RISPOSTA A UNA DOMANDA FREQUENTE

PERCHÉ  CONFESSARSI?

 

Molti cristiani si chiedono perché bisogna confessarsi e per quale ragione confessarsi a un sacerdote. Mons. Bruno Forte ne illustra le ragioni e descrive le tappe dell’incontro con la misericordia che ci viene offerta da Dio nel sacramento: un incontro che deve essere sempre una festa.

 

Perché bisogna confessarsi? E perché andare da un sacerdote a dire i propri peccati e non farlo invece direttamente a Dio che ci conosce meglio di qualsiasi interlocutore umano? Qualcuno perfino obietta: ma c’è veramente il peccato o è solo un’invenzione dei preti per tenere buona la gente?

Se lo domanda mons. Bruno Forte, vescovo di Chieti-Vasto, in una lettera per l’anno pastorale 2005-2006 attraverso una riflessione ad alta voce che si apre con un invito: «Proviamo a capire insieme che cos’è la confessione: se lo capisci veramente, con la mente e col cuore, sentirai il bisogno e la gioia di fare esperienza di questo incontro, in cui Dio, donandoti il suo perdono attraverso il ministro della Chiesa, crea in te un cuore nuovo, mette in te uno Spirito nuovo, perché tu possa vivere un’esistenza riconciliata con lui, con te stesso e con gli altri, divenendo a tua volta capace di perdono e di amore al di là di ogni tentazione di sfiducia e di ogni misura di stanchezza».

Per parte sua, mons. Forte scrive: «Sono anni che mi confesso regolarmente, più volte al mese e con la gioia di farlo. La gioia nasce dal sentirmi amato in modo nuovo da Dio ogni volta che il suo perdono mi raggiunge attraverso il sacerdote che me lo dà in suo nome». E aggiunge: «È la gioia che ho visto tanto spesso sul volto di chi veniva a confessarsi: non il futile senso di leggerezza di chi “ha vuotato il sacco” (la confessione non è uno sfogo psicologico né un incontro consolatorio, o non lo è principalmente), ma la pace di sentirsi bene “dentro”, toccati nel cuore da un amore che sana, che viene dall’alto e ci trasforma. Chiedere con convinzione, ricevere con gratitudine e dare con generosità il perdono è sorgente di una pace impagabile: perciò, è giusto ed è bello confessarsi. Vorrei far partecipi delle ragioni di questa gioia tutti coloro che riuscirò a raggiungere con questa lettera.

 

CONFESSARSI

PERCHÉ IL PECCATO ESISTE

 

Occorre confessarsi, scrive mons. Forte, perché il peccato c’è, e non solo è male, ma fa male. Inoltre, se uno crede nell’amore di Dio percepisce come il peccato sia amore ripiegato su se stesso, ingratitudine di chi risponde all’amore con l’indifferenza e il rifiuto; un rifiuto che ha conseguenze non solo su chi lo vive, ma anche sulla società tutta intera, fino a produrre dei condizionamenti e degli intrecci di egoismi e di violenze che costituiscono delle vere e proprie “strutture di peccato”: «Proprio per questo non si deve esitare a sottolineare quanto sia grande la tragedia del peccato e quanto la perdita del senso del peccato – ben diverso da quella malattia dell’anima che chiamiamo “senso di colpa” – indebolisca il cuore davanti allo spettacolo del male e alle seduzioni di Satana, l’avversario che cerca di separarci da Dio».

A questo punto nasce l’interrogativo che non pochi si pongono: ma perché confessare i propri peccati a un sacerdote e non invece direttamente a Dio?

Certamente quando ci si confessa ci si rivolge sempre a Dio. Ma è Dio stesso che ci fa capire perché è necessario farlo davanti a un sacerdote: «Scegliendo di inviare suo Figlio nella nostra carne, egli dimostra di volerci incontrare mediante un contatto diretto, che passa attraverso i segni e i linguaggi della nostra condizione umana. Come lui è uscito da sé per amore nostro ed è venuto a “toccarci” con la sua carne, così noi siamo chiamati a uscire da noi stessi per amore suo e andare con umiltà e fede da chi può darci il perdono in nome suo con la parola e col gesto. Solo l’assoluzione dei peccati che il sacerdote ti dà nel sacramento può comunicarti la certezza interiore di essere stato veramente perdonato e accolto dal Padre che è nei cieli, perché Cristo ha affidato al ministero della Chiesa il potere di legare e sciogliere, di escludere e di ammettere nella comunità dell’alleanza (cf. Mt 18,17). È lui che, risorto dalla morte, ha detto agli apostoli: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteran­no non rimessi” (Gv 20,22s). Perciò, confessarsi da un sacerdote è tutt’altra cosa che farlo nel segreto del cuore, esposto alle tante insicurezze e ambiguità che riempiono la vita e la storia. Da solo non saprai mai veramente se a toccarti è stata la grazia di Dio o la tua emozione, se a perdonarti sei stato tu o è stato lui per la via che lui ha scelto. Assolto da chi il Signore ha scelto e inviato come ministro del perdono, potrai sperimentare la libertà che solo Dio dona e capirai perché confessarsi è fonte di pace».

Dio è un Dio vicino alla nostra debolezza: «La confessione è dunque l’incontro col perdono divino, offertoci in Gesù e trasmessoci mediante il ministero della Chiesa. In questo segno efficace della grazia, appuntamento con la misericordia senza fine, ci viene offerto il volto di un Dio che conosce come nessuno la nostra condizione umana e le si fa vicino con tenerissimo amore. Ce lo dimostrano innumerevoli episodi della vita di Gesù, dall’incontro con la Samaritana alla guarigione del paralitico, dal perdono all’adultera alle lacrime di fronte alla morte dell’amico Lazzaro… ».

«Di questa vicinanza tenera e compassionevole di Dio – prosegue mons. Forte – abbiamo immenso bisogno, come dimostra anche un semplice sguardo alla nostra esistenza: ognuno di noi con­vive con la propria debolezza, attraversa l’infermità, si affaccia alla morte, avverte la sfida delle domande che tutto questo accende nel cuore. Per quanto, poi, possiamo desiderare di fare il bene, la fragilità che ci caratterizza tutti ci espone conti­nuamente al rischio di cadere nella tentazione. L’apostolo Paolo ha descritto con precisione questa esperienza: “C’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Rm 7,18s). È il conflitto interiore da cui nasce l’invocazione: “Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” (Rm 7, 24). Ad essa risponde in modo particolare il sacra­mento del perdono, che viene a soccor­rerci sempre di nuovo nella nostra condi­zione di peccato, rag­giun­gendoci con la po­tenza sanante della grazia divina e trasfor­mando il nostro cuore e i compor­tamenti in cui ci esprimiamo. Perciò, la Chiesa non si stanca di proporci la grazia di questo sacramento durante l’intero cammino della nostra vita: attraverso di essa è Gesù, vero medico celeste, che viene a farsi carico dei nostri peccati e ad accompagnarci, continuando la sua opera di guari­gione e di salvezza. Come accade per ogni storia d’amore, anche l’alleanza col Signore va rinnovata senza sosta: la fedeltà è l’impegno sempre nuovo del cuore che si dona e accoglie l’amore che gli viene donato, fino al giorno in cui Dio sarà tutto in tutti».

 

LE TAPPE

DELL’INCONTRO

 

Proprio perché desiderato da un Dio profondamente “umano”, l’incontro con la misericordia che ci viene offerta da Gesù avviene attraverso varie tappe, che rispettano i tempi della vita e del cuore.

All’inizio, scrive mons. Forte, c’è l’ascolto della buona novella, in cui ti raggiunge l’appello dell’Amato: “il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15): «Attraverso questa voce è lo Spirito Santo ad agire in te, dandoti dolcezza nel rispondere e credere alla Verità». Se uno si rende docile a questa voce e decide di rispondervi con tutto il cuore, ha allora inizio il cammino che porta a quel dono prezioso che è la riconciliazione: essa «è appunto il sacramento dell’incontro con Cristo, che attraverso il ministero della Chiesa viene a soccorrere la debolezza di chi ha tradito o rifiutato l’alleanza con Dio, lo riconcilia col Padre e con la Chiesa, lo ricrea come creatura nuova nella forza dello Spirito Santo».

Questo sacramento, spiega mons. Forte, «è chiamato anche della penitenza, perché in esso si esprime la conversione dell’uomo, il cammino del cuore che si pente e viene ad invocare il perdo­no di Dio».

Invece «il termine confessione – usato comunemente – si riferisce all’atto di confessare le proprie colpe davanti al sacerdote, ma richiama anche la triplice confessione da fare per vivere in pienezza la celebrazione della riconciliazione: la confessione di lode (confessio laudis), con cui facciamo memoria dell’amore divino che ci precede e ci accompagna, riconoscendone i segni nella nostra vita e comprendendo meglio in tal modo la gravità della nostra colpa; la confessione del peccato, con la quale presentiamo al Padre il nostro cuore umile e pentito riconoscendo i nostri peccati (confessio peccati); la confessione di fede, infine, con cui ci apriamo al perdono che libera e salva, offertoci con l’assoluzione (confessio fidei). A loro volta, i gesti e le parole in cui esprimeremo il dono che abbiamo ricevuto confesseranno nella vita le meraviglie operate in noi dalla misericordia di Dio».

 

UN INCONTRO

CHE È UNA FESTA

 

Attraverso le parole dell’assoluzione pronunciate da un uomo peccatore, che però è stato scelto e consacrato per il ministero, «è Cristo stesso che accoglie il peccatore pentito e lo riconcilia col Padre e nel dono dello Spirito Santo lo rinnova come membro vivo della Chiesa: «Riconciliati con Dio, veniamo accolti nella comunione vivificante della Trinità e riceviamo in noi la vita nuova della grazia, l’amore che solo Dio può effondere nei nostri cuori: il sacra­mento del perdono rinnova, così, il nostro rapporto col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo, nel cui nome ci è data l’assoluzione delle colpe».

Come mostra la parabola del padre e dei due figli, l’incontro della riconciliazione culmina in un banchetto di vivande saporite, cui si partecipa col vestito nuovo, l’anello e i calzari ai piedi (cf. Lc 15,22s): immagini che esprimono tutte la gioia e la bellezza del dono offerto e ricevuto. Veramente, per usare le parole del Padre della parabola, “bisogna far festa e rallegrarsi, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15,24). Come è bello pensare che quel figlio può essere ognuno di noi!

È festa perché si tratta di un “ritorno a casa”. Infatti, sottolinea Bruno Forte, «Attraverso la presa di coscienza delle tue colpe, ti accorgi di essere in esilio, lontano dalla patria dell’amore: avverti disagio, dolore, perché capisci che la colpa è una rottura dell’alleanza col Signore, un rifiuto del Suo amore, è “amore non amato”, e proprio così è anche sorgente di alienazione, perché il peccato ci sradica dalla nostra vera dimora, il cuore del Padre. È allora che occorre ricordarci della casa dove siamo attesi: senza questa memoria dell’amore non potremmo mai avere la fiducia e la speranza necessarie a prendere la decisione di tornare a Dio. Con l’umiltà di chi sa di non essere degno di venir chiamato “figlio”, possiamo deciderci di andare a bussare alla porta della casa del Padre: quale sorpresa scoprire che lui è alla finestra a scrutare l’orizzonte, perché aspetta da tanto il nostro ritorno! Alle nostre mani aperte, al cuore umile e pentito risponde la gratuita offerta del perdo­no, con cui il Padre ci riconcilia con sé, “convertendosi” in qualche modo a noi: “Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incon­tro, gli si gettò al collo e lo baciò” (Lc 15,20). Con straordinaria tenerezza Dio ci introduce in modo rinnovato nella condizione di figli, offerta dall’alleanza stabilita in Gesù».

Ed è festa anche perché è un incontro con Cristo, morto e risorto per noi: «il sacra­men­to della riconciliazione ci offre la gioia dell’incontro con lui, il Signore crocifisso e risorto, che attraverso la sua Pasqua ci dona la vita nuova infondendo il Suo Spirito nei nostri cuori. Questo incontro si compie attraverso l’itinerario che porta ognuno di noi a confessare le nostre colpe con umiltà e dolore dei peccati e a ricevere con gratitudine piena di stupore il perdono. Uniti a Gesù nella sua morte di croce, moriamo al peccato e all’uomo vecchio che in esso ha trionfato. Il Suo sangue sparso per noi ci riconcilia con Dio e con gli altri, abbattendo il muro dell’inimicizia che ci teneva prigionieri della nostra solitudine senza speranza e senza amore. La forza della Sua resurrezione ci raggiunge e trasforma: il Risorto ci tocca il cuore, lo fa ardere in noi di una fede nuova, che schiude i nostri occhi e ci rende capaci di riconoscere lui accanto a noi e la sua voce in chi ha bisogno di noi».

 

LA VITA NUOVA

NELLO SPIRITO

 

Inizia così una vita nuova, la vita nello Spirito.Il sacramento della riconciliazione infatti è sorgente di vita nuova, comunione rinnovata con Dio e con la Chiesa. E lo Spirito ci aiuta a maturare il proposito fermo di vivere un cammino di conversione fatto di impegni concreti di carità e di preghiera. La vita nuova, a cui rinasciamo, può dimostrare più ogni altra cosa la bellezza e la forza el perdono sempre di nuovo invocato e ricevuto. «Perché allora, si chiede Bruno Forte, fare a meno di un dono così grande? Accostati alla confessione con cuore umile e contrito e vivila con fede: ti cambierà la vita e darà pace al tuo cuore».

Di qui l’invito finale: «Lasciamoci riconciliare con Dio!».

 

1 Sul tema della confessione la nostra rivista ha pubblicato un interessante articolo anche nel numero precedente, il 9 intitolato Confessione e idee false di Dio, pp. 7-10.