I RELIGIOSI E IL CONVEGNO DI VERONA

FRATERNITÀ E VITA AFFETTIVA

 

Un simposio sul primo ambito del convegno ecclesiale di Verona. Ogni persona è un “mistero” aperto all’affettività. L’educazione come processo dinamico, non un semplice fatto tecnico. Dall’identità affettiva personale a quella comunitaria. Maturità affettiva e vocazione.

 

Il primo dei cinque ambiti in cui il cristiano è chiamato a testimoniare il Cristo risorto, speranza del mondo, di cui si parla nella traccia di riflessione in preparazione al convegno ecclesiale di Verona, è quello riguardante la vita affettiva. È infatti a livello affettivo che ogni persona «fa l’esperienza primaria della relazione buona (o cattiva), vive l’aspettativa di un mondo accogliente ed esprime con la maggiore spontaneità il suo desiderio di felicità». Aprire alla speranza la dimensione affettiva delle relazioni, aprirsi, in altre parole, alla ricchezza delle relazioni è un obiettivo sul quale sono chiamati a riflettere seriamente anche i religiosi e le religiose. È un problema che li riguarda direttamente proprio in quanto consacrati.

Il merito dello studio teologico dei cappuccini di Venezia, il Laurentianum, è stato quello di avere intenzionalmente posto a tema, nel suo sesto symposium, svoltosi a Padova, il 6 aprile scorso, “la vita affettiva in fraternità”. Soprattutto i più recenti documenti sulla vita consacrata insistono continuamente sulla testimonianza della vita comunitaria o come è proprio nella tradizione francescana, della fraternità. «Le comunità di vita consacrata sono mandate ad annunziare con la testimonianza della loro vita il valore della fraternità cristiana e la forza trasformante della buona novella» (VC 51). In un mondo spesso fortemente diviso e di fronte a tutti i propri fratelli nella fede, i religiosi «testimoniano la loro capacità di comunione dei beni, dell’affetto fraterno, del progetto di vita e di attività che loro proviene dall’aver accolto l’invito a seguire più liberamente e più da vicino Cristo Signore» (La vita fraterna in comunità 10).

 

UNA COMPONENTE

FONDAMENTALE

 

Padre Franco Imoda, gesuita, esperto in psicologia, già rettore dell’università Gregoriana, ha cercato di evidenziare alcuni presupposti psicologici e antropologici della testimonianza di una fraternità religiosa. Quando il concilio riponeva il futuro «nelle mani di coloro che sono capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza» (Gaudium et spes 31), non poteva non pensare anche alla testimonianza di tutte le comunità di vita consacrata.

Ma spesso questa testimonianza è compromessa dalla perdita della capacità di costruire proprio la dimensione affettiva. È una perdita che spesso ha a che fare con la caduta del senso della storicità e del tempo, con la scomparsa della concatenazione dei significati, con la perdita di capacità critica e di un impegno stabile e incondizionato. In tal senso è facile perdere di vista la realtà della persona come mistero (G. Marcel), e vederla invece semplicemente come una somma di problemi.

Ma se la persona è mistero, allora la si deve aiutare anche sul piano affettivo ad assumere il suo passato personale e culturale e a orientarsi verso il futuro con un progetto carico di attese. Diversamente l’alternativa è quella di abbandonare la persona alla facile ricerca di soluzioni puramente tecniche, incapaci, come tali, di sviluppare tutte le sue potenzialità.

A questo riguardo diviene fondamentale il processo pedagogico. Ma, si è chiesto p. Imoda, non lo si è forse sottovalutato non solo nell’area della conoscenza e in quella dell’azione, ma anche nell’area dell’affettività? Se è importante il pensiero e il senso critico, non lo è meno anche un «crescente impegno di una volontà che divenga capace di impegnarsi assumendo il suo passato in un libero progetto per il futuro». Ma proprio in questa progettazione di futuro entra in gioco l’affettività, quella componente fondamentale dello sviluppo troppo spesso dimenticata.

Proprio quando il mistero della persona rischia di perdersi nella frammentazione affettiva, nello scoraggiamento, in una depressione generalizzata, può essere allora determinante un’attenzione pedagogica come «arte di riconoscere non solo le domande e la ricerca, ma anche le risposte e le soluzioni che il soggetto si è dato». Nel campo dell’affettività, infatti, è molto facile evitare, nascondere, reprimere, trasformare o camuffare certe domande e certe risposte. La scelta pedagogica del laissez faire che tende non solo ad accogliere ma anche ad adeguarsi alla domanda, al bisogno del bambino, del giovane e anche dell’adulto, non porta da nessuna parte. «La libertà può anche esercitarsi in modo autodistruttivo». È allora inevitabile una interazione complessa tra il soggetto e il suo educatore in modo che la libertà del soggetto possa esplicarsi nella creatività.

L’educazione non può essere mai solo il risultato di un processo esclusivamente di carattere tecnico. «La persona umana nella sua realtà di mistero non potrà mai essere trattata come una combinazione meccanica di forze». Ci si dovrà accostare e rispettare la libertà del soggetto «come sorgente di scelte e di impegni».

L’opera educativa, anche nell’area dell’affettività, è qualcosa cui tutti sono chiamati, non solo nei confronti degli altri, ma anche di sé stessi. «Questo processo di autoeducazione non solo è irrinunciabile, ma costituisce la dignità stessa della vita umana». Solo ponendo le domande giuste, osserva Imoda, è possibile far emergere nell’altro le domande più profonde, più vere e decisive, «anche di quelle che possono essere sepolte nei recessi del cuore dove sono spesso all’opera dinamiche inconsce».

Educare ed educarsi significa anche avere una piena consapevolezza del “tremendo e meraviglioso” influsso dell’ambiente famigliare e culturale sulla persona. L’azione educativa, attraverso un equilibrio dinamico di tutti i fattori in campo nella vita di una persona, deve facilitare il passaggio a più ampi e ricchi orizzonti e scongiurare, invece, quei blocchi affettivi che possono poi seriamente compromettere lo sviluppo di tutta la persona.

P. Imoda ha concluso il suo intervento citando l’episodio della guarigione dello storpio da parte dell’apostolo Pietro. «Non possiedo né oro né argento, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, alzati e cammina» (Atti 3, 6). Ogni intervento educativo, anche nel campo dell’affettività, può avere un unico e fondamentale scopo, quello di promuovere la creatività, di risvegliare la volontà di crescere, di “camminare”, appunto, aprendosi alle dimensioni più profonde della propria personalità.

 

FRATERNITÀ

NON CONVIVENZE

 

L’ambito della vita affettiva, tra i cinque enunciati dalla traccia preparatoria del convengo di Verona, ha poi esordito la psicologa Rosa Galimberti, è l’ambito fondamentale. Tutti gli altri, in un certo senso, ne dipendono e sono ad esso collegati. L’affettività, infatti, non è solo una componente specifica della personalità, ma è anche e soprattutto capacità di relazionarsi con gli altri. Ogni persona sviluppa la propria identità a partire dal fatto primario dell’essere amorevolmente accolta. È sempre nel contesto di un affetto ricevuto e dato che si consolida il carattere, si superano le frustrazioni, si sviluppa persino l’intelligenza. Tutto lo sviluppo della persona in ogni suo ambito si muove perciò dentro questa realtà di scambio amorevole.

La dimensione affettiva personale è sempre aperta a quella comunitaria. È facile, pertanto, passare dall’identità e dall’affettività personale all’identità e affettività comunitaria. Sarà poi questa affettività a produrre e a esprimere la stessa capacità donativa del gruppo a cui si appartiene, dando vita, così, ad una comunità «che ama, accoglie, accompagna, fa crescere, genera o, diversamente, isola, mortifica». Esiste quindi un modo di porsi in relazione, di servire, di donare anche e soprattutto comunitariamente. L’affettività collettiva «ci dice cosa esprimiamo insieme e come lo facciamo». In altre parole, testimonia, la “capacità di amare” della comunità.

Tutto questo è importante, ovviamente, anche per una comunità, una fraternità religiosa, che non è mai semplicemente una “comunità di persone”. Già nella terminologia della “fraternità” c’è un riferimento molto esplicito a una particolare relazione, anche famigliare, fra i suoi membri. È in questa esperienza che la persona impara a condividere l’amore dei genitori, a gestire e governare le possibili gelosie istintive e competitive, a riconoscere, nello stesso tempo, all’interno dell’ambiente famigliare, il luogo della sicurezza, della protezione e della fiducia. Se già ogni comunità porta in sé la ricchezza e la profondità della comunione fra le persone, la fraternità, accentua poi a sua volta tutti questi aspetti nel senso affettivo della famiglia.

La fraternità è qualcosa di ben diverso da un semplice agglomerato di individui, da una collettività. Nell’accentuazione francescana del termine c’è tutta la valenza carismatica del sine glossa di Francesco, con l’invito a essere “fratelli” per davvero, legati da un vincolo più forte di quello della carne.

L’identità affettiva di ciascuno entra quindi in relazione profonda con quella di altri. «Non si può sfuggire a questo abbraccio, bisogna consegnarsi interamente con tutta la propria specifica personalità, per lasciarsi, in un certo senso, rimodellare da esso». Ma fino a che punto si è disposti a diventare “fratelli” e a ricevere, nel caso di un francescano soprattutto, la nuova identità in Francesco stesso?

Una simile avventura di vita comunitaria e di così elevate aspirazioni quali quelle di una fraternità religiosa non può esistere senza una motivazione forte, equilibrata, e validamente verificata, quella della vocazione vera e propria. La chiamata alla fraternità, ha ribadito Galimberti, non può rispondere semplicemente a un desiderio di avventura, a una curiosità, a un gioco di compensazione, dal momento che comporta inevitabilmente un radicale capovolgimento di situazioni, una inevitabile e forte tensione.

Proprio per questo, come in ogni esperienza che mira a una trasformazione interiore, si impone necessariamente il tempo della prova. A che cosa tende se non a questo, ad esempio, il periodo del noviziato? Una seria e prolungata verifica è indispensabile ogni volta che si intende coinvolgersi in una avventura di relazione. E la verifica sarà tanto più feconda quanto più elevato sarà il livello di maturità umana, di affettività, di stabilità dei sentimenti raggiunto. Una fraternità sarà solida solo se sarà animata dal «desiderio di crescere veramente nella donazione e nello spogliamento di sé, per poter autenticamente incontrare l’altro e permettere all’altro di raggiungermi, familiarmente, come e più di uno di casa mia».

Una vita di fraternità coinvolge tutta la vita, fino alla morte e anche oltre, nella fede. È qualcosa di diverso dalla semplice convivenza. «È il luogo della mia esistenza, nel quale io spendo letteralmente e consumo tutta la mia vita». Non può non essere un luogo affettivo, un luogo di relazioni profonde. Come in una famiglia si nasce tutti come figli, si diventa poi genitori, e si conclude come nonni, senza mai smettere di essere figli, fratelli, madri, padri, così anche una fraternità prevede al suo interno e nel tempo tutti questi passaggi, per il semplice motivo che «come scorre la vita così cambiano le persone».

L’invecchiamento è la regola naturale della vita in una famiglia come in una fraternità. Ci si può avvicinare con serenità, con comprensione, con misericordia, ma si può anche, invece, arrivarci nella radicalizzazione mentale, nella intolleranza, nell’aridità. E anche qui la maturità affettiva gioca una parte rilevante favorendo o spegnendo la maturità spirituale di una persona. Invecchiando, soprattutto in una fraternità, si dovrebbe crescere nella saggezza, nella capacità di sintesi dell’esperienza della propria vita, nell’apertura al trascendente. Solo in questo modo l’incontro della vecchiaia con la gioventù si può rivelare in tutta la sua fecondità. Solo in questo modo l’incontro intergenerazionale diventa effettiva e salutare trasmissione di un patrimonio umano-spirituale.

Di fronte al preoccupante calo di vocazioni anche alla vita consacrata, fa seriamente riflettere Rosa Galimberti quando osserva che le nuove vocazioni rappresentano in un certo senso l’espressione della maturità e della capacità generativa di una fraternità. Per crescere e svilupparsi hanno assoluto bisogno di un ambiente connotato da un’autentica maturità affettiva.

Il convegno ecclesiale di Verona chiede a tutti i cristiani di essere “testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo”. Ora la speranza cristiana, ha concluso Galimberti, è certezza della salvezza, è fiducia. Ma la fiducia, a sua volta, «è l’elemento psicologico fondamentale della crescita e dello sviluppo della personalità, che manifesta la propria maturità proprio nella capacità di amare e di lavorare per gli altri». Questa capacità di amare e di relazionarsi con tutti, di “generarli” attraverso l’accoglienza e l’affettività, attraverso una vita di pace e di comunione universale, da chi la si potrebbe esemplarmente pretendere se non da una fraternità religiosa?

 

Angelo Arrighini