IL DOVERE DI ESSERE PROFETI

NON SI PUÒ RESTARE NELL’ABITUDINE

 

Se la parola profezia è inflazionata, la realtà e i compiti che designa rimangono componenti essenziali della vita religiosa. Occorre recuperarne tutto il senso, per dare significato vero e profondo alla vita consacrata e contenuto a tante comunità religiose.

 

Risuona, da decenni ormai, nei documenti del magistero e rilanciato da tutte le assemblee dei consacrati a ogni livello, l’invito ai religiosi a essere “profeti”. Anzi l’obbligo, essendo questo attributo una qualifica peculiare del consacrato, oggi specialmente, in una società che ha estremamente bisogno di testimoni delle realtà spirituali e di voci che interpretino le realtà terrene secondo un’ottica non addomesticata alle mode e agli interessi dei poteri dominanti. Ma la parola “profeta” è inflazionata, come purtroppo tante altre, anche presso i diretti interessati, insieme a termini che, in vario modo, ne sono l’esplicitazione e il corollario: essere segno nel mondo, ricerca dell’assoluto di Dio, disponibilità totale, ardore dell’annuncio, provocazione per l’uomo indicando con la vita il primato di Dio, stare in ascolto delle esigenze attualizzate della parola di Dio, ecc.

Ma se la parola è inflazionata, la realtà e i compiti che designa rimangono come componenti essenziali della vita religiosa. Occorre recuperarne tutto il senso, per dare significato vero e profondo alla vita consacrata e contenuto a tante comunità religiose.

 

IL SENSO

DELLA PRESENZA PROFETICA

 

Una caratteristica comune ai profeti di ogni tempo – pur nella diversità delle epoche e delle questioni – è il loro inserirsi nei problemi del tempo, nella storia loro contemporanea: sono gli uomini del rinnovamento, della parola che inquieta e trasforma (inquieta per trasformare), comunicano l’esperienza di una vita vissuta in Dio, parlano in nome di Dio (“così dice il Signore”), interpretano il passato, giudicano il presente, annunciano il futuro, un futuro diverso perché preparato secondo l’ottica liberatrice di Dio. Il “religioso–profeta” realizza (cerca di realizzare) l’identikit che ne ha tracciato Benedetto XVI nel discorso del 22 maggio scorso ai superiori e superiore generali. «I consacrati e le consacrate hanno oggi il compito di essere testimoni della trasfigurante presenza di Dio in un mondo sempre più disorientato e confuso… di essere capaci di guardare questo nostro tempo con lo sguardo della fede… di guardare l’uomo, il mondo e la storia alla luce di Cristo».

Si tratta di essere «degni del nostro tempo» – come qualcuno ha scritto efficacemente – e non aspettare che «il nostro tempo sia degno di noi», che restiamo in attesa (magari rimpiangendo il passato che vediamo migliore e questo quanto più si diventa anziani) che il tempo (la gente, la cultura, la politica) venga a noi, che si “converta”. Sono stereotipi duri a morire, permangono intatti e quindi ancora operanti nella mente e nella prassi: prevalgono spesso il rimpianto e la confessione dell’impotenza. Certamente il cristiano – e il religioso in primo luogo – deve riconoscere l’inattualità perenne della fede e proprio a partire da questa consapevolezza non deve annacquare mai la forza della testimonianza, né abbassare il livello delle richieste della Parola, né avvolgere nel silenzio quello che risulta impopolare. I profeti non l’hanno mai fatto per “salvarsi” o per essere accolti nelle “dimore” delle mode e dei poteri.

Il profeta vive di una fede profonda (anche se spesso tormentata) e la fede porta ad «eliminare definitivamente dal vocabolario la parola crisi» sostituendola con il termine “travaglio”, che certamente comporta «dolorose contrazioni, ma come ogni travaglio può essere fecondo».1

Il profeta analizza il suo tempo, apprezza gli elementi positivi, tiene presente quelli negativi, ascolta le istanze, accetta le sfide ed agisce con il dinamismo della fede e della speranza, senza ricusare la sua responsabilità per il presente e il mondo. Il religioso  (come chiede il papa nel discorso citato) deve essere «capace di testimonianza e donazione totale», evitando «l’insidia della mediocrità e dell’imborghesimento». Oggi – rileva – «c’è bisogno di scelte coraggiose, a livello personale e comunitario» per essere «nel mondo segno credibile e luminoso del Vangelo e dei suoi paradossi, senza conformarsi alla mentalità di questo secolo, ma trasformandosi e rinnovando continuamente il proprio impegno».   

 

LA  FORZA 

DELLA PROFEZIA

 

Gli istituti religiosi hanno, nel loro DNA, il profetismo dei fondatori. Ma molte volte oggi esso rimane un ricordo, uno slogan, un oggetto magari di studio (anche sinceramente appassionato) ma non centro e patrimonio ispiratore e dinamico di propulsione. E così gli istituti sopravvivono, invece di vivere. O magari per “vita” intendono le riunioni e le assemblee, più o meno costitutive e rifondanti. Gli autentici profeti erano (sono) forti, tempestivi comunicatori della parola di Dio: la loro forza comunicativa derivava (deriva) dall’immersione, da una parte, nella volontà sempre ricercata di Dio, dall’altra, nell’attenzione ai problemi del loro tempo. E non al riparo delle mura e delle parole, ma dentro, con agilità continua e motivazioni sempre rinnovate e irrobustite dal contatto e dalla conoscenza. Vale a dire: operavano sporcandosi le mani, senza paura, non con discorsi durante i pranzi e le cene. E non erano gregari o sostenitori di nessuno: non si lasciavano imbrigliare dalle lusinghe, né vincere dalle minacce, né abbattere dagli insuccessi e dalle incomprensioni. Erano forti per e con la Parola che “sradica” e “costruisce”.

I profeti non esitavano a condannare, a richiamare i potenti (di turno e di ogni genere) alla giustizia, alla comprensione, all’attenzione delle esigenze vitali delle persone e della nazione e a denunciare l’uso del potere inteso come oppressione e manifestazione del proprio interesse. Senza essere propriamente corrivi, spesso i religiosi tacciono, sorridono, si inchinano ai potenti (non esclusi quelli interni) per amore della tranquillità. Si è spesso deboli, non tanto per complicità, ma per disattenzione ai grandi problemi della gente, chinati come si è sui piccoli problemi interni, troppo proni al dettato del momento e quindi non profeti proiettati avanti, spesso incapaci (anche per non essere incomodati) di leggere le realtà del tempo. A differenza del profeta, uomo nel suo tempo, anche se non del suo tempo, che illuminava con la Parola discernente e giudicatrice di Dio.

Forse talvolta i religiosi appaiono agli occhi della gente come professionisti della vita consacrata più che animati dal fuoco dello Spirito, ben protetti dalle comode dimore, partecipi alle vicende della vita quotidiana ma con quieto distacco e sapiente dosaggio.

 

SULLE STRADE 

DELLA PROFEZIA

 

L’invito a essere profeti trova nel n. 110 dell’esortazione apostolica Vita consecrata (dimenticata?) la sua sintesi e la direzione del suo svolgersi e manifestarsi. La «storia da ricordare e da raccontare» radica nella memoria del profetismo dei fondatori e nel presente della sua (cercata? mancata?) attualizzazione, mentre la «grande storia da costruire» presenta l’utopia profetica come la guida dinamica e insonne della vita degli istituti e delle comunità. Occorre guardare al futuro, il tempo della storia che occorre costruire secondo i valori del Vangelo: è qui che continuamente «lo Spirito proietta» perché, attraverso il carisma compreso nella sua potenzialità, si è sempre con lui in grado di «fare ancora cose grandi». Il fondamento della vitalità della profezia è nella «fedeltà a Cristo» e «all’uomo del nostro tempo»: sono le sintonie che radicano nella storia e la costruiscono giorno per giorno, senza interruzione e adagiamenti, con lo sguardo verso il “non ancora” del progetto di Dio. Il contributo dei religiosi è nella «trasfigurazione del mondo» che ancora attende un futuro di liberazione e redenzione, un mondo affidato alle mani dell’uomo, da edificare in modo sempre più umano e giusto quale «segno e anticipazione del mondo futuro» del quale i religiosi – con la loro vita consacrata – sono segno.

I consacrati, «da Cristo rinnovati di giorno in giorno», non possono restare nell’abitudine, nell’esistente, nel conosciuto, ma sono spronati a svolte storiche sapienti, all’individuazione delle debolezze passate e presenti, alla ricerca di rimedi ispirati spietatamente al Vangelo, alla ricognizione di strumenti ed obiettivi idonei alla loro missione profetica di annunciatori dei disegni di Dio. Il consacrato – ricorda Benedetto XVI nel citato discorso – deve «diventare una permanente confessione di fede, una inequivocabile proclamazione della verità». Come lo sono stati i profeti di ogni tempo.

 

Ennio Bianchi

 

1Cfr. le analisi e le riflessioni emerse nel sesto Forum del Progetto culturale in: A quarant’anni dal Concilio (EDB) 217.75.