adorata, vissuta, e la riconciliazione, come strumento privilegiato per l’incontro profondo con sé stessi e con l’amore salvifico di Dio. Di fronte al ritorno di un certo “devozionismo” parziale, che tende ad isolare i contenuti della fede cristiana dai loro grandi riferimenti, è necessario formare ad un’esperienza integrale della fede, ancorata alle fondamenta e vissuta nel contesto della Chiesa e in comunione affettiva ed effettiva con essa, perché la Chiesa sia il luogo in cui la fede è testimoniata, annunciata e ricevuta, il luogo, in altre parole, dove matura e cresce.

Se i motivi degli abbandoni o delle appartenenze fragili sono molte volte riconducibili a motivazioni legate alla dimensione affettiva e relazionale, non possiamo negare che la scarsa interiorizzazione di un’autentica esperienza di fede, soprattutto in chiave personale, influisca, spesso in maniera decisiva, nella scelta di molti di abbandonare la vita religiosa. È come se a molti, al sopraggiungere delle diverse e inevitabili difficoltà della vita, venisse a mancare la terra sotto i piedi. Tutto crolla. Ora, proprio in queste situazioni la fede, invece, sostiene e motiva il rimanere fedeli alla risposta data alla chiamata divina, permettendo alla nostra dimensione umana di svilupparsi meglio, secondo il disegno e il progetto di Dio scritto nella nostra storia.

Alla maturità della fede appartiene anche un’importante coscienza missionaria, che deve essere approfondita e alimentata lungo tutto il processo formativo fino a farla propria veramente. È l’unico modo per evitare il rischio di una vita consacrata troppo condizionata dalle necessità e dalle aspettative personali. Come ricordava Paolo VI: «I religiosi, a loro volta, trovano nella vita consacrata un mezzo privilegiato per una evangelizzazione efficace. Con la stessa intima natura del loro essere si collocano nel dinamismo della Chiesa, assetata dell’assoluto di Dio, chiamata alla santità. Di questa santità essi sono testimoni. Incarnano la Chiesa in quanto desiderosa di abbandonarsi al radicalismo delle beatitudini. Con la loro vita sono il segno della totale disponibilità verso Dio, verso la Chiesa, verso i fratelli. In questo essi rivestono un’importanza speciale nel contesto di una testimonianza che, come abbiamo affermato, è primordiale nell’evangelizzazione» (Evangelii nuntiandi 69).

Nella formazione questa dimensione non può essere trascurata o ridotta a “esperimenti”. Frequentemente un’insufficiente maturità di questo aspetto può condurre a profonde e preoccupanti crisi nel religioso, giovane e adulto, nel momento in cui egli deve confrontarsi con la complessità del mondo attuale, in cui è chiamato a incarnare l’azione pastorale della Chiesa e il suo specifico contributo.

Questa dimensione missionaria aiuterà noi consacrati a vivere una trasformazione graduale che ci permetta di mantenere un «vigile senso critico ma anche di fiduciosa attenzione» (VC 98) verso i problemi del mondo contemporaneo, così da convertirci in interlocutori idonei dell’attuale cultura e capaci di un fecondo dialogo con essa. Senza questo apprendistato molte crisi non potranno essere evitate. Per questo dialogo considero però fondamentale, come ho già prima indicato, un’adeguata formazione intellettuale alle esigenze di oggi, che aiuti i religiosi, soprattutto i più giovani, a rendere ragione della propria scelta vocazionale e a porre il Vangelo nel cuore della cultura attuale.

 

MATURITÀ

VOCAZIONALE

 

Ho già prima ricordato la necessità di coltivare una visione dinamica dell’identità carismatica della vita consacrata per sostenere una fedeltà creativa. La prospettiva di una formazione alla maturità ha ulteriormente confermato questa visione. Con queste premesse è possibile affermare che una formazione integrale, che respiri in un orizzonte ampio, aiuta ad accompagnare i consacrati verso un progetto di vita aperto al futuro e capace di sostenere e alimentare la fedeltà.

In questo contesto mi riferisco a tre punti che, a mio giudizio, sono di particolare importanza: educare alla stabilità e al cambiamento, offrire prospettive di futuro e alimentare la speranza, situare la vita consacrata nel mondo e nella storia.

Educare alla stabilità e al cambiamento può sembrare una contraddizione. Penso al fatto che vivendo in tempi di cambiamento rapidi e continui, e assumendo una visione dinamica della persona nelle diverse tappe della vita, nella formazione potremmo correre il rischio di trasmettere come normale il fatto che cammin facendo si possa “cambiar d’abito” o la scelta, quando a qualcuno questo piaccia o le cose non vadano più come si era previsto. Questo cambiamento farebbe parte di una vita che desidera essere autentica. Probabilmente questa mentalità influisce più di quanto noi stessi pensiamo. L’alternativa non è, senza dubbio, quella di educare le persone a essere “impenetrabili e indistruttibili”, ma piuttosto di educarle perché siano capaci di rimanere solide e fermamente stabili nell’essenziale, mentre, allo stesso tempo, si è in un continuo cammino di sviluppo e di crescita.

La maturità umana e vocazionale non è uno stato fisso che si raggiunge una volta per sempre, ma un equilibrio dinamico di tutte le componenti della persona, che la mantengono psichicamente sana e moralmente creativa nelle sue scelte, aperta alla crescita e anche al cambiamento, tutte le volte che questo è sollecitato dalla realtà in cui ci muoviamo e dalle mete che ci si propone. Sostenere un cammino come questo aiuterà tutti ad affrontare le crisi di stabilità e le fasi di cambiamento in maniera più creativa. Il documento Potissimum institutioni lo ricordava con chiarezza: «La formazione continua aiuta il religioso a integrare la creatività nella fedeltà, poiché la vocazione cristiana e religiosa richiede una crescita dinamica e una fedeltà nelle circostanze concrete dell’esigenza. Ciò esige una formazione spirituale interiormente unificante, ma duttile ed attenta agli avvenimenti quotidiani della vita personale e del mondo» (67).

Offrire prospettive di futuro e alimentare la speranza: un programma esigente in questi tempi, in cui sembra più facile chiudersi in sé stessi per alimentare la speranza, equivale a volte ad un suicidio! La formazione alla vita consacrata si articola in tappe diverse. Se da una parte non si possono nascondere le difficoltà di fronte alle quali ci si viene a trovare, dall’altra non può trasmettere il sentimento negativo di una diffusa tendenza a leggere tutto in modo unilaterale e problematico. Una tale lettura ci porterebbe inevitabilmente, giovani e adulti, a perdere il senso del possibile futuro della vita consacrata e anche della speranza come ideale, parola oggi fuori moda, per il quale, però, vale la pena di vivere e anche di resistere nella prova. Anche se ne ignoriamo i modi e i tempi, sappiamo, però, che è lo Spirito colui che ci spinge verso il futuro (VC 110) e che, quindi, ci sono tutti i motivi per continuare a guardare in avanti, per continuare a “prendere il largo”.

Una vita consacrata ben situata nel mondo e nella storia, che accetta di rimanere non ai margini ma dentro la storia, soprattutto nei “chiostri abbandonati”, ci permette di trovare un modo nuovo di vivere la spiritualità della nostra vita.9 La sua proposta si trasforma così in qualcosa di più evangelicamente attraente, essendo anche più solida la motivazione per rimanere lì. In effetti una vita consacrata che si viva in forma parallela alle grandi questioni e sfide dell’uomo di oggi sarebbe una “cisterna screpolata”, un pozzo da cui non si può attingere ciò che dà senso alla vita di fede, di cui oggi c’è tanta sete.

Formare alla vita consacrata oggi non può significare che educare a rimanere tra gli uomini e le donne del nostro tempo, interessati a tutto ciò che è umano, segnando la differenza evangelica del Vangelo della croce in rapporto alla mondanità proprio attraverso la condivisione e la compassione. Penso in particolare all’importanza del tema e della pratica del dialogo nell’attuale momento storico. Come religiosi non possiamo sentirci esenti da questo compito. Solo una tale apertura permette che la vita religiosa sia meno concentrata su se stessa e sui suoi problemi e più “dis-tratta” dall’altro.10

Di fronte alla tentazione di vivere una vita consacrata ripiegata su se stessa, lontana dal mondo quotidiano delle persone, cercando altrove la pienezza di rapporti e di vita che qui sembrerebbe, dobbiamo formare a una vita consacrata alimentata da una spiritualità incarnata, capace di confessare davanti al mondo, con una vita alternativa e grazie alla pratica generosa dei consigli evangelici, che l’incontro con Gesù Cristo ci rende più umani.

 

FORMAZIONE PERMANENTE

UNA PRIORITÀ

 

Sintetizzando quanto sono venuto fin qui dicendo, vorrei presentare alcune convinzioni che ritengo importanti per formare alla vita in pienezza, prevenendo così, per quanto possibile, gli abbandoni.

Il fenomeno degli abbandoni deve aiutare a riflettere, con serenità e serietà, tutti gli ordini e gli istituti e, in particolare, le fraternità o comunità locali. Non ci si dovrebbe sottrarre a due domande fondamentali: perché un fratello se ne va? Perché noi rimaniamo e come viviamo, noi che restiamo, la sequela di Cristo? Una riflessione del genere potrebbe aiutarci a discernere i mezzi che riducono la distanza tra ciò che proponiamo come ideale e ciò che realmente viviamo.

In questo contesto considero fondamentale dare la priorità alla formazione permanente in quanto humus della formazione iniziale. Si forma o si deforma per “contatto”. Da qui la necessità che tutta la fraternità o comunità prenda coscienza di essere formatrice e faccia tutto ciò che è in suo potere per esserlo. Ma questo non sarà possibile senza un’opzione chiara e concreta in favore della formazione permanente. Soprattutto nei primi anni dopo la professione solenne o perpetua, dopo l’ordinazione sacerdotale la formazione permanente si dovrebbe svolgere in un clima di responsabilità, di libertà, di familiarità per rendere possibile una comunicazione profonda a livello di attività, di pensiero e di sentimenti.

La formazione, permanente e iniziale, deve aiutare i consacrati a essere “persone in relazione”, capaci di offrire collaborazione e di condivisione. Non può prescindere da alcune connotazioni fondamentali: deve essere sempre una formazione integrale, personalizzata, permanente, progressiva, graduale e accompagnata. Solo allora sarà favorita la passione per Cristo e per l’umanità, in una pienezza di vita e di fedeltà.

Con queste considerazioni ho inteso offrire semplicemente un abbozzo per iniziare un confronto e un dialogo. Ne abbiamo assoluto bisogno se intendiamo affrontare in maniera creativa e non puramente passiva, quasi da vittime, il fenomeno degli abbandoni. È un fenomeno che ci inquieta, ma, insieme, ci interroga e ci spinge a trovare un ulteriore stimolo per rimanere fedeli al dono ricevuto.

Solo se assumiamo con rinnovato vigore la proposta di una vita consacrata veramente evangelica e profetica per il nostro tempo, potremo dar motivo ai nostri fratelli, e a noi stessi, di continuare a vivere oggi la sequela del Signore attraverso una vita obbediente, povera e casta.

La persona continua ad essere un mistero e certamente non potremo mai trovare una formula infallibile per evitare le crisi e le decisioni dolorose. Potremo invece sempre camminare e accompagnare i fratelli verso la verità e la libertà. La sequela del Signore Gesù non può ridursi ad una vernice esterna ed estranea alla nostra vita più profonda. Deve, invece, continuare ad essere il principale motivo, la ragione ultima, della nostra speranza, per la quale possiamo ripetere con fiducia e amore: «So infatti a chi ho creduto» (2Tim 1,12).

 

Fr. José Rodríguez Carballo

Ministro generale OFM

 

 

 1 Relazione tenuta in occasione dell’ultima assemblea dell’USG (cf. Testimoni, n. 11). Gli Atti dell’assemblea potrebbero essere pronti anche prima dell’estate.

 2 Lévinas E, Totalidad e Infinito, 76.

 3 Mancini I., Tornino i volti, ed. Marietti, 69.

 4 Cf. Todisco O., Lo stupore della ragione. Il pensare francescano e la filosofia moderna, Padova 2003, 132ss.

 5 Cf. Bini G., L’ordine oggi. Riflessioni e prospettive, Roma 2000, III, 1,27-28.

 6 Per quel che segue cfr. Crea G., Gli altri e la formazione di sé, EDB, Bologna 2005.

 7 CIVCSVA, La vita religiosa nell’insegnamento della Chiesa. I suoi elementi essenziali negli istituti dediti alle opere di apostolato, 1983, n. 44.

 8 Cf. Demetrio D., Manuale di educazione degli adulti, Bari 2003, 8.

 9 Cf. Maccise C., “Non ai margini ma dentro la storia”, Testimoni 9 (2004) 8.

10 Cfr. Ciardi F., “Ruolo della vita consacrata in Europa oggi come ieri”, Testimoni 11 (2004) 26-27.