L’EREDITÀ DEI MONACI DI TIBHIRINE

OLTRE L’URTO DELLA VIOLENZA

 

Il 21 maggio 1996 il Gruppo armato islamico, dopo mesi di negoziato, esegue la condanna a morte di sette monaci cistercensi del monastero di Tibhirine nell’Atlas algerino. Dopo dieci anni, il loro martirio continua a interpellare tutti i credenti,  cristiani e musulmani.

 

A dieci anni dall’assassinio dei sette monaci cistercensi, avvenuto il 30 maggio del 1996, due mesi prima dell’assassinio del vescovo di Orano, Pierre Claverie, il monastero di Tibhirine, lasciato vuoto, attende di ricominciare a vivere. A un centinaio di chilometri da Algeri, il complesso monastico si apre su ampi spazi e si sviluppa intorno al cuore della preghiera e della memoria dolorosa, le lastre di pietra, con incisi i nomi dei setti martiri, nella terra che hanno tanto amato.1 In un articolo apparso su La Croix (24/03/06) Dominique Quinto si chiede: «Altri fratelli verranno a Tibhirine a dare il cambio, a rinnovare la catena interrotta dalla violenza del terrorismo fondamentalista islamico, a mescolare la loro preghiera a quella dei musulmani vicini che avevano preso l’abitudine di farsi curare da p. Luc, il medico, di utilizzare le sale della casa del guardiano per insegnare il Corano ai bambini? Nel monastero ha sede Ribât-El-Salam, “Vincolo della pace”, movimento di amicizia tra cristiani e musulmani… P. Jean-Marie Lassausse, prete della Missione di Francia, diverse volte alla settimana sale da Algeri per controllare con gli operai agricoli algerini la coltura dei campi e dei frutteti annessi al fondo. Così possono vendere i loro prodotti ortofrutticoli al mercato di Medea e fornire di legumi freschi la cantina della scuola vicina. E poi, in quella che era la casa del guardiano, intorno a sr. Simone, una suora Bianca, le ragazze del villaggio preparano dolci di frutta e marmellate; in un’altra sala, giovani donne imparano a ricamare piccoli sacchetti di lavanda che saranno venduti ai pellegrini e ai visitatori».

 

RICONCILIAZIONE

NELLA VERITÀ

 

Mons. Henri Teissier, attuale arcivescovo di Algeri ha affermato: «Per i monaci quello che credo sia più significativo è lo sviluppo lento e regolare del pellegrinaggio al monastero. È il segno della vasta risonanza che il messaggio dei monaci ha avuto anche fuori di questo paese… Sto moltiplicando gli sforzi per trovare una comunità contemplativa che sia interessata a ritornare al monastero, da quando i trappisti hanno deciso di abbandonarlo per continuare l’esperienza a Midelt, in Marocco. Il primo appello l’avevo lanciato alla comunità di Bose, e poi a molte altre. Mi auguro che prima o dopo una comunità accoglierà questo invito» (Missione Oggi, aprile 2006).

Le celebrazioni che si svolgono in Algeria in questi giorni sono un’occasione importante per far conoscere la vicenda: «Si tratta, ha ribadito mons. Teissier, della testimonianza di una solidarietà quotidiana vissuta nella preghiera, nei lavori condivisi, nelle relazioni con i vicini del villaggio di Tibhirine o quelli della città di Medea, non lontana dal monastero. Bisognerà far comprendere tutto questo. Tuttavia, a livello delle autorità superiori, c’è una certa reticenza, perché molti vorrebbero voltare la pagina della violenza che si è abbattuta sul paese durante gli anni ‘90. Hanno paura che quando ricordiamo i monaci, si voglia evidenziare queste violenze ingiuste e criminali». Tra l’altro, l’anniversario della morte dei monaci coincide con quello del cardinal Duval, difensore del diritto allo sviluppo della comunità cristiana algerina. Nel 2006 altro significativo anniversario è quello di mons. Pierre Clavarie, vescovo domenicano di Orano ucciso con una bomba.

In questo contesto dunque, la chiesa algerina è molto attenta al processo innescato dal referendum popolare circa la “Carta per la pace e la riconciliazione nazionale”. Proprio la riconciliazione farà emergere un interrogativo sulla verità e sulla giustizia, che è un terreno che coinvolge i cristiani, pronti sempre a collaborare. «Credo che il posto della Chiesa nella società algerina, ha affermato ancora mons. Teissier, non sia legato al numero dei cristiani, ma alla possibilità di stabilire delle relazioni con questa stessa società. È chiaro che se durante i primi anni dell’indipendenza la chiesa algerina aveva le sue relazioni e godeva della fiducia della società, era a causa dell’impegno assunto dal cardinal Duval e da un certo numero di preti durante la lotta di liberazione nazionale. Ebbene, con l’ultima crisi degli anni ‘90, noi abbiamo ritrovato una nuova fiducia presso molti dei nostri interlocutori algerini poiché abbiamo avuto, come la stessa società algerina, delle vittime, e perché siamo rimasti qui nel momento del pericolo».2

La scelta dei sette fratelli di restare era maturata per esprimere la volontà di condividere con i vicini l’urto della violenza, solidali con la sparuta minoranza ecclesiale, offerti come Cristo per la salvezza del popolo. Perciò Hubert, fratello del priore Christian de Chergé, vede la sua morte come un invito a prolungare l’impegno nel dialogo con l’islam: «In un momento in cui si parla dell’ineluttabilità del conflitto tra religioni, io voglio essere un artigiano della pace. Christian e Chistophe, in particolare parlavano molto della ricchezza attraverso la differenza». Ebbene, in un testo raccolto da sr. Edith Genet, missionaria di Nostra Signora d’Africa, proprio p. Christian afferma: «Noi diamo ai nostri vicini un’immagine della Chiesa che essi apprezzano, ma che è un po’ insufficiente perché i religiosi sono dei religiosi e le famiglie sono delle famiglie. Per i vicini, “cistercense” non vuol dire assolutamente niente. Per loro, noi siamo dei baba (padri) o dei roumi (cristiani in arabo) oppure semplicemente e puramente dei cristiani. Trovo che sia una cosa buona essere ridotti a un’identità generica che è quella del nostro battesimo. E il monaco è colui che fa professione di battezzato… Questo presuppone che le due prospettive della vita benedettina che è la nostra, ora et labora, preghiera e lavoro, possano essere situate in rapporto a ciò che cercano e vivono i nostri vicini. E credo che sia una cosa abbastanza nuova ora che, dopo trent’anni di indipendenza, noi siamo riusciti a trovare una piattaforma di condivisione e di comunione, sia a livello della preghiera che a livello del lavoro. Curiosamente, questo avviene più rapidamente a livello della preghiera; anche se da tempo i vicini lavorano con noi, è stato necessario passare da un lavoro retribuito a un lavoro associato, a una cooperazione nel lavoro dove ciascuno ha esercitato le stesse responsabilità, anche se tutto questo non è stato così evidente… I giovani vengono spesso, soprattutto ora, con il desiderio di parlare, di confidarci le cose che non possono dire; si ha meno voglia di parlare oggi al primo che capita. Di nuovo le bocche si sono chiuse in Algeria!... Evidentemente è strano per loro scoprire che noi monaci abbiamo fatto un cammino inverso rispetto a quello che loro sognano. Quando vedono un fratello giovane, che ha la loro stessa età, scegliere di radicarsi qui nella nostra comunità, mentre loro vorrebbero partire per andare altrove, in Europa, questo li aiuta un po’ a rivedere le loro aspettative. Ed è meglio, perché oggi è molto difficile emigrare. Io credo che, di fronte alla tentazione onnipresente dell’integralismo che l’islam ufficiale veicola, noi possiamo, avendo relazioni antiche e improntate alla fiducia con i vicini, invitarli continuamente a restare aperti. Sono profondamente convinto che “apertura” sia la parola maestra della testimonianza cristiana oggi in questo paese».

Ha scritto Guido Dotti della comunità di Bose: «Dei sette monaci dell’Atlas i giornali francesi scrissero che la loro vicenda aveva “rievangelizzato” la Francia intera… Così scriveva frère Christian nel suo testamento: “ecco che (ucciso) potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze”… Con il martirio, un cristianesimo che sembra in difficoltà nel comunicare con gli uomini di oggi ritrova, in una “grazia a caro prezzo”, la capacità di suscitare domande e di inquietare le coscienze».

Fr. Jean-Pierre Flachaire, priore di Notre-Dame de l’Atlas a Midelt (Marocco), in una conferenza nel 2005 a Marsiglia ha ricordato alcune preziose riflessioni bibliche di p. Christian: «Lo stesso accade per la nostra Chiesa che porta in sé una buona notizia. E la nostra Chiesa siamo ciascuno di noi. Anche noi siamo venuti un po’ come Maria, innanzitutto per rendere un servizio: è il suo primo intento... Ma portiamo anche questa buona notizia, e come fare per dirla? E sappiamo che coloro che siamo venuti a incontrare sono un po’ come Elisabetta: portatori di un messaggio che viene da Dio. E la nostra Chiesa non ci dice – non lo sa – qual è il legame esatto tra la buona notizia che portiamo e quel messaggio che fa vivere “l’altro”. In fondo la mia Chiesa non mi dice qual è il legame tra Cristo e l’islam. E io vado verso i musulmani senza sapere qual è il legame. Ed ecco che quando Maria arriva, è Elisabetta a parlare per prima... Anzi, non esattamente, perché Maria ha salutato sua cugina, le ha detto: “Pace, la pace sia con te”. E questo è qualcosa che possiamo fare. Questo semplice saluto ha fatto vibrare qualcosa, “qualcuno” in Elisabetta. E in questo sussulto “qualcosa” è stato detto, qualcosa che era la buona notizia, non “tutta” la buona notizia, ma ciò che di essa si poteva percepire in quel momento. “A che debbo che il bambino che ho in grembo abbia sussultato?”, dice Elisabetta. E con ogni probabilità anche il bambino che era nel grembo di Maria ha sussultato. E chi dei due ha sussultato per primo? In fondo, l’evento si è prodotto tra i bambini...».

Per onorare l’anniversario, la chiesa di Algeria ha rilanciato la richiesta di aprire il processo diocesano per la causa della loro beatificazione. Se una lettura puramente politica della loro morte sarebbe manifestamente fuorviante, una lettura puramente spirituale che ignorasse il lucido coraggio con cui essi hanno aderito a situazioni concrete, svuoterebbe di senso il loro messaggio. La loro testimonianza infatti è lasciata a tutti i credenti: ai cristiani, perché elaborino paradigmi di dialogo radicati nella fede in Cristo; ai musulmani perché facciano emergere il volto dell’islam che prega e che rifiuta la violenza; a tutti come imperativo comune ad assumere con responsabilità il servizio della convivenza.

 

Mario Chiaro

 

1 P. Christian de Chergé, 59 anni, priore,. aveva maturato la scelta monastica dopo che un amico durante la guerra di liberazione gli aveva salvato la vita, mentre poi quell’amico (musulmano di grande spiritualità) era stato ucciso per rappresaglia. Il fratello converso Luc Dochier, 82 anni, medico, divenne leggendario nella zona per il suo servizio ai malati. P.Christophe Lebreton, il più giovane, crebbe in breve tempo nella fede fino all’offerta della vita. Fra’ Michel Fleury, ex-membro del Prado, fu uomo silenzioso e lavoratore instancabile. P. Bruno Lemarchand, 66 anni, superiore della casa annessa di Fes, nel Marocco, ponderato e umile. P. Celestin Ringeard, 62 anni, sensibile e dotato per le relazioni interpersonali. Fra’ Paul Favre-Miville era abile nei lavori manuali.

2 La chiesa cattolica in Algeria fa conto su 38mila fedeli in 4 diocesi (Algeri, Orano, Laghouat, Costantina). I sacerdoti sono 167, i religiosi 107 e le religiose 355. Il cattolicesimo giunse a raggruppare 900mila fedeli nel 1954. Dopo l’indipendenza, la quasi totalità dei cattolici lasciò il paese. La Chiesa oggi è sotto la tutela del Ministero dei culti, che provvede a pagare i sacerdoti, che possono svolgere varie attività sociali e assistenziali. Una Chiesa illuminata anche dalla figura di Charles de Foucauld, ucciso a Tamanrasset nel 1916 e di recente beatificato (considerato purtroppo ancora dai non cristiani solo come un cantore della colonizzazione).