SEGNI DI SPERANZA NEL MONDO E PER IL MONDO
AVANTI CON FIDUCIA
La tentazione
potrebbe essere quella di chiederci che cosa dobbiamo fare e di mettere insieme
una lista delle cose da fare, come tante volte nel passato. Ma la domanda vera
è un’altra: a quali condizioni potremo dare alla vita consacrata
un futuro carico d’eternità?
A quarant’anni ormai dalla conclusione del concilio e
dopo tanti tentativi di aggiornare e rinnovare la vita consacrata, quando
sentiamo ancora parlare del futuro della vita consacrata, è forse
inevitabile provare un senso di scoraggiamento e di rassegnazione: ormai sono
state tentate tutte le strade, non sarebbe meglio arrendersi all’idea che
le cose cambino? O addirittura prepararci a vivere onorevolmente la nostra
fine? Ci sentiamo un po’ come il vecchio Mosé, il liberatore
d’Israele che, dopo aver fatto quello che poteva per condurre Israele
verso la Terra promessa, si sente dire da Dio che non è degno
d’entrarvi. Certo, non si era fidato di Dio alle acque di
Meriba-Cadès (Num20,12), e quindi non meritava d’entrare neppure
lui nella terra promessa. Eppure il Signore ha pietà di lui e per mostrargli,
malgrado tutto, il suo amore, lo fa salire sul monte Nebo dal quale gli mostra
la bellezza della terra promessa (Dt 32,49). In questi tempi anche noi
religiosi siamo in viaggio verso quella vita consacrata del futuro, nella quale
forse crediamo poco e, ciononostante, il Signore ce la fa vedere da lontano
affinché siamo sicuri che essa c’è e che, presto o tardi,
sarà raggiunta, se non da noi, almeno dai nostri successori. Entrarvi
sarebbe una grazia che forse non meritiamo, ma vederla e poterla immaginare
è già un dono che ci rallegra il cuore.
UNA STORIA
DA COSTRUIRE
Papa Giovanni Paolo II nella sua esortazione apostolica Vita
consecrata del 1996, dopo aver presentato con profondità teologica e
grande passione gli elementi perenni e indispensabili della vita consacrata,
alla conclusione del suo testo, ha un paragrafo che invita i religiosi alla
speranza e all’azione: “Voi non avete solo una gloriosa storia da
ricordare e da raccontare, ma una grande storia da costruire! Guardate al futuro,
nel quale lo Spirito vi proietta per fare con voi ancora cose grandi”
(Vita consecrata 110). Il papa si dichiara convinto che noi religiosi abbiamo
ancora un futuro e c’invita a credere che la vita consacrata non
può finire, anzi, che essa continuerà, perché la Chiesa ha
bisogno di chi la stimoli alla santità e a vedere il regno di Dio e i
suoi segni anticipatori. Ci chiede quindi di fare della nostra vita
«un’attesa fervida di Cristo, andando incontro a lui come le
vergini sagge che vanno incontro allo Sposo» (ibid.).
L’invito del papa è a credere che il meglio
della vita consacrata non è ancora apparso ed è oggetto della
nostra speranza teologale, quella che viene dall’abbandonarci
all’azione di Dio. Nel libro della storia della Chiesa sono state scritte
pagine edificanti ed eroiche dai religiosi e non è il caso né di
vantarsene, perché sono frutto della grazia di Dio, ma nemmeno di
minimizzarle per gli sbagli e gli sbandamenti che possono essere capitati.
Giovanni Paolo II è sicuro che di queste pagine straordinarie se ne
scriveranno ancora.
«Siate sempre pronti, fedeli a Cristo, alla Chiesa, al
vostro istituto e all’uomo del nostro tempo» (ibid.). Papa Wojtyla,
riprendendo le indicazioni del decreto Perfectae caritatis, ricorda ai
religiosi il dovere della fedeltà dinamica con la quale devono
progettare il futuro o, quanto meno, sognarlo. Tale fedeltà è
radicata in valori perenni, è capace di rinnovamento e di crescita, non
è una stanca ripetizione del passato né una nostalgica ripresa di
quei “tempi d’oro” che non è mai il caso di
risuscitare (cf. Sir 39,34), perché, anche risuscitassero, non sarebbero
più gli stessi. Grazie alla fedeltà dinamica, i religiosi saranno
«da Cristo rinnovati di giorno in giorno, per costruire con il suo
Spirito, comunità fraterne, per lavare con lui i piedi ai poveri e dare
il [loro] insostituibile contributo alla trasfigurazione del mondo»
(ibid.). Con la fraternità e la solidarietà, essi contribuiranno
non solo alla rinascita della vita consacrata, ma anche alla trasformazione del
mondo d’oggi, oggetto di grandi preoccupazioni: «Questo nostro
mondo, affidato alle mani dell’uomo, mentre sta entrando nel nuovo
millennio, possa essere sempre più umano e giusto, segno e anticipazione
del mondo futuro, nel quale Egli, il Signore umile e glorificato, povero ed
esaltato, sarà la gioia piena e duratura per noi e per i nostri fratelli
e sorelle, con il Padre e lo Spirito Santo» (ibid.).
Dobbiamo essere riconoscenti al papa Giovanni Paolo II per
questo testo che, scritto ormai da dieci anni, conserva tutta la sua carica
profetica e ci permette di guardare avanti con speranza. Esso non solo alimenta
quella fiducia in noi stessi, che la lentezza dei processi storici e del
rinnovamento potrebbero intaccare, ma anche quella speranza che ci aiuta a vedere
con più chiarezza la nostra missione all’inizio del nuovo
millennio.
ESSERE
SEGNI DI SPERANZA
Abbiamo quindi il diritto, e forse anche il dovere, di
chiederci come sarà la vita consacrata del prossimo futuro. La
tentazione potrebbe essere quella di chiederci che cosa dobbiamo fare e di
mettere quindi insieme una lista delle cose da fare o dei campi in cui metterci
ad operare. Così abbiamo fatto tante volte nel passato. Ma la domanda
vera che dobbiamo farci è un’altra: a quali condizioni potremo dare
alla vita consacrata un futuro carico d’eternità? Possiamo
rispondere senz’ombra di dubbio che la vita consacrata avrà un
futuro se noi la vivremo come persone veramente consacrate a Dio e al suo
Regno, in sintonia profonda e provocatoria con il mondo. Consacrati a Dio non
malgrado il mondo, ma per il mondo e in sintonia d’amore e di
solidarietà con esso.
Già il concilio ha detto che la vita religiosa
è un «segno» (Lumen gentium 44) del Regno e della
novità che esso continuamente porta, essere segni di una speranza che
risponde alle attese dell’umanità di oggi. Certo in un mondo come
il nostro, stanco di sé e scoraggiato per i suoi ripetuti fallimenti,
sfiduciato e senza prospettive a lunga scadenza, le sfide non mancano. Sono
sfide di notevole portata, perché toccano l’uomo e il suo futuro
insieme con il futuro del mondo. E anche se facciamo quotidiana esperienza
della nostra pochezza e debolezza, tuttavia sentiamo che Dio conta ancora su di
noi per far brillare la speranza davanti alla Chiesa e all’umanità
di oggi.
… NEL MONDO
E PER IL MONDO
Sentiamo però anche che la vita consacrata, per avere
qualcosa da dire al mondo, deve positivamente scegliere d’essere e
rimanere in mezzo al mondo, solidale con esso, umile e semplice, senza cedere a
forme di trionfalismo o di sottile ricerca del potere. Essa non deve staccarsi
dal mondo, ma essere nel e per il mondo. Non è facile tradurre in
pratica queste esigenze di presenza al mondo e nel mondo. Non si può
negare che troppo spesso, anche ai nostri giorni, noi religiosi viviamo accanto
al mondo e, in qualche caso, addirittura contro il mondo, come un rimprovero o
una predica a un mondo che consideriamo fuori strada, come se noi stessi non
fossimo espressione di questo mondo che Dio ama e che invece noi condanniamo.
Sappiamo che non c’è alcuna giustificazione per
ripetere un’eventuale fuga mundi. I primi monaci erano fuggiti dal mondo,
ma l’avevano fatto per amore del mondo, per essere in grado di ridare al
mondo l’evangelo del regno di Dio, per aiutare il mondo e la Chiesa a
ritornare a Dio, perché non si sentivano nemici, ma amici
dell’umanità. Se ne sentivano responsabili come di un fratello. La
vita consacrata del futuro dovrà collocarsi proprio nelle città
dell’uomo, magari nelle grandi metropoli e nelle periferie disumane,
là dove i nostri fratelli vivono nell’anonimato e
nell’alienazione. Oggi non abbiamo più bisogno di uscire dal mondo
per testimoniare un evangelo di liberazione annunciando l’«evento
Gesù Cristo».
Non dobbiamo più considerarci dei separati dal mondo,
ma dei missionari di Dio nel mondo. Abbiamo quindi bisogno di ri-imparare a
vivere nel mondo e a leggere nella sua storia quei «segni dei
tempi» che ci indicano come vivere e quali obiettivi apostolici proporci.
La vita consacrata dovrà sempre verificare di essere effettivamente nel
mondo, individuare dove collocarsi nel mondo, non in una dialettica di
contrapposizione, ma di reciproco ascolto per portare Dio al mondo e il mondo a
Dio.
Dovremo anche rivedere periodicamente il nostro modo di
vivere la vita consacrata, perché troppo spesso, erroneamente ma
fatalmente, essa diventa incomprensibile o addirittura fuorviante per coloro
che ci vivono attorno: la nostra consacrazione religiosa rischia, infatti,
d’essere sentita come una polemica presa di distanza dal mondo, quando
noi, consacrati per essere un segno per il mondo, finiamo per chiudere le
nostre porte al mondo, convinti così di servirlo meglio.
CAPACI DI GUARDARE
IL MALE DEL MONDO
Il futuro della vita consacrata si giocherà allora
nella capacità dei religiosi di essere nel mondo, senza essere
evidentemente dipendenti dalla logica del mondo, ma sforzandosi di essere
fratelli di coloro che vivono il travaglio che caratterizza questo periodo di
sofferta transizione del mondo dal «secolo breve» al nuovo
millennio, segnata dalla tragedia dell’11 settembre 2001 che ha rivelato
l’odio e la paura, la prepotenza e l’umiliazione, le immense
capacità tecnologiche e la precarietà dell’umanità
in questo inizio di secolo.
I religiosi del futuro saranno persone che guardano questo
mondo sofferente e inquieto con amore, che non distolgono lo sguardo dalla
nostra carne (Is 58,7), dalla povertà cioè e dalla
fragilità dell’umanità attuale. Dovranno essere persone
invece che offrono al mondo una parola di sapienza evangelica, incarnata nella
propria esistenza, come un segno piccolo, ma luminoso e attraente, che faccia
riflettere e indichi al mondo, che attende da qualcuno una parola di sapienza e
di speranza, la strada per ritrovarsi nell’intrico delle vicende attuali.
Il mondo, che i religiosi saranno chiamati ad amare e a
illuminare, è il mondo postmoderno, fatto di persone disincantate che
avevano creduto all’onnipotenza della ragione, alle “magnifiche
sorti e progressive” dell’umanità, che avevano messo tutta
la loro fiducia nel potere ristrutturante della scienza e della tecnologia
più avanzata. Sono persone che avevano sognato l’avvento di un
mondo altro, libero, autonomo, capace di gestirsi e di programmare il suo
futuro, un mondo in cui non ci fosse più la fame e la miseria,
l’ingiustizia e l’oppressione dell’uomo sull’uomo, in
cui tutti potessero vivere contando su se stessi. I nostri contemporanei hanno,
invece, dovuto riconoscere che i loro sogni non si sono avverati. Per questo
sono disincantati e delusi, perchè il cosiddetto «secolo
breve» appena conclusosi è stato come il crepuscolo degli dei, la
caduta delle ideologie forti e, con esse, delle illusioni collettive!
L’uomo del nostro tempo sa che potrebbe vivere
serenamente e proteso verso un futuro segnato dalla pace e dal benessere per
tutti, invece si trova pieno d’inquietudine per una pace che dura da
anni, almeno nel mondo occidentale, ma è solo di superficie, e per un
terrorismo internazionale che attanaglia il mondo con la paura mostrando che la
pace non è un affatto un possesso sicuro. Ma c’è di peggio.
L’uomo d’oggi non osa più fare progetti per il futuro, e
neppure impegnarsi per il bene e per la verità, per la giustizia e per
il progresso del mondo. Credere è oggi molto più difficile che in
passato. La tentazione tipica dell’attuale generazione è quella di
lasciar cadere ogni previsione per vivere alla giornata, correndo dietro a
nuove illusioni che durano il tempo di un’impressione e di un happening.
Come una serie di fotogrammi in cui le singole immagini catturano per un
istante l’attenzione, rallegrando per un breve momento la nostra fantasia
e lasciandoci poi subito con l’impressione di un vuoto doloroso e
incolmabile, così sono le esperienze di felicità dell’uomo
contemporaneo.
Quello che i religiosi d’oggi hanno davanti a
sé, è un mondo nel quale non si osa più credere,
perché è venuta meno la speranza del futuro. Perciò gli
impegni a lunga scadenza, tanto civili come religiosi, non attirano e, ancor
meno, possono essere presi in considerazione: suscitano interrogativi e fanno
paura. I religiosi sono guardati come persone di un altro tempo
irrimediabilmente passato. Ebbene, è a questo mondo d’oggi e di
domani che noi religiosi dobbiamo offrire la testimonianza della nostra fede in
Colui su cui possiamo giocare la nostra vita. La vita consacrata è per
questo una sfida alla paura e all’incertezza dell’oggi, è un
gesto che va contro corrente, ma del quale il mondo ha un estremo bisogno,
perché soffre d’incertezza e soprattutto di una paura del futuro,
difficilmente identificabile ma reale.
TESTIMONI
DELL’AMORE
La testimonianza che noi siamo chiamati a dare è la
confessio Trinitatis di cui parla Giovanni Paolo II in Vita consecrata (17-22),
la professione di fede in un Dio che è Padre che ama, che è
Figlio amato e obbediente che si fida, e di un Amore che trasforma le persone
per riunirle insieme in una comunione che permette loro di sentirsi fratelli,
capaci di affrontare insieme la vita con le sue difficoltà. A questo
Dio, che certamente è un mistero insondabile, ma che si è fatto
vicino a noi nel suo Figlio fatto uomo come noi e che ci rivela il volto di
Dio, noi siamo consacrati. Non intendiamo minimamente dire che, per questo, noi
siamo migliori. Anche noi sentiamo le stesse prove dei nostri fratelli
postmoderni. Vogliamo solo sentirci in comunione con loro e offrire loro la
testimonianza della nostra fede, di una vita consegnata a lui per sempre.
Benedetto XVI nella sua prima enciclica ha voluto ricordare al mondo una verità
che facilmente diamo per scontata e che non ha più quella forza
educatrice che essa potrebbe e dovrebbe avere: Dio è amore, Dio
cioè ci ama e amandoci ci mette nella possibilità di rispondere
al suo amore e di offrire amore agli altri. Non è forse questa la nuova
evangelizzazione a cui da anni siamo invitati?
Il mondo in cui viviamo è il mondo della
comunicazione facile e rapida che, proprio per questo, rischia di essere vuota,
priva di veri contenuti, fino ad essere pura e nuda comunicazione. Per quanto paradossale
possa sembrare, spesso la nostra comunicazione è diventata virtuale,
fatta a distanza, senza contatto personale, senza conoscere personalmente
quelli con cui comunichiamo. Molta gente oggi, a forza di comunicare via
internet, a forza di chattare (dall’inglese to chat, chiacchierare) come
si dice, non è più capace d’incontrare gli altri e di
stabilire delle relazioni autenticamente interpersonali. Eppure proprio questa
ricerca esasperata della comunicazione virtuale dice quanto le persone sono oggi
assetate di relazioni vere, non formali, non burocratiche, non standardizzate,
d’incontri autentici e profondi, in una parola, di vero amore, che non si
riduca a una ricerca momentanea, ma sia un incontro vero con l’altro. Per
dirla in una parola, il mondo d’oggi comunica molto, ma soffre per
mancanza di comunione. È infelice e insoddisfatto, perché non
riesce a stabilire relazioni vere. La persona è spesso vittima delle sue
paure e perciò non osa impegnarsi in una relazione profonda e, meno
ancora, permanente. È così che le persone tendono a ripiegarsi su
di sé e s’accontentano di relazioni di piccolo cabotaggio,
effimere (di un giorno solo, cioè, come dice l’etimologia della
parola) che, più che relazioni, si risolvono in sensazioni ed esperienze
momentanee e passeggere. Sono relazioni, se di relazioni si può parlare,
che strumentalizzano gli altri per un momento di piacere e di condivisione che
finisce subito e lascia la persona più vuota e più povera di
prima.
CAPACI DI COMUNICAZIONE
E COMUNIONE
A questo mondo impaurito e sfiduciato, i religiosi di domani
dovranno avvicinarsi e dire che è ancora possibile stabilire con gli
altri delle relazioni interpersonali profonde, coinvolgenti e umanamente
arricchenti. Questo è uno dei significati più attuali del
celibato per il regno che non dovrà mai assumere, com’è
successo in passato, forme di misoginia o di misantropia e neppure quelle forme
d’austerità tali che finiscono per marcare le distanze facendoci
sembrare degli extraterrestri di cui non si riesce ad interpretare più
il linguaggio verbale e gestuale. Il celibato per il regno di Dio dovrebbe
rendere coloro che l’assumono accessibili a tutti, soprattutto a chi fa
fatica nell’amore, a chi non riesce a dare e ricevere amore, a chi ha
avuto brutte esperienze in questo campo. Essere consacrati a Dio non vuol dire
non essere più in grado di amare gli altri, come se le nostre riserve
d’amore fossero state prosciugate dall’esperienza dell’amore
di Dio. Vuol dire invece essere stati dilatati nella nostra capacità
d’amore dall’amore di Dio; vuol dire essere abilitati ad amare
davvero con tutto il cuore e con tutte le proprie forze, veramente e
teneramente, coloro che Dio mette accanto a noi, senza che il nostro amore si
esaurisca o si chiuda in una relazione esclusiva. Essere consacrati a Dio vuol
dire credere che l’amore, con cui Dio ci ama, diventa sorgente
d’amore per gli altri. Non è un caso che Benedetto XVI nella sua
prima enciclica abbia spiegato che cos’è l’amore e abbia
invitato tutti, religiosi e non, ad amare in pienezza secondo le due dimensioni
dell’amore, l’eros e l’agape.
In questo senso un ruolo di primissimo piano nella vita
religiosa futura avrà la qualità della vita comune dei religiosi,
la quale, dovrà essere sempre più un segno della possibile
comunione tra persone di differenti provenienze, un segno della comunione
ecclesiale in un mondo diviso dalle etnie e dai nazionalismi (cf. Vita
consecrata 51). Ma per questo la vita consacrata non dovrà più
mettere l’accento principale sul convivere sotto lo stesso tetto, quanto
sulla profonda comunione dei cuori, sulla testimonianza di persone che si
vogliono così bene da poter vivere anche da sole, quando questo richiede
la missione.
PROPOSTA DI COMUNIONE
CON I PIÙ POVERI
Il mondo nel quale viviamo, e che vogliamo amare con il
cuore di Dio, è il mondo della globalizzazione, del libero mercato e del
libero scambio commerciale, del liberalismo più … libero e senza
freni, in cui vige la «legge della giungla»: vinca il più
forte! Oggi chi ha molto può moltiplicare il proprio avere, ma chi non
ha è costretto a stare alla finestra e guardare senza poter fare nulla,
anzi perdendo anche quelle possibilità che ha, precipitando verso una
povertà sempre più disumana. Il nostro è il mondo delle
possibilità quasi illimitate che non riesce, però a dar da
mangiare ai propri figli, nel quale 4 persone su 5 sono sulla soglia della
povertà, costrette a vivere con poco più d’un dollaro al
giorno.
È il mondo della vergogna dove la comunione è
venuta meno, perché non c’è più voglia di
condividere, perché ci si guarda in cagnesco, come dei rivali in affari.
Tale mondo noi lo chiamiamo «villaggio globale», ma, del villaggio,
non ha né la prossimità né la solidarietà. Nel
mondo globalizzato ci potrebbe essere la pace e invece continuano a scoppiare
guerre che seminano paura e morte, che impediscono lo sviluppo delle persone.
Mai come oggi ci sono state tante guerre, mai come oggi è rinata la
paura della distruzione di massa.
A questo mondo noi diciamo che la persona umana vale non per
quello che ha, ma per quello che è. È il nostro voto di
povertà, che è voto di condivisione, a farci attenti alle persone
che soffrono, a farci condividere con loro la nostra ricchezza spirituale,
intellettuale e anche materiale, ma anche la loro lotta per un mondo più
giusto. In questo campo il futuro della vita consacrata è stato
già ampiamente anticipato e in più di un caso il loro impegno
accanto a chi soffre, ha causato loro noie e malintesi. Si sono trovati spesso
in mezzo ai conflitti, fuori e dentro della Chiesa, vittime della loro
volontà di «essere presenti» là dove più si
soffre. Non c’è, mi pare, bisogno di incoraggiarli …Semmai
si tratta di ritrovare cammini che sono stati proposti in passato, ma che sono
caduti in oblio per le polemiche di quella stagione difficile che è
stata quella della teologia della liberazione.
NUOVA OPZIONE
PREFERENZIALE PER I POVERI
Ora che quella stagione è passata e la teologia della
liberazione non fa più paura, è il caso di ritrovare quelle forme
di vivere il voto di povertà che Paolo VI aveva auspicato per rispondere
al “grido dei poveri” e che Giovanni Paolo II suggerisce in Vita
consecrata 82 dove motiva l’opzione preferenziale con l’amore per Cristo
che li porta a “vivere da poveri e ad abbracciare la causa dei poveri
…a denunciare le ingiustizie perpetrate contro tanti figli e figlie di
Dio e a impegnarsi per la promozione della giustizia nel campo sociale dove si
trovano a operare”.
La carità sarà sempre più la forma
della fede che condivide con gli altri, che s’impegna per gli altri e con
gli altri, che tende a fare comunione nel senso più vero della parola.
Non una comunione di beni offerti (è la più facile e forse la
meno efficace delle comunioni possibili) ma una comunione di vita. Rimane
chiaro che sono le motivazioni di queste scelte a renderle vere e durature.
È per assomigliare a Cristo, che si è fatto povero in mezzo a
noi, è per rivivere la sua solidarietà che i religiosi del futuro
s’impegneranno ancora nella solidarietà con i poveri del mondo,
per farli uscire da una situazione che non è degna dell’uomo, che
non è un segno del regno.
Ma non sarà sicuramente per farne degli uomini
«a una sola dimensione», che cercheranno la liberazione dei poveri.
Stare con loro e accanto a loro aiuterà i religiosi a rendersi conto che
c’è un’altra povertà che li accomuna: il bisogno che
tutti abbiamo di Dio e del fratello, il dovere dell’amore e della
solidarietà ad oltranza, anche quando avessimo vinto la lotta contro la
povertà materiale o sociale o politica.
La vita religiosa ritroverà la sua normale
collocazione in mezzo ai poveri per crescere con loro in una nuova maniera di
essere religiosi. L’opzione preferenziale per i poveri non sarà e
non potrà essere solo in favore dei poveri, ma avrà come scopo di
far nascere una “Chiesa dei poveri”, un’intenzione del
concilio (Lumen gentium 8) che ha perso i suoi profeti e quindi anche la sua
realizzazione, ma che sarebbe ora che rinascesse e si concretizzasse.
RIVELARE IL VOLTO
DEL DIO DI GESÙ CRISTO
L’ultima, ma la più radicale e decisiva, delle
urgenze del mondo, in mezzo al quale i religiosi vogliono vivere, è il
suo bisogno di vedere, rifratto nell’esperienza religiosa e umana dei
religiosi, il volto del vero Dio, quel Dio che Gesù ci ha mostrato e
descritto nella sua vita terrena e soprattutto nella sua morte e risurrezione:
un Dio che ama, che cerca i suoi figli, che li insegue nel loro vagabondare,
che gioisce quando li trova e si rattrista quando essi lo abbandonano. Il mondo
d’oggi considera l’immagine metafisica di Dio, onnipotente,
onnisciente, ma impassibile e lontano, il Dio dei filosofi che non interessa a
nessuno per negarne l’incidenza storica, per relegarlo
nell’angolino del privato e nelle sagrestie, e dichiararne l’insignificanza
nel nostro mondo scientifico e tecnologico.
Vediamo tutti dove questa negazione di Dio sta portando il
mondo. Non saranno le definizioni dogmatiche, né le argomentazioni
teologiche o filosofiche a riportare Dio nel mondo. Sarà solo la presenza
di testimoni che lo annunziano, magari in silenzio, pronti a pagare di persona
la loro fede. Saranno delle comunità di preghiera, aperte a chi desidera
condividere la ricerca di Dio a mostrare la verità di Dio. Saranno
religiosi e religiose che aprono il dialogo con ogni cercatore di Dio, anche
con chi lo nega, pur sentendone la nostalgia … Saranno capaci le nostre
comunità di fare questa nuova evangelizzazione? Da questo
dipenderà il futuro della vita consacrata. Saremo capaci di offrire il
volto di un Dio che sente con noi le sofferenze del mondo, un Dio che è
bello e attraente anche nel momento della Croce, un Dio che continua ad amare
anche quando è odiato ed estromesso, un Dio che ci fa esprimere amore
anche nelle situazioni più complesse e disperate?
Questo è il Vangelo che la vita religiosa del futuro,
se un futuro vuol avere, dovrà portare al mondo d’oggi. Il Dio
dell’amore e della speranza, di quella autentica, provata e garantita.
Tante voci provano oggi a dare speranza, ma solo chi ha fatto esperienza di
questa Presenza silenziosa e oscura, ma piena di appelli, potrà
trasmettere una speranza che va al di là di ogni possibile delusione.
È la speranza che nasce dalla croce del Risorto. Mentre il mondo mette
la sua speranza nelle armi, nei sistemi elettronici e satellitari di difesa, e
a chi non ha altro offre solo la possibilità di stordirsi nelle evasioni
alienanti, noi religiosi abbiamo un evangelo da proclamare, non con le parole
ma con la vita: noi crediamo che la vita celibataria è tanto soddisfacente
come quella coniugale, che la libertà dalle ricchezze dà
più sicurezza dei conti in banca e che l’obbedienza al Vangelo ci
dà tanta libertà da … non saperla come utilizzare!
Questo è il lieto annunzio che offriamo al mondo
d’oggi che ci chiede disperatamente se possiamo ancora credere, se
possiamo aver speranza e se possiamo amare in modo serio e duraturo. A questo
mondo noi proclamiamo che Dio ci ama, che egli è l’Amore, è
la sorgente e la scuola dell’amore che ci fa diventare persone umane
pienamente realizzate, capaci di lasciarsi amare, di produrre amore e di
insegnare ad amare. È il progetto del Regno!
IL PARADOSSO
DELLA DEBOLEZZA VINCENTe
Le sfide che il mondo pone alla vita consacrata in questa
nuova tappa della vita consacrata all’inizio del nuovo millennio, non
sono solo queste. Ci sono altri “areopaghi”, altrui luoghi che
attendono la presenza dei religiosi e delle religiose: i movimenti per la
giustizia e la pace, l’impegno per la difesa e la promozione dei diritti
della persona umana, per la promozione della vita e, in particolare, per la
promozione della donna, in tante parti del mondo considerata ancora una
schiava, e per la difesa dei minori e l’educazione dei giovani che
saranno la colonna portante del futuro del mondo. C’è poi il pianeta
della comunicazione di massa oggi divenuto una centrale della diffusione delle
idee e dei valori …e tanti altri areopaghi che nasceranno nel futuro
prossimo. Quante richieste sono davanti a noi! Come potremo rispondervi?
Per quanto paradossale possa sembrare, noi siamo sollecitati
a impegnarci proprio in un momento, come questo, in cui siamo, più che
mai, coscienti che la vita religiosa è a un passaggio critico e
difficile, di cui non serve descrivere i parametri, perché sono sotto
gli occhi di tutti. Proprio oggi siamo sollecitati dalla Chiesa a scrivere una
storia straordinariamente nuova e attesa, come ci ha profeticamente chiesto
papa Wojtyla, quando anch’egli stava entrando nella fase umanamente
destrutturate della sua esistenza! Non sarà una follia credere a
quest’invito e a questa possibilità?
La risposta la troviamo nella parola dell’apostolo:
“Quando sono debole è allora che sono forte” (2Co 12,10).
Paolo scriveva queste parole nelle pagine autobiografiche della sua seconda
lettera ai Corinzi, quando molte difficoltà si erano accumulate sul capo
dell’apostolo che si dichiarava tribolato e angosciato (ibid. 2,4) e
continuamente consegnato alla morte (ibid. 4,11) senza futuro se non nella
fede. E ciononostante, malgrado le prove, egli è ancora pieno di
speranza e dichiara e che, se porta il tesoro del suo ministro in vasi di
creta, è perché sia chiaro che quello che fa lo fa per la potenza
di Dio e non per la sua capacità (2Co 4,7).
Sarà bene che noi religiosi ricordiamo quest’atto
di fede di Paolo nel momento in cui cerchiamo di scrutare il futuro della vita
consacrata e di ripetere a noi stessi che le nostre possibilità
apostoliche non stanno nelle nostre forze, ma nella nostra debolezza
riconosciuta, accettata, ma coniugata con il mistero pasquale di Gesù e
la sua vittoria.
Proprio mentre sentiamo che il modello di questa vita
religiosa sta arrivando al suo capolinea e dovrebbe quindi essere cambiato,
siamo richiesti di dare speranza al mondo e di offrire alla Chiesa la certezza
della nostra speranza: la vita consacrata ha un futuro. Tocca proprio a noi
trasmettere una fiaccola che saremmo forse tentati di mettere da parte
perché ci sembra che stia ormai per spegnersi. La dobbiamo invece
consegnare ancora viva e accesa. La daremo in mano a chi la porterà
avanti verso un’altra tappa della vita consacrata e della Chiesa. Non
consegneremo, anzitutto, un progetto fatto d’opere e di servizi sociali
per la costruzione di una città più umana, costruita sulla
giustizia e sulla pace. Queste saranno conseguenze che saranno dedotte da
quello che vogliamo, invece, consegnare ai nostri successori: una vita
veramente consacrata a Dio, innamorata di Gesù Cristo, appassionata per
il suo regno, una vita che s’esprime in un gioioso e personale atto di
fede: “Conosco Colui nel quale ho posto la mia fiducia” (2Tm 1,12)
che risponde all’amore d Dio per noi: “Abbiamo conosciuto e creduto
all’amore che Dio ha per noi” (1Gv 4,16).
Il futuro della vita consacrata consisterà, prima di
tutto, in questo rapporto profondo e personale con Dio offerto al mondo
perché tutti possano viverlo con noi e come noi, senza rivalità,
senza monopoli o esclusivismi…Sarà un atto di fede che
determinerà la verità della vita consacrata all’interno
della Chiesa e ai confini del mondo, una vita che non sarà separata dal
mondo, ma al servizio di quel mondo che Dio ama fino al punto da consegnare il
Figlio ai suoi crocifissori (Gv 3,16).
La missione dei religiosi nella Chiesa e nel mondo
sarà sempre più vasta e non le saranno concessi sconti per
carenza di personale né per raggiunti limiti di età o a causa di
«lavori in corso». In questo tempo di nuova evangelizzazione,
mentre la vita consacrata sta passando per una crisi che è normale ma
che si protrae nel tempo e non sembra voler concludersi, noi religiosi siamo
chiamati non solo a sperare per conto nostro, ma ad essere speranza per gli
altri, ad interpretare la storia come cammino verso il Signore nella certezza
che è vera la parola del Signore. Ecco, io sono con voi tutti i giorni
fino alla fine del mondo (Mt 28,20). La nostra speranza è fondata
sull’esperienza del Salvatore che ci ha promesso la beatitudine
evangelica già qui: “Beati voi …”. Non ci è
affatto garantito di ritrovare i numeri e le situazioni …dei tempi
d’oro. Ma, ammesso che tutto dovesse crollare attorno a noi, se noi
salveremo la relazione con Dio, la fede in lui, nulla di essenziale sarà
venuto meno. Avremo ancora tutto ciò che è necessario per
riprendere il cammino con gioia. Oggi una cosa ci è chiesta e un’altra
ci è promessa: essere noi stessi, persone appartenenti a Dio, e se
vivremo con fervore e generosità quest’appartenenza al regno di
Dio, realizzeremo la promessa: lo Spirito del Signore si servirà ancora
di noi per fare le sue opere meravigliose in mezzo al suo popolo. La parola
d’ordine rimane ancora quella di Giovanni Paolo II: “Prendete il
largo e calate le reti per la pesca”. E saremo sorpresi di quello che
potremo ancora realizzare. Altro che essere alla fine…
Gabriele Ferrari s.x.