IL PAPA AI SACERDOTI

GESÙ HA DETTO “TU MI APPARTIENI”

 

È importante tornare a riflettere sul gesto antichissimo dell’imposizione delle mani, col quale il Signore ha preso possesso di me dicendomi: “Tu mi appartieni”. Ma con ciò ha anche detto: “Tu stai sotto la protezione delle mie mani. Tu stai sotto la protezione del mio cuore, ti trovi nella vastità del mio amore. Rimani nello spazio delle mie mani e dammi le tue”.

 

Lo scorso giovedì santo, Benedetto XVI nell’omelia della messa crismale ha proposto una riflessione spirituale molto intensa sulla grazia del sacerdozio e ha invitato i sacerdoti a non dimenticarsene, magari troppo presi dalle cose quotidiane da fare e dall’attivismo che minaccia di svuotarne il significato. Ha ricordato che il sacerdote in virtù del sacramento parla e agisce con l’io di Cristo. in persona Christi. «Cristo, ha detto, vuole esercitare il suo sacerdozio per nostro tramite… Abbiamo bisogno di un simile ricordo specifico, abbiamo bisogno del ritorno a quell’ora in cui egli ha posto le sue mani su di noi e ci ha fatti partecipi di questo mistero».

«È importante perciò tornare a riflettere nuovamente sui segni nei quali il sacramento ci è stato donato. Al centro, ha sottolineato il papa, c’è il gesto antichissimo dell’imposizione delle mani, col quale egli ha preso possesso di me dicendomi: “Tu mi appartieni”. Ma con ciò ha anche detto: “Tu stai sotto la protezione delle mie mani. Tu stai sotto la protezione del mio cuore. Tu sei custodito nel cavo delle mie mani e proprio così ti trovi nella vastità del mio amore. Rimani nello spazio delle mie mani e dammi le tue”.

 

METTIAMO LE NOSTRE MANI

A SUA DISPOSIZIONE

 

Ricordiamo poi che le nostre mani sono state unte con l’olio che è il segno dello Spirito Santo e della sua forza. Perché proprio le mani? La mano dell’uomo è lo strumento del suo agire, è il simbolo della sua capacità di affrontare il mondo, appunto di “prenderlo in mano”. Il Signore ci ha imposto le mani e vuole ora le nostre mani affinché, nel mondo, diventino le sue. Vuole che non siano più strumenti per prendere le cose, gli uomini, il mondo per noi, per ridurlo in nostro possesso, ma che invece trasmettano il suo tocco divino, ponendosi a servizio del suo amore. Vuole che siano strumenti del servire e quindi espressione della missione dell’intera persona che si fa garante di lui e lo porta agli uomini.

Se le mani dell’uomo rappresentano simbolicamente le sue facoltà e, generalmente, la tecnica come potere di disporre del mondo, allora le mani unte devono essere un segno della sua capacità di donare, della creatività nel plasmare il mondo con l’amore, e per questo, senz’altro, abbiamo bisogno dello Spirito Santo. Nell’Antico Testamento l’unzione è segno dell’assunzione in servizio: il re, il profeta, il sacerdote fa e dona più di quello che deriva da lui stesso. In un certo qual modo è espropriato di sé in funzione di un servizio, nel quale si mette a disposizione di uno più grande di lui. Se Gesù si presenta oggi nel Vangelo come l’Unto di Dio, il Cristo, allora questo vuol proprio dire che egli agisce per missione del Padre e nell’unità con lo Spirito Santo e che, in questo modo, dona al mondo una nuova regalità, un nuovo sacerdozio, un nuovo modo d’essere profeta, che non cerca se stesso, ma vive per colui, in vista del quale il mondo è stato creato. Mettiamo le nostre mani oggi nuovamente a sua disposizione e preghiamolo di prenderci sempre di nuovo per mano e di guidarci.

Nel gesto sacramentale dell’imposizione delle mani da parte del vescovo è stato il Signore stesso a imporci le mani. Questo segno sacramentale riassume un intero percorso esistenziale. Una volta, come i primi discepoli, abbiamo incontrato il Signore e sentito la sua parola: “Seguimi!”. Forse inizialmente lo abbiamo seguito in modo un po’ malsicuro, volgendoci indietro e chiedendoci se la strada fosse veramente la nostra.

E in qualche punto del cammino abbiamo forse fatto l’esperienza di Pietro dopo la pesca miracolosa, siamo cioè rimasti spaventati per la sua grandezza, la grandezza del compito e per l’insufficienza della nostra povera persona, così da volerci tirare indietro: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore!” (Lc 5, 8). Ma poi egli, con grande bontà, ci ha preso per mano, ci ha tratti a sé e ci ha detto: “Non temere! Io sono con te. Non ti lascio, tu non lasciare me!”. E più di una volta a ognuno di noi è forse accaduta la stessa cosa che a Pietro quando, camminando sulle acque incontro al Signore, improvvisamente si è accorto che l’acqua non lo sosteneva e che stava per affondare. E come Pietro abbiamo gridato: “Signore, salvami!” (Mt, 14, 30). Vedendo tutto l’infuriare degli elementi, come potevamo passare le acque rumoreggianti e spumeggianti del secolo scorso e dello scorso millennio? Ma allora abbiamo guardato verso di lui … ed egli ci ha afferrati per la mano e ci ha dato un nuovo “peso specifico”: la leggerezza che deriva dalla fede e che ci attrae verso l’alto. E poi ci dà la mano che sostiene e porta. Egli ci sostiene. Fissiamo sempre di nuovo il nostro sguardo su di lui e stendiamo le mani verso di lui. Lasciamo che la sua mano ci prenda, e allora non affonderemo, ma serviremo la vita che è più forte della morte, e l’amore che è più forte dell’odio. La fede in Gesù, Figlio del Dio vivente, è il mezzo grazie al quale sempre di nuovo afferriamo la mano di Gesù e mediante il quale egli prende le nostre mani e ci guida. Una mia preghiera preferita è la domanda che la liturgia ci mette sulle labbra prima della comunione: “…non permettere che sia mai separato da te”. Chiediamo di non cadere mai fuori della comunione col suo corpo, con Cristo stesso, di non cadere mai fuori del mistero eucaristico. Chiediamo che egli non lasci mai la nostra mano…

 

HA POSTO

LA SUA MANO SU DI NOI

 

Il Signore ha posto la sua mano su di noi. Il significato di tale gesto lo ha espresso nelle parole: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15, 15). Non vi chiamo più servi, ma amici: in queste parole si potrebbe addirittura vedere l’istituzione del sacerdozio.

Il Signore ci rende suoi amici: ci affida tutto; ci affida se stesso, così che possiamo parlare con il suo io, in persona Christi capitis. Che fiducia! Egli si è davvero consegnato nelle nostre mani. I segni essenziali dell’ordinazione sacerdotale sono in fondo tutti manifestazioni di quella parola: l’imposizione delle mani; la consegna del libro della sua parola che egli affida a noi; la consegna del calice col quale ci trasmette il suo mistero più profondo e personale. Di tutto ciò fa parte anche il potere di assolvere: ci fa partecipare anche alla sua consapevolezza riguardo alla miseria del peccato e a tutta l’oscurità del mondo e ci dà la chiave nelle mani per riaprire la porta verso la casa del Padre. Non vi chiamo più servi ma amici. È questo il significato profondo dell’essere sacerdote: diventare amico di Gesù Cristo. Per questa amicizia dobbiamo impegnarci ogni giorno di nuovo. Amicizia significa comunanza nel pensare e nel volere.

In questa comunione di pensiero con Gesù dobbiamo esercitarci, ci dice san Paolo nella Lettera ai Filippesi (2, 2-5). E questa comunione di pensiero non è una cosa solamente intellettuale, ma è comunanza dei sentimenti e del volere e quindi anche dell’agire. Ciò significa che dobbiamo conoscere Gesù in modo sempre più personale, ascoltandolo, vivendo insieme con lui, trattenendoci presso di lui. Ascoltarlo nella lectio divina, cioè leggendo la Sacra Scrittura in un modo non accademico, ma spirituale; così impariamo a incontrare il Gesù presente che ci parla. Dobbiamo ragionare e riflettere sulle sue parole e sul suo agire davanti a lui e con lui. La lettura della Sacra Scrittura è preghiera, deve essere preghiera, deve emergere dalla preghiera e condurre alla preghiera. Gli evangelisti ci dicono che il Signore ripetutamente – per notti intere – si ritirava “sul monte” per pregare da solo. Di questo “monte” abbiamo bisogno anche noi: è l’altura interiore che dobbiamo scalare, il monte della preghiera. Solo così si sviluppa l’amicizia. Solo così possiamo svolgere il nostro servizio sacerdotale, solo così possiamo portare Cristo e il suo Vangelo agli uomini. Il semplice attivismo può essere persino eroico. Ma l’agire esterno, in fin dei conti, resta senza frutto e perde efficacia, se non nasce dalla profonda intima comunione con Cristo. Il tempo che impegniamo per questo è davvero tempo di attività pastorale, di un’attività autenticamente pastorale. Il sacerdote deve essere soprattutto un uomo di preghiera. Il mondo nel suo attivismo frenetico perde spesso l’orientamento. Il suo agire e le sue capacità diventano distruttive, se vengono meno le forze della preghiera, dalle quali scaturiscono le acque della vita capaci di fecondare la terra arida.

 

UOMINI DI PREGHIERA

PERCHÉ SUOI AMICI

 

Non vi chiamo più servi, ma amici. Il nucleo del sacerdozio è l’essere amici di Gesù Cristo. Solo così pos­siamo parlare veramente in persona ­Christi, anche se la nostra interiore lontananza da Cristo non può compromettere la validità del sacramento. Essere amico di Gesù, essere sacerdote significa essere uomo di preghiera. Così lo riconosciamo e usciamo dall’ignoranza dei semplici servi. Così impariamo a vivere, a soffrire e ad agire con lui e per lui. L’amicizia con Gesù è per antonomasia sempre amicizia con i suoi. Possiamo essere amici di Gesù soltanto nella comunione con il Cristo intero, con il capo e il corpo; nella vite rigogliosa della Chiesa animata dal suo Signore. Solo in essa la Sacra Scrittura è, grazie al Signore, Parola viva e attuale. Senza il vivente soggetto della Chiesa che abbraccia le età, la Bibbia si frantuma in scritti spesso eterogenei e diventa così un libro del passato. Essa è eloquente nel presente soltanto là dove c’è la “Presenza”, là dove Cristo resta in permanenza contemporaneo a noi: nel corpo della sua Chiesa.

Essere sacerdote significa diventare amico di Gesù Cristo, e questo sempre di più con tutta la nostra esistenza. Il mondo ha bisogno di Dio, non di un qualsiasi dio, ma del Dio di Gesù Cristo, del Dio che si è fatto carne e sangue, che ci ha amati fino a morire per noi, che è risorto e ha creato in se stesso uno spazio per l’uomo. Questo Dio deve vivere in noi e noi in lui. È questa la nostra chiamata sacerdotale: solo così il nostro agire da sacerdoti può portare frutti».

Prima di terminare, il papa ha ricordato una parola di Andrea Santoro, il sacerdote della diocesi di Roma assassinato in Turchia, a Trebisonda, il 5 marzo scorso: «Sono qui per abitare in mezzo a questa gente e permettere a Gesù di farlo prestandogli la mia carne… Si diventa capaci di salvezza solo offrendo la propria carne. Il male del mondo va portato e il dolore va condiviso, assorbendolo nella propria carne fino in fondo come ha fatto Gesù». «Gesù, ha concluso il papa, ha assunto la nostra carne. Diamogli noi la nostra, in questo modo egli può venire nel mondo e trasformarlo».