UN CONTRIBUTO A RIDISEGNARE L’AUTORITÀ

LA SUPERIORA NELLA COMUNITÀ

 

Oggi, la superiora d’una comunità locale su quali aspetti del suo specifico servizio deve porre maggiore attenzione? La risposta a questo interrogativo ci giunge dal vissuto di Gesù e dalla sua parola, dai cambiamenti storico-culturali in atto. Un “decalogo” per un profilo.

 

Nell’affrontare questo tema, Il servizio della Superiora nella comunità locale, l’accento va posto nell’avverbio temporale «oggi». Perché è mutato non solo il contesto storico-sociale nel quale viviamo, ma sono mutate pure la comprensione e la realtà sia della Chiesa, centrata nell’essere «casa e scuola di comunione» (NMI 65), come della vita consacrata. Infatti, annota Vita fraterna in comunità (VFC): «Il rinnovamento di questi anni ha contribuito a ridisegnare l’autorità con l’intento di ricollegarla più strettamente alle sue radici evangeliche e quindi al servizio del progresso spirituale del singolo e della edificazione della vita fraterna nella comunità» (49).

È fondamentale, allora, tenendo presente le problematiche odierne della vita consacrata, porci la domanda: Oggi, la superiora d’una comunità locale su quali aspetti del suo specifico servizio deve porre maggiore attenzione? La risposta a questo interrogativo ci giunge dal vissuto di Gesù e dalla sua parola, dai cambiamenti storico-culturali in atto recepiti come interpellanza di Dio, dal più recente magistero gerarchico della Chiesa sulla vita consacrata, nel quale il tema di riflessione odierno trova una singolare collocazione.

Alla luce di queste fonti, ho pensato di raccogliere i contenuti della nostra riflessione odierna in un decalogo per «il servizio della superiora nella comunità locale, oggi», inserito nel mosaico della spiritualità evangelica del servizio fraterno, radicata in due proposte di vita offerteci da Gesù: «Imparate da me» (Mt 11,29); «Vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,15). Il decalogo è stato così articolato:

I° servire la comunità nel nome del Signore,

II° servire la comunità rivestita di Cristo Gesù,

III° servire la comunità facendosi icona del “buon samaritano”,

IV° servire la comunità con il “grembiule” di Gesù,

V° servire la comunità valorizzando ogni sorella e i suoi carismi,

VI° servire la comunità promovendo la corresponsabilità,

VII° servire la comunità portandola a Cristo Gesù,

VIII° servire la comunità realizzando il “sogno di Gesù”,

IX° servire la comunità promovendo “la comunione di apostolato”,

X° servire la comunità coltivando “l’ottimismo della speranza”.

Siamo tutti consapevoli, annota VFC, che non è facile, in tempi e in ambienti fortemente segnati dall’individualismo, far riconoscere e accogliere la funzione che l’autorità è chiamata a svolgere a vantaggio di tutti. Si deve, però, riaffermare che «nelle comunità religiose, l’autorità, alla quale si deve attenzione e rispetto anche in virtù dell’obbedienza professata, è posta al servizio della fraternità, della sua costruzione, del raggiungimento delle sue finalità spirituali e apostoliche» (48).

 

IL DECALOGO

DEL BUON GOVERNO

 

I° - Servire la comunità nel nome del Signore

 

Servire la comunità nel nome del Signore significa innanzitutto avere piena e radicata consapevolezza che la comunità è una realtà di Dio (VFC 12), una sua “costruzione”, generata dalla sua iniziativa personale e gratuita. Infatti, è Dio che l’ha edificata – e continua a edificarla – in un gesto di amore sconfinato, mettendo insieme le sorelle tramite la chiamata alla vita consacrata rivolta a ciascuna di loro nella propria specifica originalità biopsichica-storica-culturale e tramite la professione religiosa. Di conseguenza, in quanto proprietà e opera del Signore, la comunità va accolta-venerata-amata-servita per questa sua “identità mistica”, non per come vive e opera.

Servire la comunità nel nome del Signore significa avere piena e radicata consapevolezza che la comunità, realtà del Signore, è stata da lui affidata anche e necessariamente al servizio specifico della superiora. La comunità è un dono di Dio consegnato alle sue cure materne. Pertanto, la superiora non è proprietaria della comunità, ma serva del Signore che si prende cura di questa sua piccola vigna per farla crescere e fruttificare nel suo nome, custodendola dal Maligno, seminatore di zizzania (Mt 13,24-30). Di conseguenza, occorre che la superiora non si lasci aggredire da alcune tentazioni sempre in agguato, quali:

– l’autoritarismo, cioè la tendenza a impadronirsi della comunità, agendo come una “superiora-padrona” nei suoi confronti e nei confronti delle singole sorelle. Se così fosse, sarebbe questa un’appropriazione indebita della piccola vigna del Signore, che la renderebbe simile ai servi malvagi della parabola (Mt 21, 33-43).

– Il porsi come “poliziotta della comunità”, con la pretesa di essere onnipresente in essa, di controllare minuziosamente tutto e tutti. Questo atteggiamento, oltre a confondere il servizio evangelico con il metodo poliziesco, produce facilmente nelle sorelle la dissimulazione, la resistenza interiore e, a volte, anche la ribellione aperta.

– L’impazienza, generata dalla pretesa di vedere cambiamenti rapidi nel vissuto della comunità e delle singole sorelle. L’impazienza si contrappone alla legge della gradualità nella progressività, propria della struttura umana e dell’agire di Dio.

– Il lasciar correre, tacendo di fronte a situazioni bisognose del suo intervento per non complicarsi la vita, adducendo la motivazione “tanto nulla cambierà”. Cadere in questa tentazione porta lentamente allo sfascio della comunità e all’infedeltà del proprio specifico servizio.

– L’abdicazione al proprio compito di prima responsabile della comunità, quale guida delle sorelle nel cammino spirituale e apostolico. Lasciarsi ammanettare da questa tentazione significa dare spazio: alla dittatura dei forti a discapito dei deboli, rendendo se stesse e la comunità succubi di qualche sorella che si pone come una “superiora illegale”, la vera “autorità” di fatto; alle “consumatrici/sfruttatrici di comunità” all’insegna della conclamata “realizzazione personale”, vero mito dei nostri tempi1; alla «frantumazione della vita comunitaria, che tende inevitabilmente a privilegiare i percorsi individuali e contemporaneamente ad oscurare il ruolo dell’autorità, ruolo necessario anche per la crescita della vita fraterna nella comunità, oltre che per il cammino spirituale della persona consacrata» (VFC 48).

 

II° - Servire la comunità rivestita di Cristo Gesù

 

Afferma Ripartire da Cristo (RDC): «Il cammino che la vita consacrata è chiamata a intraprendere all’inizio del nuovo millennio è guidato dalla contemplazione di Cristo, con lo sguardo «più che mai fisso sul volto del Signore» (23) allo scopo di rendere la vita quanto più è possibile un riflesso del suo volto. Ora, nessuno quanto la superiora, per il suo specifico ruolo nella comunità, è chiamata a essere nel rapporto quotidiano con le sorelle una icona, quanto più è possibile trasparente, del volto di Cristo Gesù, accogliendo l’esortazione di s. Paolo indirizzata ai romani: “Rivestitevi del Signore Gesù Cristo” (Rm 13,14). Ciò implica far propri gli atteggiamenti e i comportamenti fondamentali di Cristo Gesù nel suo rapportarsi con le persone, resi manifesti nei suoi molteplici e vari incontri con loro, i quali altro non sono che «una scuola cristica di relazione interpersonale», che matura un’autentica esperienza di servizio evangelico alla comunità e alle sorelle. Di questi incontri dobbiamo essere appassionati apprendisti. Pertanto, questi molteplici e vari incontri evangelici di Gesù vanno collocati al centro del proprio servizio autoritativo per apprendere da lui come relazionarsi con le sorelle affidate alla propria cura amorevole. Questo mettersi alla scuola di Gesù altro non è che una risposta di fedeltà al suo invito rivolto ai discepoli: “Imparate da me” (Mt 11,29)… “Vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,15). Al di dentro di questa risposta, oggi si rende particolarmente urgente per la superiora l’assunzione di alcuni tratti del volto di Gesù, rivelato nei suoi incontri con le persone.

– Servire la comunità con lo sguardo di Cristo Gesù. È uno sguardo che porta a vedere sul volto di Gesù il volto di ogni sorella e sul volto di ogni sorella quello di Gesù (RDC 23). Noi che conosciamo fin troppo bene quei volti... tante volte siamo incapaci di riconoscerlo in essi come i discepoli di Emmaus, poiché non abbiamo avvertito in essi la sua presenza visibile (Lc 12,54-56). Necessitiamo di farci occhi nuovi per vederlo in tutti i volti delle sorelle.

– A vedere primariamente il bene nel vissuto delle sorelle, non il male. In proposito, significativa è la parabola del grano e della zizzania in Mt 13,24-30.

Lo sguardo del padrone è puntato primariamente sul grano, il bene nel campo, che è la vita di ciascuno e della comunità; lo sguardo dei servi è puntato primariamente sulla zizzania, che, mossi da zelo intempestivo, vorrebbero immediatamente sradicare. C’è un modo diverso di guardare nel campo (cioè nella vita delle sorelle, della comunità). Tutto dipende dall’occhio con cui si guarda il campo. C’è chi vede in esso primariamente il male. Ma c’è chi, senza ignorare il male presente, riesce a scorgere innanzitutto il bene. La superiora particolarmente non deve specializzarsi nel cogliere l’opera di satana nel vissuto delle singole sorelle e della comunità, ma l’azione di Dio e valorizzarla. È più facile denunciare il male che educare al bene. È più facile protestare di fronte al male, che darsi da fare per impedirne la seminagione nei cuori.

A porsi davanti a tutte le sorelle con uno sguardo di vita, di fiducia, di speranza, non di sfiducia e di condanna. Emblematici gli sguardi di Gesù su Zaccheo (Lc 19,1-10), sulla samaritana (Gv 4,5-42), sulla donna adultera (Gv 8,1-11).

 

– Servire la comunità con l’accoglienza di Cristo Gesù. Si tratta di far proprio l’invito di Paolo indirizzato ai romani: “Accoglietevi gli uni gli altri come Cristo ha accolto noi per la gloria di Dio” (Rom 15,7). Solo a partire dall’accoglienza di Gesù nei propri confronti si può comprendere e realizzare l’accoglienza fraterna, che come dono ricevuto da Gesù va offerto alle sorelle. Non va dimenticato che l’accoglienza è l’atteggiamento primordiale e più fecondo della relazione fraterna, perciò il cuore del vivere insieme2. Infatti, l’accoglienza: tocca l’interiorità della persona prima ancora del suo gesto; crea vicinanza, perciò immette nella spontaneità della relazione, distruggendo ogni estraneità; abbatte ogni steccato divisorio tra persona e persona, superando pregiudizi, discriminazioni, paure, diffidenze, sospetti, distanze e indifferenza; rende pronti ad accogliere l’altro per quello che ciascuno è, senza “giudicarlo” (Mt 7,1-2), come persona umana, non per il suo temperamento, per la sua mentalità, per il suo vissuto, per quello che fa, per la stima che riceve, per i ruoli comunitari che ricopre. Si tratta di offrire a ogni sorella l’ospitalità del cuore, assunta come modalità attraverso cui mostrare il volto “accogliente” di Gesù.

 

– Servire la comunità con la disponibilità all’ascolto e al dialogo. Il Gesù del Vangelo è davvero un maestro nell’ascolto e nel dialogo con le persone. Ascolto e dialogo sono due atteggiamenti ineliminabili nel servizio autoritativo, particolarmente oggi, poiché sempre più cresce, anche nelle comunità religiose, la sofferenza della solitudine, che può sfociare nel solipsismo.3

 

– Servire la comunità amandola con il cuore di Cristo. Si tratta di assumere “il suo modo di amare” comunicato “mediante l’effusione dello Spirito” (Rm 5,5). Ciò domanda di vivere un amore alle sorelle che porti i lineamenti dell’amore di Gesù a noi, i cui tratti qualificanti sono: l’universalità, cioè un amore rivolto a ogni sorella senza esclusione alcuna, perciò scevro da qualsiasi particolarismo; la personalizzazione, cioè un amore coinvolgente ogni singola sorella nella totalità della sua vivente originalità e rispondente alla sua situazione complessiva; la concretezza, cioè un amore che si esprime non solo in un atteggiamento interiore, ma si incarna in gesti concreti, esprimendo la capacità di “prendersi cura dell’altro”; la creatività, cioè un amore che inventa, di situazione in situazione, le modalità più adeguate per esprimersi; la gratuità, cioè un amore che viene offerto libero da calcoli egoistici, dalla ricerca di propri interessi, da qualsiasi pretesa di riconoscimento e di ricompensa (cf. Mt 1,8); la libertà, cioè un amore che non si lega a nessuno, perciò è svincolato dal potere di qualsiasi condizionamento interiore ed esteriore (es. incapacità strutturale psico-affettiva, possessività, psicodipendenza, interesse, ecc.). In proposito, mi colpisce sempre, e tengo sempre presente, quanto scritto da san Giovanni su Gesù nell’ultima cena: “avendo amato i suoi, li amò sino alla fine” (Gv 13,1). Com’erano questi suoi?

 

III° - Servire la comunità facendosi icona del “buon samaritano” (Lc 10, 29-37)

 

Annota VFC: anche nelle nostre comunità si trovano sorelle disadattate che portano con sé ferite psicologiche che incidono nel loro comportamento relazionale, sorelle «che soffrono, che non si trovano a loro agio nella comunità, che sono quindi motivo di sofferenza per tutte e perturbano la vita comunitaria» (38), sorelle difficili da gestire e di pessime relazioni interpersonali. Anche nel vissuto delle nostre comunità si rileva la presenza di incomprensioni, gelosie, antipatie, che si riflettono in comportamenti reattivi e disadattivi, quali il senso di persecuzione (“ce l’hanno tutti con me”), il senso di colpa diffuso (“io sono la causa di tutto”), il mutismo (“non parla più con nessuno e non sappiamo il perché”), il catastrofismo (“in questa comunità non c’è nulla che funzioni”), il cattedratticismo (“la verità è solo la mia”), l’atteggiamento inquisitorio (“la ricerca di colpe nella vita delle sorelle), il “padronismo” (“nulla si può fare contro la sua sensibilità o volontà)… Sono comportamenti che incidono negativamente sul vissuto comunitario. E ogni età può conoscere simili comportamenti per l’intervento o di fattori esterni (cambio di posto o di ufficio, insuccesso nel lavoro apostolico, incomprensione, emarginazione, ecc.) o di fattori più strettamente personali (malattia fisica o psichica, fragilità psicologiche, disagi interiori, anomalie temperamentali,4 aridità spirituale, lutti, problemi di rapporti interpersonali, crisi di fede o di identità, sensazione di insignificanza, ecc.).5

So bene quanto sia difficile avvicinare alcune sorelle per un dialogo aperto o per instaurare una relazione fiduciosa; conosco quanto sia pesante varcare qualche porta per offrire un segno o una parola di fraterna attenzione o di sincero affetto verso coloro che si mostrano restii all’accoglienza, al dialogo, ai sentimenti; so bene quanto sia impopolare talvolta cominciare a ritessere nuovi rapporti tra sorelle che serbano in cuore l’amarezza dell’offesa, del risentimento, della disistima... Ma c’è un bene troppo grande e vitale per lasciarlo incustodito: la sanità della sorella “incappata nei ladroni”. La superiora non può non prendersi a cuore queste situazioni personali di sorelle ferite, accogliendo l’invito di Gesù: “Va’ e anche tu fa’ lo stesso” (Mt 10,37), offrendo loro il sostegno di una maggiore fiducia e di un più intenso amore. La superiora non può non muovere i primi passi per il superamento di chiusure e isolamenti personali, di tensioni o conflitti comunitari, promovendo l’accoglienza reciproca, la riconciliazione fraterna (Perfectae caritatis 15a) che rende possibile l’andare oltre i conflitti, trasformandoli in fonte di crescita, il “portare i pesi gli uni degli altri” (Gal 6,2), il coltivare alcune qualità richieste nella relazione umana, quale «educazione, gentilezza, sincerità, controllo di sé, delicatezza e la fiducia reciproca, la capacità di dialogo, l’adesione sincera ad una benefica disciplina comunitaria» (VFC 27).

 

IV° - Servire la comunità con il “grembiule” di Gesù

 

Servire la comunità con il grembiule di Gesù altro non è che accogliere e vivere il suo invito rivolto ai discepoli dopo aver lavato loro i piedi nell’ultima cena con il grembiule addosso: “Se io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato, infatti, l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,14-15)”. Lavare i piedi era il gesto dello schiavo, il totalmente posto a servizio del padrone. Gesù compie questo gesto per notificare la sua totale disponibilità nei nostri confronti. Ora, nella comunità, nessuna quanto la superiora è chiamata a mettersi “il grembiule” per lavare i piedi alle sorelle facendosi la schiava loro, cioè la totalmente messa a loro servizio (Mt 20,25-28)… un servizio offerto senza alcuna discriminazione come ha fatto Gesù. Infatti, Gesù ha compiuto la lavanda dei piedi nei confronti di tutti i discepoli: ha lavato i piedi di coloro che lo avrebbero abbandonato nel momento drammatico della sua vita; ha lavato i piedi di Pietro che lo avrebbe rinnegato in un momento di debolezza; ha lavato i piedi di Giovanni, il discepolo che gli è stato fedele; ha lavato i piedi di Giuda, che, tradendolo, lo avrebbe venduto per una somma di denaro. Si tratta, quindi, di stare in mezzo alle sorelle come Gesù è stato in mezzo a noi: “Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27), poiché “il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire” (Mt 20,28).

Mai come oggi il servizio evangelico dell’autorità chiede alla superiora di mettersi il grembiule di Gesù, rendendo la propria vita un offertorio vivente per la comunità. Ovviamente, ciò è fattibile tanto più quanto maggiormente la superiora è conquistata dalla parola di Gesù: “fate questo in memoria di me”, cioè fate questo per rendermi presente alle sorelle come il Gesù che lava loro i piedi, vale a dire come il totalmente posto a loro disposizione. Ho presente l’esortazione di san Francesco rivolta ai superiori: «Quelli che sono costituiti in autorità sopra gli altri, tanto si glorino del loro ufficio come se fossero incaricati di lavare i piedi dei fratelli» (FF 152).

V° - Servire la comunità valorizzando ogni persona e i suoi carismi

Questo aspetto del servizio autoritativo implica concretamente:

– il riconoscimento effettivo che ciascun componente possiede una sua identità di persona, originale, inconfondibile e irrepetibile, perciò inalienabile e inviolabile, poiché l’esistenza di ognuno è un evento unico ed esclusivo!

– Il rispetto fattivo dell’identità di ciascuno (cf. Vita consecrata 40b), che domanda il superamento di una duplice tentazione sempre insorgente: la pretesa di ridurre l’altro a propria immagine e somiglianza, adattandolo alle proprie aspettative e scordando, così, che Dio ha fatto, e continua a fare, l’altro a sua immagine6 (= deve pensare come penso io, deve sentire come sento io, deve avere la mia mentalità, i miei gusti, ecc.); vivere l’altro come un “ben conosciuto”, che toglie ogni fiducia-ogni speranza-ogni stupore.

– La venerazione di ogni sorella, poiché venerare vuol dire non solo e non tanto rispettare la sua dignità umana, quanto rispettare il suo essere immagine di Dio, figlia di Dio, configurata a Cristo Gesù, amata da Dio (Gv 16,27).

– L’apporto, dato con amore, perché ogni componente della comunità dia la propria risposta a Dio in modo autentico e profondo, valorizzando la sua originalità e stimolandola a mettere i carismi ricevuti dal Signore a servizio della comunità in fedeltà all’esortazione di san Pietro: “Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio degli altri, come buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio”(1Pt 4,10). In proposito, non si può dimenticare quanto afferma Lavelle: «il più grande bene che noi possiamo fare agli altri non è tanto il comunicare loro la nostra ricchezza, quanto il rivelare a loro la propria».

VI° - Servire la comunità promovendo la corresponsabilità

Noi sappiamo che la comunità religiosa è dono del Signore, fatto a ciascun componente, affidato al suo cuore. Infatti, essa è una comunità di fratelli/sorelle, che non si sono cercati, non si sono scelti, non si sono chiamati, ma sono «reciprocamente donati dal Signore; reciprocamente accolti e consegnati nel nome del Signore»,7 costituendo «una vera famiglia adunata nel nome del Signore» (cf. VFC 8 e 44; Religiosi e promozione umana 25). Pertanto, la crescita di ciascuno e di tutti insieme nell’esperienza della vita consacrata è un evento consegnato all’apporto e alla responsabilità di tutti,8 per cui a ciascuno «è richiesta una partecipazione convinta e personale alla vita e alla missione della propria comunità» (RDC 14), consapevole che «in una comunità veramente fraterna, ciascuno si sente corresponsabile della fedeltà dell’altro; ciascuno dà il suo contributo per un clima sereno di condivisione di vita, di comprensione, di aiuto reciproco; ciascuno è attento ai momenti di stanchezza, di sofferenza, di isolamento, di demotivazione del fratello, ciascuno offre il suo sostegno a chi è rattristato dalle difficoltà e dalle prove» (VC 57).

Questo dato di fede, «anche se in ultima istanza, e secondo il diritto proprio, appartiene all’autorità prendere le decisioni e fare le scelte» (cf. RDC 14), comporta per la superiora locale l’assunzione di puntuali impegni tendenti a far vivere la corresponsabilità.9 Tali impegni possono essere così enucleati:

– far crescere nel cuore di ciascuna sorella e vivere l’essere responsabile l’una dell’altra, poiché tutte sono rese custodi delle sorelle, tutte sono rese concostruttrici della vita di ciascuna e della comunità;10

– educare al coinvolgimento reciproco, eliminando quanto a esso si oppone, cioè il chiudersi nel privato, il rinserrarsi nella passività, il trincerarsi nella delega, il murarsi nel disinteresse, ecc.;

– aprirsi a un servizio di autorità “distribuita”, affidando vari compiti alle singole religiose, la quale contribuisce a rendere la comunità «una comunione di persone» in cui fiorisce «lo spirito di famiglia e il mutuo sostegno»;11

– far recepire e vivere effettivamente la comunità come soggetto collettivo di discernimento-di programmazione-di decisione-di attuazione-di verifica del proprio vissuto e del proprio operato. S’inserisce qui il sommo valore del consiglio di famiglia. Promovendo la corresponsabilità, si crea nella comunità «una vera interdipendenza, che moltiplica le forze, rinforza la coesione, produce la collaborazione nei compiti comunitari. Non ci si limita a stare insieme, ci si sforza di crescere insieme, non scordando ugualmente l’esigenza di «una autorità che sa prendere la decisione finale e ne assicura l’esecuzione» (VFC 50c).

 

VII° - Servire la comunità portandola a Cristo Gesù

 

È un compito che sembra contradditorio nei confronti del progetto di vita consacrata assunto con la professione perpetua. Ma non è così! Lo testimonia l’istruzione del 19 maggio 2002 della CIVCSVA, intitolata: Ripartire da Cristo. Un rinnovato impegno della vita consacrata nel terzo millennio. Perché viene proposto di “ripartire da Cristo Gesù”? Perché ci si trova di fronte a una vita consacrata, la quale nel suo vissuto risulta:

– debilitata da una molteplicità e varietà di fattori negativi (RDC 12-13), tra i quali: l’educazione pre-conciliare ricevuta, ormai superata, perciò ritenuta «fuori tempo»; la presenza di fissismi, dottrinali ed esperienziali, che sembrano indistruttibili; una generalizzata paura di fronte alle svolte culturali del nostro tempo;12 una nociva rimozione o colpevolizzazione psicologica dei problemi esistenti; una spiritualità unilaterale, evangelicamente debole, individualistica, devozionistica;

– necessitante di dare una risposta adeguata alle sfide dell’odierno momento storico,13 le quali, lette in un’ottica di fede, vanno recepite come interpellanza di Dio.14 Anche Giovanni Paolo II°, nella sua esortazione post-sinodale Vita consecrata, ha annotato che la vita consacrata «sperimenta oggi un momento particolarmente significativo della sua storia”, richiedente un “rinnovamento esigente e vasto che le mutate condizioni socio-culturali…le impongono».15

A tempi nuovi è necessaria una vita consacrata nuova,16 centrata su Cristo Gesù. Ecco l’urgenza di ripartire da Cristo Gesù in questa complessa e difficile navigazione odierna della vita consacrata per «ritrovare il senso e la qualità della vita consacrata» (RDC 12-13). Ora, al di dentro della comunità, grava primariamente sulla superiora il compito di accompagnare le sorelle, nelle varie situazioni quotidiane, a un incontro-esperienza coinvolgente e profondo di Gesù, il Gesù del Vangelo (= il suo vissuto) e il vangelo di Gesù (= la sua parola). Si tratta di essere come Filippo (Gv 12,20-33), il quale, alla richiesta “Vogliamo vedere Gesù” (Gv 12,21) rivoltagli da quei greci che si erano recati a Gerusalemme per il pellegrinaggio pasquale, li accompagna da Gesù. La superiora deve avere dentro il cuore la passione di aiutare le sorelle (con la testimonianza e la parola) a rendere la loro vita quotidiana “tralcio innestato nella vite” (Gv 15,1-5), che è Gesù, cosicché la loro giornata sia vissuta “per Cristo-con Cristo-in Cristo”. Non va scordato quanto affermato da VFC: «L’autorità ha il compito primario di costruire assieme ai fratelli e sorelle delle comunità fraterne nelle quali si cerchi Dio e lo si ami sopra ogni cosa» (50a).

 

VIII° -Servire la comunità realizzando il “sogno di Gesù”

 

Questo “sogno” di Gesù nei confronti dei suoi discepoli è stato delineato da lui stesso nella preghiera rivolta al Padre nell’ultima cena: “Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17, 21). Questo ‘sogno’ di Gesù, nella sua formulazione verbale, ci rimanda alla “vita di unità delle persone della SS. Trinità”, contemplata come “l’archetipo e il... dinamismo unificante” della vita fraterna (VFC 10), radicata nel cuore stesso della Trinità (VFC 8). Ne deriva che la comunità religiosa è chiamata a farsi il luogo per eccellenza di una vita fraterna vissuta e offerta come esperienza e testimonianza dell’unità intra-trinitaria (VFC 19).

Un punto di riferimento irrinunciabile e costante di questo amore unitivo è il comandamento nuovo datoci da Gesù: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati” (Gv 15, 12). Questo “come io amo voi” ci dice che la misura dell’amore fraterno, la qualità e l’intensità di questo amore vanno declinate su quelle dell’amore di Gesù a noi. Al di dentro della comunità, la superiora, più d’ogni altra sorella, è chiamata a vivere e promuovere l’espandersi di questo amore fraterno chiesto da Gesù, un amore che rappresenta la «carta d’identità» del suo discepolo: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 35). Pertanto, la relazione interpersonale, vissuta in quest’orizzonte di fede, va posta alla base del servizio autoritativo. In proposito, non va scordato quanto afferma RDC: «Se “la vita spirituale deve essere al primo posto” (VC 93)…, essa dovrà essere innanzitutto una spiritualità di comunione»,17 producente il passaggio dall’io al noi (VFC 39) e la gioia del vivere insieme, generata dalla consapevolezza di attuare la parola di Gesù: “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18, 20).18

 

IX° - Servire la comunità promovendo “la comunione di apostolato”

 

Il documento VFC, accanto alla comunione di vita e di preghiera, pone la comunione di apostolato quale «componente essenziale e distintiva della vita consacrata» (10). Ciò significa che la singolare caratterizzazione dell’apostolato dei consacrati è l’essere condiviso, vale a dire assunto e attuato nella compartecipazione e nella corresponsabilità di tutti. Infatti, portatrice del progetto apostolico, che si manifesta e si compie nel ministero di ciascuno dei suoi membri, è la comunità; lo afferma chiaramente VFC: «la missione apostolica è affidata in primo luogo alla comunità» (40d). Ovviamente, comunione di apostolato non significa unicità di apostolato, ma unità di apostolato, cioè coinvolgimento e cointeressamento di tutti all’apostolato della comunità e di ciascuno. La comunione di apostolato implica: da una parte, un apostolato non assunto e attuato individualmente, perciò ignorato-o misconosciuto, o rifiutato dalla comunità; dall’altra parte, un apostolato che non sia autorizzato dalla sola superiora, ma generato, fatto proprio, sostenuto e verificato dalla comunità. Se così non fosse, la comunità diventerebbe un’agenzia di servizi. Entro quest’ottica, il singolo che svolge apostolato diventa effettivamente segno e strumento della comunità.19 La comunione di apostolato esige, pertanto, un nuovo stile di essere vissuto, sia da parte di ciascuno come da parte dell’insieme comunitario.

A questa comunione di apostolato è legato il problema concernente il rapporto tra vita fraterna e missione. Annota VFC che nella vita consacrata vi è il compito di far crescere contemporaneamente sia il discepolo che deve vivere con Gesù e con il gruppo di coloro che lo seguono, sia l’apostolo che deve partecipare alla missione del Signore (59c). Tuttavia, «se è pericoloso contrapporre i due aspet­ti, è però difficile armonizzarli». Infatti, «specie per le comunità religiose dedite alle opere di apostolato, risulta assai difficile tro­vare nella pratica quotidiana l’equilibrio tra comunità e impegno apostolico». Pertanto, s’impongono la ricerca e la messa in atto dell’intimo legame tra vita fraterna e missione al fine di «superare creativamente le unilateralità che sempre impoveriscono la ricca realtà della vita religiosa» (59e). Alla superiora spetta primariamente assicurare e promuovere la comunione di apostolato, ponendo attenzione ad alcuni particolari impegni:

 

– rendere la comunità soggetto primario della pastorale, cioè agente in prima persona con la responsabilità e la collaborazione di tutti i suoi componenti.20

– Far prendere coscienza alle sorelle che «una vita di comunione che non si apre alla missione è ambigua; una missione che non sia vivificata dalla comunione è equivoca» (CEI, CMM 39). Di conseguenza, annota VFC, «non si possono... invocare le necessità del servizio apostolico per ammettere o giustificare una carente vita comunitaria. L’attività dei religiosi deve essere attività di persone che vivono in comune, che informano di spirito comunitario il loro agire, che tendono a diffondere lo spirito fraterno con la parola, l’azione, l’esempio» (55).

– Rendere feconda l’inevitabile tensione tra vita comune ed esigenze apostoliche, tessendo e ritessendo, con pazienza e senza scandalizzarsi, loro eventuali strappi.

– Avere presente e ricordare a tutte le sorelle che «la vita religiosa sarà…tanto più apostolica quanto più intima ne sarà la dedizione al Signore Gesù, più fraterna la forma comunitaria di esistenza, più ardente il coinvolgimento nella missione specifica dell’istituto» (VC 72).

 

X° - Servire la comunità coltivando «l’ottimismo della speranza»

 

Oggi, anche nelle nostre comunità, come nella Chiesa,21 si registra una progressiva caduta di speranza, prodotta da una varietà di fattori che fanno crescere il pessimismo triste e disfattista, la sfiducia nel futuro. Oggi, anche nelle nostre comunità servono consacrati/e che siano testimoni e generatori di speranza al proprio interno. Oggi, anche per le nostre comunità s’impone l’esigenza di coltivare “l’ottimismo della speranza” in Cristo Gesù. Di questa esigenza deve farsi carico soprattutto la superiora, aiutando le sorelle ad aprirsi sempre più ad alcune certezze di fede vissuta, generatrici di speranza di cui abbiamo sommamente bisogno:

– la certezza che la comunità è del Signore, generata dal suo amore; perciò, la sua vita sta più a cuore a lui di quanto lo stia a noi;

– la certezza che Dio ha un suo progetto sulla comunità, ed è un progetto d’amore anche quando umanamente sembra il contrario;

– la certezza che Dio rende possibile l’umanamente impossibile nella nostra storia (Mt 19, 26);

– la certezza che il Signore è con noi: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20);

– la certezza della parola di vita e di speranza pronunciata da Gesù: “Abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!” (Gv 16, 33).

Con queste certezze nel cuore troveremo il coraggio e la voglia: di rivitalizzare la speranza, “camminando nel Signore Gesù Cristo” (Col 2, 6) e con il Signore Gesù come i discepoli di Emmaus (Lc 24, 13-35); di non attardarci a maledire il buio, ma ad accendere luci lungo il cammino; di acquisire il coraggio dell’attesa, che porta ad accettare i tempi e le vie di Dio, consapevoli che egli viene a noi tante volte diverso da come lo attendiamo, poiché c’informa: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” (Is 55, 8); di fidarci di lui affidandoci a lui, poiché egli ci invita solo a seguirlo, offrendoci come unica garanzia che lui c’è e guida i nostri passi.

 

Fr. Agostino Martini, ofm

 

1 Vivono in essa, non come in una vera famiglia, in cui tutti danno e ricevono, ma come un’impresa di cui approfittarsene il più possibile.

2 Cf. 1Tess 4, 9 e 1Gv 4, 7-22. Il termine “accoglienza” -nel suo significato etimologico- deriva dal verbo latino accipere (ricevere qualcuno andandogli incontro) o excipere (ricevere da qualcuno)... Sono due significati complementari: il primo riguarda l’accogliere qualcuno., l’accoglienza offerta; il secondo concerne l’essere accolti da qualcuno, l’accoglienza ricevuta. Entrambi i significati sono presenti nella Scrittura, la quale delinea l’accoglienza come una espressione di amore donato e ricevuto.

3 In riferimento all’ascolto, perché ci sia un vero ascolto della persona che parla sono necessarie particolarmente due condizioni, che raccolgo dall’esperienza biblica: fare silenzio dentro di sé, cioè chiudere le altre fonti sonore (interne ed esterne) per riuscire ad ascoltare colei che parla; prestare attenzione a quanto viene comunicato dalla sorella. Si tratta di spalancare la mente e il cuore per dare ospitalità amorevole dentro di sé a chi parla, lasciando che la sua parola entri nell’intimo di se stessi, invada il proprio essere, metta in luce contemporaneamente il da farsi. In riferimento al dialogo, va detto che il dialogo vero non si riduce a quattro parole, funzionali al fabbisogno; esso è sempre costruttivo (finalizzato a costruire), libero da astiose accuse e contraccuse che portano sempre su posizioni difensive, rigide, aggressive, perciò rovinose della comunione fraterna. Dialogare significa, anche per la superiora, mettere in gioco un po’ se stessa nella disponibilità al confronto sul proprio creduto, sul proprio vissuto, sul proprio operato. (Cf. Cerezo Ruiz A.D., Una boccata d’aria fresca, Testimoni 8 /1999/ 12).

4 Cf. VFC 38 - Cf. Crea G., Patologia e benessere nella vita consacrata, Testimoni 9 (2005) 11-13.

5 Cf. Crea G., Stressati dalla vita comunitaria. Verso un ascolto delle difficoltà relazionali, Testimoni 9 (2002) 4-5.

6 Cf. Bonhoeffer D., La vita comune, 119.

7 L’iniziativa è sempre e solo di Dio, compiuta nel segno della pura gratuità e libertà: “chiamò quelli che volle” (Mc 3, 13); dopo aver scelto: “non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv 15, 16)..

8 Cf. VFC 11. A questo tema il documento dedica tutto il 2° capitolo, intitolato La comunità religiosa luogo dove si diventa fratelli.

9 Cf. VFC 50/b, intitolato: Un’autorità operatrice di unità. Si veda anche VC 92.

10 Cf. VFC 42; Cf. Brena E., La fatica degli inizi, Testimoni 8 (1999) 6.

11 Cf. Basso A., Chiarire il ruolo dell’autorità, Testimoni 13 (1992) 6.

12 Cf. RDC 11. Sulle caratteristiche della cultura contemporanea si veda Basso A., Traumi e abbandoni, Testimoni 1 (1998) 22-24.

13 Il termine “sfida” ricorre spesso nell’esortazione apostolica Vita consecrata: (cf. i nn.: 13; 38; 51; 54; 62; 64; 72; 81; 87; 88; 89; 91; 98). Si veda anche CIVCSVA, Ripartire da Cristo 45. “La sfida” è una situazione storica particolarmente importante e provocatoria che richiede una risposta coraggiosa alla luce del Vangelo.

14 Tutti siamo consapevoli che l’odierno momento storico si configura non tanto come un’epoca di cambiamenti, quanto come «un cambiamento d’epoca», di cui la globalizzazione, con la varietà delle espressioni e le sue profonde contraddizioni, rappresenta il nuovo ordine mondiale.

15 Cf. VC 14. Anche il sinodo sulla VC ha registrato una coralità di voci affermanti che la vita consacrata, come la Chiesa tutta, sta registrando uno dei suoi momenti più travagliati, che porta con sé un’esperienza di morte aperta a un’esperienza di risurrezione.

16 Cf. Martinez Diez F., Rifondare la vita religiosa, Edizioni Paoline, Milano 2001.

17 Cf. RDC, La spiritualità di comunione, n. 28-29.

17 Cf. ET 55; VFC 28; Basso A., La gioia in comunità, Testimoni 7/2005/8-10.

19 Cf. VFC 40/d . Allora, anche l’assenza fisica del singolo dalla comunità prodotta dall’apostolato non fa problema.

20 Cf. Guccini L., Vita comunitaria apostolica, Testimoni 13 (1992)_9-10.

21 Abbiamo sotto gli occhi l’invito del papa lanciato alla chiesa europea il 23, 10,1999, nella celebrazione conclusiva del 2° sinodo europeo: “Non lasciarti cadere le braccia! Non cedere allo scoraggiamento, non rassegnarti a modi di pensare e di vivere che non hanno futuro”.