LE CIFRE DI UN DRAMMA QUOTIDIANO

MORIRE  DI FRONTIERA

 

Si muore alle porte dell’Europa: 3.908 decessi dal 1988 al 2005, 1.949 negli ultimi tre anni. La UE deve smetterla di ignorare la strage che si consuma giorno dopo giorno e non si può risolvere il problema spostando le frontiere, in modo fittizio, sempre più a sud. Un segno dei tempi che interpella la Chiesa.

 

Non passa ormai giorno che la TV non ci mostri il flusso di clandestini che sfidando pericoli immani cerchino di sbarcare sulle nostre coste nella speranza di un avvenire migliore, fuori dalla miseria a cui so no stati finora condannati. E non passa quasi giorno che non succedano drammi. Molti di questi clandestini non giungeranno mai a destinazione.

Ora il nuovo governo italiano ha in programma di cambiare la cosiddetta legge Bossi-Fini che regola in maniera molto restrittiva l’ingresso dei cosiddetti terzomondiali. Ma il problema non è solo nostro: riguarda tutta l’Europa. Purtroppo, anziché attivare una politica comune, ogni paese tende a fare per conto suo, badando più ai propri interessi che non al problema nel suo insieme. Ma non si può far finta di niente.

Fortress Europe (www.fortresseurope.blogspot.com) è la più completa raccolta documentata (collegata a centinaia di articoli pubblicati da testate giornalistiche di diversi paesi) sui quasi 4mila disperati deceduti, nel tentativo di farsi una nuova vita, dal 1998 al 2005. Quasi la metà di essi (1.641 migranti) annegati nel canale di Sicilia, almeno 1.117 i loro cadaveri sui fondali del Mediterraneo. Ma si muore anche sui campi minati greci, nascosti nei camion, nei container sulle navi cargo, sotto i treni e negli aerei, oppure nel deserto libico come sulle montagne turche. Le cifre indicate sono ovviamente inferiori al dato reale, visto che la copertura di notizie è incompleta per la clandestinità del fenomeno.

 

ROTTE

MORTALI

 

La principale causa di morte è l’annegamento nelle acque del Mediterraneo, dove si ha notizia certa nello stesso periodo della morte di 3.342 persone (86% del totale), delle quali 2.080 (il 62%) negli ultimi quattro anni. Uno su tre giacciono in fondo al mare. Un primo punto caldo è nel canale di Sicilia, lungo il tragitto che parte dalla Libia e dalla Tunisia verso Malta, Lampedusa e la costa siciliana. Dal 2002 si assiste a un incremento con calo improvviso solo nel 2004 (da 236 deceduti nel 2002 si è passati a 387 nel 2003, 203 nel 2004 e 440 nel 2005). Dall’Africa occidentale e dal Maghreb invece si naviga dal Marocco verso la Spagna (seconda direttrice), attraversando lo stretto di Gibilterra oppure puntando verso le isole Canarie nell’oceano atlantico: dal 1988 al 2005 sono annegate nelle acque marocchine e spagnole 859 persone; di 197 non è mai stato recuperato il cadavere (preoccupante tra l’altro l’aumento degli incidenti nel 2005: 205 morti, +43% rispetto ai 143 nel 2004, ma la tendenza è in continua crescita dal 2000).

Terza direttrice è quella di chi emigra dal vicino oriente facendo rotta dalla Turchia alla Grecia attraversando il mar Egeo: dal 2001 al 2005 sono 391 i morti documentati e 181 i dispersi (qui si registra una tendenza in calo; dopo i 90 morti nel 2004 lo scorso anno la cifra infatti si è arrestata a 57). La quarta direttrice a rischio è quella del mare Adriatico tra Albania e Montenegro, da una parte, e Italia dall’altra: dal 1991 al 2005 in quest’area hanno perso la vita 451 persone, di cui 62 disperse. La maggiore incidenza dei naufragi si è registrata alla fine degli anni novanta, in particolare tra il 1997 e il 1999 (negli ultimi anni gli sbarchi sono pressoché scomparsi; nessun incidente si è registrato nel 2003 e nel 2005; 31 sono stati i morti nel 2004).

 

DISPERATI

SENZA FUNERALE

 

La pressione migratoria è forte anche via terra e, in rari casi, anche via aerea. Dal 1995 sono morte asfissiate, schiacciate dal peso delle merci o a causa di incidenti stradali, 213 persone che viaggiavano nascoste in camion o dentro container caricati sulle navi cargo dirette nei porti europei. Questo è accaduto in paesi come Albania, Francia, Germania, Grecia, Inghilterra, Irlanda, Italia, Olanda, Spagna e Ungheria. Il peggiore incidente si è registrato il 18 giugno 2000, quando a Dover (Inghilterra) vennero scoperti i cadaveri di 58 immigrati in un camion frigorifero vuoto. Ci si nasconde anche sotto i treni, una pratica documentata sui convogli che attraversano il tunnel della Manica, verso l’Inghilterra: 20 persone sono morte cadendo lungo i binari del tunnel o fulminati scavalcando le recinzioni elettriche del terminal francese. Significativi anche i viaggi di chi si nasconde nei vani carrello degli aerei diretti in Europa: qui sono cinque le morti documentate.

Preoccupanti, ancora, i dati sulle morti per disidratazione nel deserto del Sahara: 133 persone sono morte tentando di attraversarlo verso il Mediterraneo, dal Sudan alla Libia o dall’Africa occidentale all’Algeria, attraverso Mali e Niger… ma potrebbe essere solo la punta dell’iceberg. Almeno 77 persone poi hanno perso la vita sui campi minati del confine nord orientale della Grecia con la Turchia e 33 sono morte assiderate e di stenti attraversando a piedi, durante l’inverno, le montagne che segnano la frontiera in Grecia, Turchia, Italia e Slovacchia. Inoltre 51 persone sono annegate attraversando i fiumi che delimitano il confine tra Croazia e Bosnia, tra Turchia e Grecia, tra Slovacchia e Austria, tra Slovenia ed Italia.

Ma purtroppo si muore anche sotto il fuoco dei militari: nel 2005 lungo il confine col Marocco delle due enclave spagnole in terra africana, Ceuta e Melilla, sono state uccise dalla guardia civile e dalla polizia marocchina 16 persone. Episodi simili sono documentati sia da parte della guardia costiera turca (un uomo ucciso nel mar Egeo), che dei militari jugoslavi (nel 1990 ferirono a morte 2 uomini al confine con l’Italia). Dal 2002 al 2005 sono raddoppiate le morti alle frontiere riportate dai mezzi d’informazione e il 47% del totale (1.826 morti) è avvenuto negli ultimi tre anni. Il 2005 è stato l’anno peggiore, con 728 morti di cui 406 dispersi.

«La metà di quelli che ci provano ce la fa. L’altra metà torna indietro o muore», afferma padre Jerome Dukiya, responsabile a Nouadhibou (estremo nord della Mauritania) di un centro di accoglienza per immigrati. «Tentiamo di far sentire gli immigrati a casa loro: organizziamo conferenze, mostre, partite di pallone. Per questi ragazzi, in attesa della traversata, è importante staccare la mente ogni tanto, distrarsi». In quella città e nei dintorni si calcola che vivano almeno 10mila immigrati clandestini, in attesa di imbarcarsi per la nuova rotta di 640 km verso l’Europa. Secondo la Mezzaluna Rossa, dallo scorso novembre almeno mille persone sarebbero morte nella traversata. «Tentiamo di dissuaderli, di farli tornare a casa, continua p. Dukya, ma sperano in un futuro migliore: nei loro paesi arrivano le lettere dei parenti che ce l’hanno fatta, e con uno stipendio in Europa mantengono tutta la famiglia in patria. Logico che non vogliano tornare indietro. Quando lo fanno, è solo perché la traversata è fallita, e di solito rientrano a casa solo per raccogliere il denaro per un nuovo viaggio». Altri, invece, rimangono in Mauritania, lavorando per mesi per pagare agli scafisti un altro biglietto, che è meno costoso ma arriva pur sempre a circa 500 dollari. Quasi tutti provengono dall’Africa occidentale: prima partivano dai porti del Marocco e del Sahara occidentale, ora, dal momento che le autorità marocchine hanno rafforzato i controlli, sono costretti a partire proprio da Nouadhibou, porto molto più distante dalle Canarie.

La Mauritania ha inoltre fatto sapere di non essere in grado di controllare il flusso di imbarcazioni verso le Canarie; così la Spagna ha fornito intercettatori alla sua marina e ha organizzato centri di accoglienza per immigrati sulle coste africane, rafforzando i controlli in mare. Così, una volta giunti sulle coste spagnole, dopo la prima assistenza, i clandestini vengono rinchiusi nei centri di permanenza temporanei (Cpt) per essere successivamente reimbarcati per la Mauritania e da qui accompagnati fino alla frontiera, in pieno deserto, per il viaggio di ritorno (con una bottiglia d’acqua e due scatole di sardine!). Ma ritenteranno ancora, perché i flussi migratori verso l’Europa si qualificano prevalentemente come prodotti di un’emigrazione di natura economica: le opportunità di lavoro (e il relativo benessere sociale che ne deriva) occupano un ruolo centrale e costituiscono le dimensioni nei confronti delle quali il migrante ripone maggiori aspettative. Un lavoro sognato, anche se si traduce spesso in sfruttamento ed emarginazione sociale.

 

FRONTIERA SUD

SEGNO DEI TEMPI

 

Questo mare di disperazione non turba le nostre coscienze, poiché l’imperativo sembra essere quello di rendere tali morti invisibili. Anche con un trucco geografico quale quello di spostare la frontiera sempre più a sud. Così la Spagna, dopo aver blindato il confine con il Marocco (con protezioni tridimensionali che affiancano le due barriere di filo spinato: un muro dalla sofisticata tecnologia fatta di sistemi di acqua a pressione con getti di pepe, fuochi che creano confusione, ecc), si è affrettata a stringere accordi, come si è detto, con la Mauritania per far accettare a quest’ultima il rimpatrio degli immigrati partiti dalle sue coste. Così l’Italia ha fornito radar e jeep al colonnello libico Gheddafi e ha finanziato la costruzione di tre Cpt e decine di voli charter, con cui Tripoli ha rispedito a casa tra il 2003 e il 2004, a spese del contribuente italiano, 5.688 immigranti con 47 voli.

Comunque si guardi al problema, gli effetti di tali chiusure di frontiere, che rimangono comunque permeabili, sono da un lato l’aumento della pericolosità dei viaggi che i migranti devono affrontare per raggiungere i confini della UE (con il conseguente rafforzamento delle reti criminali e mafiose che sfruttano il traffico internazionale delle persone), dall’altro la violazione massiccia del diritto di asilo. Effetti che sono offuscati dai media, forse per evitare di interpretare come costi umani, in termini cioè di sofferenza e di morte, le nostre politiche restrittive.

S. Simoncini, nel suo libro Frontiera Sud (Fandango, Roma 2004), non esita a parlare dell’esistenza di una “guerra fredda tra nord e sud del mondo” (p. 154), che si consuma nel conteggio quotidiano delle vittime, nella svalutazione dei fatti e nel loro svuotamento simbolico. In tal modo codesti non-luoghi dell’immigrazione irregolare diventano spazi di massima concentrazione della sovranità politica e della sua espressione eccezionale e violenta. Spazi altamente simbolici di un diritto internazionale ancora immaturo e spesso privo di efficacia: un diritto che è ancora troppo marginale rispetto ai poteri forti del mercato e della politica. Spazi che diventano per i cristiani autentici segni dei tempi. Infatti, «nella Chiesa nessuno è straniero e la Chiesa non è straniera a nessuno. L’accoglienza è un servizio e identifica il cristiano. L’immigrato è prima di tutto un uomo, non è soltanto una pancia da riempire o un lavoro da trovare. Il dialogo è importante, perché la Chiesa si fa parola e il dialogo con i fratelli stranieri ci aiuta a crescere nel dialogo tra noi stessi» (mons. Francesco Montenegro, presidente della Caritas italiana).

 

Mario Chiaro