IL SACERDOTE COME IL BUON PASTORE

 

Oltre all’omelia del Giovedì Santo, spiritualmente molto ricca è anche quella che il papa ha tenuto il 7 maggio per l’ordinazione presbiterale di 15 diaconi della diocesi di Roma. L’omelia è tutta impostata sul vangelo di Gesù buon pastore, assegnata dalla liturgia per quella domenica, la IV di Pasqua.

«Gesù, prima di designarsi come pastore, dice con nostra sorpresa: “Io sono la porta” (Gv 10, 7). È attraverso di lui che si deve entrare nel servizio di pastore. Gesù mette in risalto molto chiaramente questa condizione di fondo affermando: “Chi... sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante” (Gv 10, 1). Questa parola “sale” – anabainei in greco – evoca l’immagine di qualcuno che si arrampica sul recinto per giungere, scavalcando, là dove legittimamente non potrebbe arrivare. “Salire”: si può qui vedere anche l’immagine del carrierismo, del tentativo di arrivare “in alto”, di procurarsi una posizione mediante la Chiesa: servirsi, non servire. È l’immagine dell’uomo che, attraverso il sacerdozio, vuole farsi importante, diventare un personaggio; l’immagine di colui che ha di mira la propria esaltazione e non l’umile servizio di Gesù Cristo. Ma l’unica ascesa legittima verso il ministero del pastore è la croce. È questa la vera ascesa, è questa la vera porta. Non desiderare di diventare personalmente qualcuno, ma invece esserci per l’altro, per Cristo, e così mediante lui e con lui esserci per gli uomini che egli cerca, che egli vuole condurre sulla via della vita. Si entra nel sacerdozio attraverso il sacramento - e ciò significa appunto: attraverso la donazione di se stessi a Cristo, affinché egli disponga di me; affinché io lo serva e segua la sua chiamata, anche se questa dovesse essere in contrasto con i miei desideri di autorealizzazione e stima. Entrare per la porta, che è Cristo, vuol dire conoscerlo e amarlo sempre di più, perché la nostra volontà si unisca alla sua e il nostro agire diventi una cosa sola col suo agire».

Attraverso l’immagine del buon pastore, ha proseguito il papa, Gesù vuole dirci tre cose. «La prima, che con grande forza pervade tutto il discorso sui pastori, dice: il pastore dà la sua vita per le pecore. Il mistero della croce sta al centro del servizio di Gesù quale pastore: è il grande servizio che egli rende a tutti noi. Egli dona se stesso, e non solo in un passato lontano. Nella sacra Eucaristia ogni giorno realizza questo, dona se stesso mediante le nostre mani, dona sé a noi. Per questo, a buona ragione, al centro della vita sacerdotale sta la sacra Eucaristia, nella quale il sacrificio di Gesù sulla croce rimane continuamente presente, realmente tra di noi. E a partire da ciò impariamo anche che cosa significa celebrare l’Eucaristia in modo adeguato: è un incontrare il Signore che per noi si spoglia della sua gloria divina, si lascia umiliare fino alla morte in croce e così si dona a ognuno di noi. È molto importante per il sacerdote l’Eucaristia quotidiana, nella quale si espone sempre di nuovo a questo mistero; sempre di nuovo pone se stesso nelle mani di Dio sperimentando al contempo la gioia di sapere che egli è presente, mi accoglie, sempre di nuovo mi solleva e mi porta, mi dà la mano, se stesso. L’Eucaristia deve diventare per noi una scuola di vita, nella quale impariamo a donare la nostra vita. La vita non la si dona solo nel momento della morte e non soltanto nel modo del martirio. Noi dobbiamo donarla giorno per giorno. Occorre imparare giorno per giorno che io non possiedo la mia vita per me stesso. Giorno per giorno devo imparare ad abbandonare me stesso; a tenermi a disposizione per quella cosa per la quale Egli, il Signore, sul momento ha bisogno di me, anche se altre cose mi sembrano più belle e più importanti.

Come seconda cosa il Signore ci dice: “Io conosco le mie pecore, e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre “ (Gv 10, 14-15). Sono in questa frase due rapporti apparentemente del tutto diversi che qui si trovano intrecciati l’uno con l’altro: il rapporto tra Gesù e il Padre e il rapporto tra Gesù e gli uomini a lui affidati.

Così deve essere quindi nel nostro caso. Innanzitutto nel nostro intimo dobbiamo vivere il rapporto con Cristo e per il suo tramite con il Padre; solo allora possiamo veramente comprendere gli uomini, solo alla luce di Dio si capisce la profondità dell’uomo. Allora chi ci ascolta si rende conto che non parliamo di noi, di qualcosa, ma del vero pastore. Ovviamente, nelle parole di Gesù è anche racchiuso tutto il compito pastorale pratico, di seguire gli uomini, di andare a trovarli, di essere aperti per le loro necessità e le loro domande. Ovviamente è fondamentale la conoscenza pratica, concreta delle persone a me affidate, e ovviamente è importante capire questo “conoscere” gli altri nel senso biblico: non c’è una vera conoscenza senza amore, senza un rapporto interiore, senza una profonda accettazione dell’altro. Il pastore non può accontentarsi di sapere i nomi e le date. Il suo conoscere le pecore deve essere sempre anche un conoscere con il cuore. Questo però è realizzabile in fondo soltanto se il Signore ha aperto il nostro cuore; se il nostro conoscere non lega le persone al nostro piccolo io privato, al nostro proprio piccolo cuore, ma invece fa sentire loro il cuore di Gesù, il cuore del Signore. Deve essere un conoscere col cuore di Gesù e orientato verso di lui, un conoscere che non lega l’uomo a me, ma lo guida verso Gesù rendendolo così libero e aperto. E così anche noi tra uomini diveniamo vicini. Affinché questo modo di conoscere con il cuore di Gesù, di non legare a me ma di legare al cuore di Gesù e di creare così vera comunità, che questo ci sia donato, vogliamo sempre di nuovo pregare il Signore.

Infine il Signore ci parla del servizio dell’unità affidato al pastore: “Ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore” (Gv 10, 16).

La missione di Gesù riguarda l’umanità intera, e perciò alla Chiesa è data una responsabilità per tutta l’umanità… La Chiesa non deve mai accontentarsi della schiera di coloro che a un certo punto ha raggiunto, e dire che gli altri stiano bene così: i musulmani, gli induisti e via dicendo. La Chiesa non può ritirarsi comodamente nei limiti del proprio ambiente. È incaricata della sollecitudine universale, deve preoccuparsi per tutti e di tutti. Questo grande compito in generale lo dobbiamo “tradurre” nelle nostre rispettive missioni. Ovviamente un sacerdote, un pastore d’anime, deve innanzitutto preoccuparsi di coloro, che credono e vivono con la Chiesa, che cercano in essa la strada della vita e che da parte loro, come pietre vive, costruiscono la Chiesa e così edificano e sostengono insieme anche il sacerdote. Tuttavia, dobbiamo anche sempre di nuovo – come dice il Signore – uscire “per le strade e lungo le siepi” (Lc 14, 23) per portare l’invito di Dio al suo banchetto anche a quegli uomini che finora non ne hanno ancora sentito niente, o non ne sono stati toccati interiormente…

La Chiesa antica ha trovato nella scultura del suo tempo la figura del pastore che porta una pecora sulle sue spalle. Forse queste immagini fanno parte del sogno idillico della vita campestre che aveva affascinato la società di allora. Ma per i cristiani questa figura diventava con tutta naturalezza l’immagine di colui che si è incamminato per cercare la pecora smarrita: l’umanità; l’immagine di Colui che ci segue fin nei nostri deserti e nelle nostre confusioni; l’immagine di Colui che ha preso sulle sue spalle la pecora smarrita, che è l’umanità, e la porta a casa. È divenuta l’immagine del vero pastore Gesù Cristo».