LA CHIESA IN GIAPPONE
MISSIONE IMPOSSIBILE?
Sono molti anni che l’incapacità della Chiesa di penetrare nella vita del
paese viene denunciata, studiata e analizzata. Per la Chiesa, la fatica sta nel
trovare il suo posto all’interno di una società che, se non è refrattaria alla
fede cristiana e non la ignora, tuttavia si rivela impermeabile alle proposte
cristiane.
Il Giappone è per noi, missionari
saveriani, una missione che ci è cara, perché è stata evangelizzata da san
Francesco Saverio e anche perché è considerata da noi come la missione del
primo annuncio per eccellenza, difficile da affrontare con i metodi missionari
tradizionali. Forse per questo il Giappone ha su di me un fascino straordinario
e suscita in me un’immediata simpatia. Sono convinto che questa sia una
missione emblematica del futuro della missione e dei missionari. Ho quindi
accolto volentieri l’invito dei miei confratelli a recarmi là e ne ho
approfittato per vedere come vi evolve la missione. Ma anche da un punto di
vista umano, il Giappone mi attira, al pensiero che esso è risorto dai disastri
della seconda guerra mondiale ed è riuscito, in pochi decenni, ad affermarsi nel
mondo come una delle grandi potenze economiche, suscitando l’interesse e
l’ammirazione del mondo proprio per la sua capacità di lavorare, rinnovarsi e
continuamente rimodellarsi.1
TRANSIZIONE E SOFFERENZA
DELLA SOCIETÀ GIAPPONESE
Il Giappone, visto in fretta, come
inevitabilmente accade quando ci si reca per due settimane, sembra essere
sempre lo stesso con le sue fabbriche e i suoi templi, le sue risaie e le sue
colline coperte di cipressi sugi, le città formicolanti e i paesini con le
tipiche case giapponesi dai tetti azzurri. Osservandolo invece da vicino e
grazie alle conversazioni con confratelli che vi hanno speso una vita, mi si è
rivelato anche questa volta diverso, come un palcoscenico su cui le scene si
susseguono rapidamente: nuove costruzioni sempre più all’avanguardia,
grattacieli che svettano nel cielo, luminarie di pubblicità, fabbriche con
tecnologie innovative, quartieri radicalmente rimodellati in pochi mesi, nuove
generazioni che, mi dicono, non assomigliano alle precedenti. Il Giappone
potrebbe essere il paradigma del mondo della globalizzazione. Dopo il terremoto
di Kobe del 1995 che lo ha messo in ginocchio, il Giappone offre oggi a chi
viene il colpo d’occhio di un paese che cresce e, malgrado le crisi
energetiche, immobiliari o finanziarie, riesce a mantenere il suo posto tra i
paesi più avanzati del mondo. Ciò che più stupisce è il fatto che esso non
dispone di molte materie prime, ma solo di gente che pensa e progetta con
creatività e poi lavora con alacre tenacia.
Il Giappone è anche, e forse proprio
per questo rinnovamento permanente, un paese di grandi contrasti: sotto
l’apparenza della gentilezza e dei sorrisi, nasconde un animo forte e guerriero
con un’antica vocazione egemonica. A sessant’anni dalla fine della seconda guerra
mondiale, in Giappone si discute oggi la validità dell’art. 9 della
Costituzione che lo destina alla pace, a essere, cioè, un paese non armato e
non militarista, e i giapponesi si domandano se è giusto che il loro paese,
dopo essersi armato di nuovo, prenda parte, nel quadro della collaborazione
internazionale, alle missioni in Iraq e Afghanistan: per il mantenimento della
pace o anche per aprirsi nuovi varchi commerciali. Non rischia per caso di
imbarcarsi in una nuova avventura militarista?
La società giapponese, mi dicono
confratelli che ci vivono da molti anni, non può nascondersi il profondo
disagio che la caratterizza. Il neoliberismo economico e la corsa all’egemonia
produttiva (e non solo), insieme con il cambio valoriale nell’educazione di una
gioventù che non mette più l’accento sul rispetto degli anziani, sul dovere e
la responsabilità personale (eredità del confucianesimo), ma privilegia la
spontaneità e dichiara valore il successo personale cercato ad ogni costo,
hanno prodotto un cambio profondo nelle nuove generazioni e, di riflesso, anche
negli anziani, che si accompagna a pesanti lacerazioni culturali. Lo stile di
vita sobrio e disciplinato dei genitori che hanno ricostruito il paese, è stato
oggi soppiantato dal consumismo dei figli. Accanto al persistere dei templi e
dei riti periodici, la nuova religione del Giappone è oggi il neo-capitalismo,
i cui templi sono le banche e i centri commerciali, l’obiettivo unico il
profitto e il successo. Questa nuova cultura, ben più corrosiva della secolarizzazione,
sta creando profondi strappi nell’animo dei giapponesi di cui sono sintomo i
30.000 suicidi all’anno che da otto anni ormai sono un fatto di cui non è
possibile non tenere conto.
LA CHIESA
E LA SOCIETÀ GIAPPONESE
Chi non può sottrarsi all’impatto di
questi fenomeni è certamente la Chiesa e, nella Chiesa, i religiosi e
missionari. Per la sua missione la Chiesa sente con acutezza questi problemi
sui quali sa di dover misurare la sua capacità di «sacramento universale di
salvezza». Con l’evangelizzazione dovrebbe rispondere a questi problemi
esistenziali, ma sembra non trovare il passo giusto. Sono molti anni che
quest’incapacità di penetrare nella vita del paese viene denunciata, studiata e
analizzata, ma non è stata ancora trovata la formula in grado di interessare il
giapponese all’offerta cristiana! La Chiesa è sempre stata minoritaria e la sua
più grande fatica è quella di trovare il suo posto all’interno di una società
che, se non è refrattaria alla fede cristiana e non la ignora, tuttavia si
rivela impermeabile alle proposte cristiane.
Si dice – oggi meno che in passato –
che il prestigio della Chiesa cattolica è superiore alle sue dimensioni
numeriche, ed è probabilmente vero. Ma è altrettanto vero che la società
giapponese non si lascia trasformare e continua a vivere normalmente la sua
religiosità, più o meno formale, all’interno della tradizione religiosa
shintoista e buddista con cui sembra essere talmente omogenea da far percepire
come straniera ogni altra proposta. Forse la Chiesa cattolica farebbe bene a
togliersi di dosso il complesso d’essere straniera e guardare al coraggio con
cui si muove in Vietnam o in Corea, anche perché la paura d’essere straniera è
ingiustificata, perchè il cristianesimo è pur sempre una realtà che viene dall’alto
e/o da fuori. Il bisogno di sentirsi in armonia con la cultura locale non
dovrebbe negare la distanza che sempre separerà le attese culturali e le
proposte cristiane.
MOLTA PAZIENZA
E GRANDE UMILTÀ
Oggi la Chiesa è sollecitata a entrare
nella “nuova evangelizzazione” che Giovanni Paolo II ha promosso ovunque. Ma
incidere nella società giapponese e farla lievitare con l’annuncio evangelico e
i valori cristiani continua ad essere un impegno difficile. La missione non è
mai riuscita a varcare la soglia del 1% e i cristiani giapponesi sono appena lo
0,4%. A parte le chiese nei paesi islamici, la Chiesa giapponese è
probabilmente quella che cresce meno nell’ambito della missione ad gentes.
L’annuncio evangelico non riesce ad aprirsi un passaggio.
Per essere missionari in Giappone c’è
sempre voluta una preparazione seria, molta pazienza e una grande umiltà.
Davanti alla difficoltà di battezzare i giapponesi, la missione si è rivolta al
campo sociale (scuola e sanità) che le permette di sentirsi utile e apprezzata.
C’è un altro ostacolo che impedisce alla Chiesa di affermarsi e predicare
fruttuosamente il Vangelo ed è il fatto che in una cultura che non ama le
distinzioni concettuali chiare e distinte e privilegia invece uno stile
inclusivo che accetta ogni opinione, le posizioni, nette e precise, della
Chiesa in campo dogmatico e morale, le precludono quell’ascolto e quella
udienza di cui avrebbe bisogno.
Per questo ai missionari che lavorano
in Giappone è chiesta tanta umiltà e una pazienza a tutta prova oltre che la
capacità di resistere senza pretendere di vedere dei grandi risultati. Fino a
qualche anno fa essi hanno portato il peso dell’evangelizzazione con notevole
creatività, anche se in modo un po’ disordinato, superando il disagio dei
piccoli risultati. Oggi continuano la loro opera anche se sentono la fatica del
momento e non sono più la forza trainante della Chiesa giapponese come
nell’immediato dopoguerra e fino al concilio. Anch’essi, infatti, sono
confrontati con la rapida diminuzione del personale missionario in loco, il
calo drammatico delle vocazioni nelle chiese d’antica cristianità e la crisi
del modello missionario ad gentes.
Per ovviare a questa situazione, la
gerarchia della chiesa giapponese ha assunto delle iniziative, opportune e legittime,
in vista di realizzare sulla scorta del concilio Vaticano II una pastorale
d’insieme che coniughi il protagonismo della gerarchia, del laicato e dei
religiosi. La principale di queste iniziative pastorali si chiamava NICE,
(National Incentive Conference for Evangelization), accolta al suo apparire con
grandi, e forse esagerate speranze. Dal NICE ci si attendeva un rinnovamento
della pastorale ma, dopo un inizio promettente, si è andato spegnendo a causa
di vedute discordanti tra le comunità più aperte e quelle legate al passato.
Oggi il rapporto dei missionari con i vescovi, che in passato era regolato dal
sistema dei distretti affidati agli istituti religiosi e missionari, si è
progressivamente allentato, lasciando i missionari con l’impressione di essere
finiti al margine della programmazione pastorale e considerati come puri
prestatori d’opera. Ciò che essi chiedono oggi ai vescovi è un maggior dialogo
e una più condivisa concertazione pastorale.
La mancanza di dialogo non è,
ovviamente, un problema specifico della chiesa del Giappone. Sono poche le
chiese dove il documento Mutuae relationes (1978) è stato attuato. Nel caso
della Chiesa in Giappone, inserita in una cultura rimasta a lungo chiusa al
resto del mondo, la realizzazione delle strutture del dialogo sembra più
laboriosa che altrove e la dialettica delle diversità non riesce a superare
l’istintiva tendenza all’uniformità. In questo campo gli istituti religiosi e
missionari, all’interno dei quali sono presenti diverse nazionalità e culture,
potrebbero essere una risorsa per la chiesa locale in vista di ritrovare la sua
cattolicità e per dare spazio alla comunione e alla partecipazione, al dialogo
e alla ricerca comune, al confronto e alla dialettica dei carismi che
all’interno del Corpo di Cristo sono fonte d’arricchimento e non minaccia alla
sua unità.
Nonostante il ritardo nel dialogo e i
problemi interni degli istituti, i missionari in Giappone continuano il loro
lavoro e non hanno perso la spinta creativa che li ha sempre contraddistinti.
Oltre alla cura delle comunità cristiane sono attivi nel catecumenato, nel
dialogo interculturale e interreligioso e nella proposta cristiana esplicita e,
accanto alle opere sociali tradizionali, come le scuole da quella materna alle
università, si prendono cura dei più poveri che in Giappone sono una realtà,
anche se spesso quasi invisibile.
UNA NUOVA VITALITÀ
I CRISTIANI IMMIGRATI
In questi ultimi tempi si è verificato
un fatto nuovo, del tutto imprevisto e non programmato che ha fatto raddoppiare
le dimensioni della Chiesa, passata dallo 0,4 allo 0,8%. Questo incremento non
è dovuto alle conversioni di adulti giapponesi o ai battesimi dei figli dei
cristiani giapponesi, ma alla presenza di un numero di cristiani pari a quello
dei giapponesi che si sono recati in Giappone e che provengono principalmente
dall’America Latina. Sono dei brasiliani, peruviani, ecuadoriani e altri venuti
a cercare lavoro in questa terra. Tra i brasiliani molti sono i discendenti dei
giapponesi emigrati in Brasile che ritornano, in un certo senso, a casa loro.
La loro presenza porta certamente
un’inattesa freschezza e novità alle comunità cristiane giapponesi, ma anche
qualche problema nuovo. La Chiesa locale, infatti, deve modificare un po’ le
sue strutture e forse crearne di nuove per accoglierli e, per quanto possibile,
integrarli nelle comunità cristiane. Questo impegno per quello che abbiamo già
detto, è abbastanza problematico per la chiesa giapponese non abituata a
integrare le diversità. Essa rischia di trovarsi nel proprio seno una seconda
Chiesa oppure di far sentire questi nuovi arrivati degli estranei.
Ma sarebbe un vero peccato perdere
quest’occasione! Non sarebbe questo un campo in cui lavorare con idee e
progetti nuovi, magari utilizzando le competenze dei religiosi e dei missionari
provenienti da altri paesi e che hanno tra le loro fila dei religiosi
provenienti dall’America Latina? L’inserimento di gente nuova, che porta nuove
istanze e sensibilità diverse, non contaminate dalle esperienze passate e non
condizionate da vecchi pregiudizi, potrebbe essere non solo la risposta
all’emergenza immigrazione, ma anche una vera chance per la chiesa giapponese
che potrebbe rimetterla in moto con nuovo entusiasmo dopo tanti anni di fatica
e d’astinenza. Questo domanda però delle persone che conoscano la cultura dei
nuovi venuti e che li aiutino a entrare nella realtà della chiesa giapponese.
QUALE IL FUTURO
DI QUESTA CHIESA?
Quando si parla di rinnovare o
rilanciare la missione della Chiesa dopo un periodo di crisi o di stasi, oggi
si mette l’accento sulla sua missionarietà e si fa leva sulla forza
dell’annuncio evangelico. In realtà la missione della Chiesa si diluisce ogni
volta che la si riduce alla pur necessaria azione sociale, fatta di scuole e di
ospedali, di attenzione ai poveri e agli emarginati, se essa non è
contestualmente e chiaramente motivata con la fede nel Cristo Redentore.2 È
stata questa l’insistenza del pontificato di Giovanni Paolo II. Riuscirà la
chiesa giapponese in questo rilancio della pastorale e della missione che le è
propria, a coniugare l’azione sociale e il dialogo interreligioso con la
testimonianza esplicita e gioiosa del suo incontro con Gesù Cristo, l’azione
per l’uomo con la professione della sua fede? E noi missionari e religiosi
saremo in grado di assecondare questa scelta con un’inequivocabile scelta di
Cristo che sostenga e qualifichi la nostra attività d’evangelizzazione e di
promozione umana? Saremo capaci di essere profeti di Gesù Cristo in Giappone
senza diluire il nostro carisma in una generica presenza?
Guardando alla Chiesa del Giappone, si
ha l’impressione (che probabilmente è solo un’impressione) che il vento nuovo,
che Giovanni Paolo II ha fatto soffiare sulla Chiesa, non sia riuscito a
scuotere le comunità ecclesiali del Giappone facendo cadere dall’albero di
questa Chiesa i rami secchi del passato per preparare una nuova fioritura.
Riuscirà la proposta più pacata, ma incisiva, di Benedetto XVI a fare della
verità la forza trainante della carità, ma anche della missione apostolica e
cattolica della Chiesa in Giappone?
Gabriele Ferrari s.x.
1 Il Giappone ha una superficie di
377.837 kmq e una popolazione di 127.573.000 abitanti. La religione professata
è il buddismo e lo shintoismo. I cattolici sono in tutto 518.000 (0,41%) ,
distribuiti in 16 diocesi e 848 parrocchie e affidati alla cura pastorale di 25
vescovi, 534 sacerdoti diocesani e 1.121 sacerdoti religiosi. La comunità
cattolica è inoltre arricchita dalla presenza di 228 fratelli, 6.263 religiose,
52 missionari laici e 1.625 catechisti.
2 In Giappone sono presenti circa un
centinaio di congregazioni religiose, di cui 5 locali. La vita claustrale è
rappresentata da 5 monasteri di trappiste (con 30-60 religiose ciascuno), 9 di
carmelitane (tutti pieni) e inoltre da altri monasteri come quelli delle
clarisse, redentoriste e del Preziosissimo Sangue. A questi vanno aggiunti
anche 2 monasteri di trappisti.
Nel paese, la Chiesa è molto attiva,
soprattutto nel campo scolastico con la gestione di 559 scuole materne, 54
elementari, 98 medie inferiori, 113 medie superiori, 26 istituti universitari.
Essa gestisce inoltre anche 234 nidi d’infanzia, 192 case per anziani, 80
centri sociali per i senzatetto o per altri servizi.