NELLE ATTUALI DIFFICOLTÀ  DELLA VITA CONSACRATA

LA VERA SFIDA DA AFFRONTARE

 

Il problema è questo: i nostri istituti che dovrebbero unicamente mostrare Cristo, lo fanno credibilmente? Non ci occupiamo forse troppo di noi stessi, delle nostre strutture, del piccolo numero? Una cosa è chiara: un istituto religioso che nell’insieme ponga l’accento su se stesso e non su Cristo non interessa più niente al mondo e alle eventuali vocazioni.

 

La seguente relazione è stata tenuta, da don Gambino, salesiano, responsabile nello studio e nell’ animazione vocazionale del corso per formatori dell’Università pontificia Salesiana, all’incontro di formazione permanente per consigli generali e provinciali, organizzato dal 6 all’11 febbraio scorso dalla comunità di preghiera “Mater Ecclesiae”.

Nella sua relazione, don Gambino ha preso come icona e punto di riferimento il brano del vangelo di Marco 9,14-29 dove Gesù guarisce un fanciullo epilettico indemoniato, sul quale aveva tenuto, in un primo incontro, la lectio divina. Il testo evangelico, ha detto, ci ha invitato a guardare con realismo il mistero del male, ma soprattutto ci ha spinti a fissare i nostri occhi su Gesù per contemplare come Gesù si lascia colpire personalmente dal male per annientarlo nella sua persona e farcelo superare con lui. Solo Gesù ci guarisce e ci salva.

Questa è la sfida che siamo invitati ad affrontare in questo momento storico della vita consacrata. Rifarsi di continuo al Crocifisso-Risorto.

La vocazione è sempre un dono di Dio. Ha il suo culmine nella carne di Gesù, nell’incarnazione del Verbo, nel vivere concreto e nel morire e risorgere di Gesù, Figlio del Padre: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete» (Gv 6,35).

Gesù è la priorità assoluta della nostra vocazione. L’unico modo giusto per vivere la vocazione è di vivere in, con e come Gesù Cristo. Questa testimonianza è il cuore della vocazione.

Sullo sfondo dell’icona si è posto quindi due domande, a cui ha risposto attingendo dalla sue esperienza.

– La prima: che cosa pensare, alla luce del Vangelo, delle attuali difficoltà della vita consacrata?

– La seconda: quale la proposta di Gesù? La sfida della fedeltà, oggi, dei giovani consacrati.

 

LE ATTUALI DIFFICOLTÀ

ALLA LUCE DEL VANGELO

 

La prima domanda provoca in noi un doloroso smarrimento. È fuori dubbio che stiamo attraversando un periodo pieno di trepidazione e di ripiegamento preoccupante nell’attesa di un futuro sostenibile.

Certamente tra le ragioni profonde di questo ansioso interrogarsi c’è sicuramente il fatto che il consacrato dell’era tecnologica, soprattutto nella vecchia Europa, rischia di essere vittima degli stessi successi della sua intelligenza e dei risultati delle sue capacità operative e va incontro a un’atrofia spirituale, ad un vuoto del cuore. Niente e nessuno può dire che cosa capiterà domani alla vita consacrata.

Ci si affida solo alla permanenza dell’abitudine, benché sia avvalorata da una lunga storia bimillenaria.

Un numero non indifferente di istituti consacrati, maschili e femminili soprattutto maschili, nel periodo successivo al concilio sono stati galvanizzati dalla parola magica dell’ “aggiornamento”.

La linea dell’orizzonte si è trasformata. Si è passati dalla centralità di Cristo e del Regno a un esagitato attivismo, sul modello stressante della società. Si è passati dalle grandi frontiere del regno di Dio in cui si era sospinti da un’ardente carità apostolica, alla sclerosi delle opere, divenute, per lo più, quasi insignificanti. Da energiche comunità, piene di vita e di fervore, si è arrivati a piccoli gruppi, modellati su uno standard di vita sostanzialmente borghese, spesso inconsistenti e carenti di energia creativa. Dalle frontiere del Regno si è passati a una missione ridotta spesso a strette dimensioni private. Le comunità, una volta persi i grandi orizzonti del passato, si sono trasformate in una specie di convivenza informale, gli uni accanto agli altri a proprio piacimento, senza troppe speranze e dialogo creativo. L’entusiasmo per la vita consacrata in non pochi è caduto e la fedeltà è diventata fragile e difficile da gestire.

 

TRE GRANDI

DIFFICOLTÀ

 

Dall’esperienza di accompagnamento di tanti consacrati ho potuto così ricavare tre grandi difficoltà che le giovani consacrate vivono a livello personale, istituzionale e a livello specificamente religioso.

a) A livello personale. Sono sorpreso nel constatare che parecchie consacrate sono ansiose, si sentono sole, hanno paura di non riuscire nella vita. Magari sono ritenute brillanti e socievoli nei loro impegni di apostolato, ma si sperimentano sole in comunità, a volte sentono il bisogno di piangere, non hanno rapporti con altre consorelle, sono rinunciatarie, mediocri, squallide, non si capiscono, non trovano amicizie vere… Una giovane professa mi scriveva: «Ho compiuto poco tempo fa ventiquattro anni, e ho pianto tutto il giorno. Mi fa paura la vita. Quale sarà il mio futuro?».

Difficoltà, dunque, personali; solitudine, fatica a comunicare, ansietà.

b) A livello istituzionale. C’è a volte la rabbia contro qualche superiora poco disponibile o incapace, scoraggiamento per il troppo lavoro che vedono inutile, per lo stile sorpassato o rigido, per il non essere prese in considerazione. Si trova pure la consorella che lamenta che non ha sufficiente tempo per la preghiera, per il silenzio, la riflessione, o per una vita fraterna più curata. Denunciano pure che la comunità soffre di sindrome di stanchezza. Si sentono come schiacciate e spesso ridotte ad essere piccolo gruppo e sofferenti di una mentalità d’esilio o a un complesso di minoranza.

Poi fanno difficoltà le ingiustizie sociali, la corruzione, il numero dei poveri, la vita borghese dell’istituto. Vedono che la loro vita è conformista.

c) A livello propriamente religioso. La vita di comunità è troppo chiusa, indifferente, appiattita, vecchia, pervasa di un grigiore diffuso. Alcune fanno osservare che la messa non le dice più niente. La lectio divina l’hanno abbandonata. La congregazione cerca il successo, ci impone dei doveri morali che non riescono più a capire. Accettano ancora Cristo, ma non la Chiesa. Oggi non si farebbero più religiose. In non poche c’è la paura di cadere in una rassegnazione stanca.

Sono consacrate smarrite, confuse, incerte e si domandano qual è la vita buona, la vita vera?

Ma quali risposte dare a queste consorelle? L’ambiente, anche religioso, spesso propone risposte sbagliate che causano confusione. Ci sono purtroppo anche falsi maestri di vita che riflettono i modelli del mondo. Maestri che insegnano ad uscire dal corpo, dal tempo e dallo spazio per trovare la vita vera, ma che lasciano alla fine le consacrate più sole e più esposte al loro male.

C’è pure un clima ormai deleterio che invita ad assecondare ogni propensione istintiva accompagnata da pericolose evasioni.

Ma quello che è peggiore è ormai il gonfiarsi cancerogeno della soggettività. Lo si trova spesso anche nelle nostre comunità formative. Intendo quel modo di pensare che si rifà a termini come coscienza personale, esperienza e convinzioni personali, autenticità, spontaneità, sensibilità, rispetto dei propri sentimenti. Parecchie nostre consorelle l’unica coerenza che ricercano è, in fondo, quella con i propri sentimenti, con le proprie emozioni.

Tutto questo viene scambiato da loro come istanza autentica, verità oggettiva.

Ci sono pure maestri che situano il senso della vita nella ricerca della realizzazione e del successo, nello sviluppo delle capacità personali, senza rispetto per i valori fondamentali della vita.

 

CHE COSA

DICE IL VANGELO?

 

Che cosa ci dice il Vangelo in queste situazioni? Tutto ciò ha come conseguenza la scoperta della nostra fragilità, specialmente per noi in occidente. Non si pensava di essere tanto fragili. Non pensavamo che le nostre sicurezze potessero essere così facilmente sconvolte. Siamo entrati in una sorta di sofferenza, di incapacità di capire.

Più in profondità, ci sembra di cogliere un messaggio che scaturisce dalla stessa sorgente del Vangelo. Vediamolo.

Partirò dall’icona evangelica del giovane ricco (cf. Mt 19, 16-22). Sentiamo quello che dice Gesù: “Un uomo domanda a Gesù che cosa deve fare per avere la vita eterna?”. Gesù rispondendo, non parla di vita eterna, ma dice semplicemente: Se vuoi entrare nella vita (Mt 19,17).

Tuttavia l’espressione entrare nella vita è collegata con la risposta sul buono, su Dio data immediatamente prima da Gesù: Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono (Mt 19,17).

In realtà la vera crisi degli istituti religiosi è l’indebolirsi della vita nuova in Cristo Gesù. Questa vita nuova ha come via maestra i comandamenti: se vuoi entrare nella vita osserva i comandamenti (Mt 19,17). Poi, il bene più grande, più perfetto: se vuoi essere perfetto… (Lc 18,22), poi ancora lo spirito delle beatitudini e la sequela di Gesù: va, vendi quello che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo, poi vieni e seguimi (Mt 19,21).

Ossia l’originalità della vita consiste nel realizzare lo stesso percorso pasquale di Gesù: morte e risurrezione. Vuol dire, passare da una vita spirituale depressa a una vita dinamica che ha Gesù Risorto come centro del proprio itinerario. Una vita nuova di speranza perché Cristo è morto ed è risorto.

Osserviamo che il giovane se ne parte triste. Ma certo, non basta porre delle domande sincere, se poi non c’è un amore forte per Gesù che occupi tutto lo spazio della nostra vita.

Entrare nella vita significa seguire l’itinerario delle beatitudini vissute da Gesù: beati i poveri, beati i misericordiosi, beati i perseguitati, beati gli operatori di pace, beati i puri di cuore. La nuova vita è Gesù povero, misericordioso, perseguitato, operatore di pace. La vita è fare una sola cosa con la vita di Gesù povero, misericordioso, mite, perseguitato, vivendo con lui che è la nostra vita.

Gesù ci sollecita a una permanenza con lui. Essere non solo con il Signore, ma come il Signore. La vita consacrata richiede l’accoglienza di questa vita di Gesù, di fare comunione con questa vita. Fedele è chi entra nella comunione eterna con Gesù e nella sua forma di vita.

Possiamo dire che noi speriamo perché Cristo è morto ed è risorto. Perché Cristo ha percorso il cammino della Pasqua. Perché crediamo nella vita consacrata che ne è testimonianza.

Abbiamo invece preso l’abitudine di contarci, di fare statistica. Siamo caduti nel complesso dell’impotenza. Abbiamo la percezione di essere piccolo gruppo. Siamo presi dal complesso d’impotenza, di dubbio, di minoranza. Tutto ciò è deleterio. Fa del male alla vita consacrata.

Ciò che è decisivo è invece il fatto di sentirci lievito. Gesù non provoca il fiato grosso. Non vuole da noi volontarismi, ma invece vuole da noi che restituiamo vitalità al lievito nella pasta, che riaccendiamo l’amore. Oggi, più che mai, occorre dare spazio alla speranza che Cristo è presente e lo occupa tutto.

La nostra missione è di dire al mondo che Cristo è la speranza del mondo. Ma i nostri istituti hanno ancora speranza?

 

COSA CI CHIEDE

OGGI LO SPIRITO?

 

Come vedete, la risposta da dare va molto più in là dei nostri tentativi razionali di cambiamento di modello, come alcuni si auspicano. D’altra parte che cosa significa cambiare di modello? Solo la risposta al progetto di Gesù crea la vita nuova in Cristo.

Quello che inquieta di più è di notare come la vita consacrata non sia più considerata come luogo di azione dello Spirito Santo. Eppure il concilio Vaticano II non ci aveva, forse, detto che la vita consacrata «dimostra a tutti gli uomini l’infinita potenza dello Spirito Santo mirabilmente operante nella Chiesa»? (LG 44). Non dovevamo visibilizzare questa infinita potenza? Il rinnovamento non doveva essere frutto dello Spirito Santo? Per caso i nostri fondatori erano meno forti e audaci di noi? Essi avevano certamente lo Spirito Santo che li sospingeva all’azione. Sapevano contare su di lui.

Dobbiamo smettere di piagnucolare, di parlare di crisi. Dobbiamo lasciare di colpevolizzarci. Le nostre paure aumentano il disagio delle nostre consorelle.

Che cosa ci chiede oggi lo Spirito?

Oggi lo Spirito ci conduce dalla quantità dei segni e delle cose alla qualità dei segni.

Siamo chiamati a condividere un nuovo parto nella Chiesa, a non fermarci sui numeri, ma a saper cogliere il segno del piccolo gregge, il segno cioè di una essenzialità più credibile. Vorrei dire: a convertirci a ciò che è decisivo per la Chiesa d’oggi.

Eppure noi, al contrario, continuiamo ad affidarci al nostro attivismo razionale e programmatico.

Il vero problema non è quello di voler ad ogni costo cambiare “modello”, ma quello di ricentrare la vita consacrata in Cristo, unica vera fonte di senso. D’altra parte che cosa significa rinnovarsi? Questi anni, a caso, non abbiamo fatto l’impossibile per rinnovarci? Ma quali sono stati i risultati?

Il rinnovamento da tentare non doveva essere una piena «adesione conformativa a Cristo dell’intera esistenza»? (VC 16).

Il concilio Vaticano II aveva chiesto alla Chiesa di essere luce delle genti (LG 1), ossia di illuminare riflettendo davanti a tutto il mondo Cristo il suo fallimento, la stoltezza, l’infermità, la spogliazione del Cristo, coperto di maledizioni, d’ignominia e gettato come un rifiuto sulla croce. Questa richiesta ovviamente era stata fatta specialmente alla vita consacrata, chiamata a favorire e sostenere la tensione di ogni cristiano verso la perfezione (VC 29).

Ma dopo tutto, quale rinnovamento si è poi verificato? È ormai un luogo comune sentire in tanti convegni e riunioni rinnovate proposte d’ipotizzazione di nuovi modelli di vita consacrata. È ben probabile che un modello di vita consacrata si sia debilitato.

Che significa allora? Che tutto sia da buttare a mare? La situazione storica del mondo d’oggi non è forse l’occasione che ci dona il Signore per meditare sull’originalità dell’unico modello che è Cristo, paradigma di tutti i modelli?

Il problema allora è questo: i nostri istituti che dovrebbero unicamente mostrare Cristo, lo fanno credibilmente? Non ci occupiamo forse troppo di noi stessi, delle nostre strutture, del piccolo numero? Una cosa è chiara: un istituto religioso che nell’insieme ponga l’accento su se stesso e non su Cristo, non interessa più niente il mondo e le eventuali vocazioni. Il modello che Cristo ci propone non è la quantità, ma l’essere lievito. Un condensato di “perfetta carità”, come ci chiedeva il concilio. E il lievito matura dove sboccia la santità.

Il punto fragile della vita consacrata è appunto di essere andata da sola alla ricerca di risposte teoriche alle sfide di oggi, lasciando da parte quello che veramente conta ed è la sua unica prerogativa: Gesù Cristo, la sua morte, risurrezione e ascensione al Padre. Cristo è l’“unica” cosa che davvero conta.

Non si pensa, forse, troppo in fretta che la vita consacrata sia un progetto nostro? Non sarebbe, invece, più necessario chiederci se davvero la nostra vita ha le sue radici in Cristo che è la novità assoluta dei nostri progetti?

Cristo è l’unica ragione della vita consacrata. La sua vera identità.

Sullo sfondo delle difficoltà delle nostre consorelle e sulle false risposte dei falsi maestri, possiamo comprendere meglio la forza della proposta di vita nuova di Gesù.

 

LA PROPOSTA DI GESÙ

SFIDA DELLA FEDELTÀ OGGI

 

Vorrei leggere la forza di tale proposta in un testo molto ricco del Nuovo Testamento: “ Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo toccato, contemplato, e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo udito e veduto, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia sia perfetta” (1 Gv 1,1-4).

Questa in sintesi, la proposta di Gesù indicata con chiarezza pure da papa Giovanni Paolo II in Vita consecrata: «La vera sconfitta della vita consacrata non sta nel declino numerico, ma nel venir meno dell’adesione spirituale al Signore e alla propria vocazione e missione. Le nuove situazioni di scarsità vanno affrontate con la serenità di chi sa che a ciascuno è richiesto non tanto il successo, quanto l’impegno di fedeltà» (63).

La vera domanda da porsi è la seguente: Che cosa ci chiede il Signore con queste crisi?

Vediamo che non è la difficoltà di questo o di quell’altro istituto, ma è un problema di tutti gli istituti religiosi, maschili e femminili. Tutti si trovano nello stesso smarrimento. Di fronte a un fenomeno ecclesiale di tale portata, dobbiamo chiederci che cosa vuole il Signore da noi? Perché ci sta purificando così? Perché siamo fragili? Non chiederà, forse, alla vita consacrata un salto di qualità di fede, di conversione, di ricerca rinnovata fedeltà alla parola di Gesù e al carisma del fondatore? Ossia, di un amore radicale all’Amore che ci ha amati per primo? Persino gli apostoli dicevano a Gesù: “Accresci la nostra fede!”.

Penso che avevamo bisogno di questa purificazione. La nostra crisi è l’indebolimento di amore a Cristo. L’aver voluto “guardare troppo avanti” dimenticando i fondamenti del messaggio ecclesiale.

La vera domanda costruttiva da porsi allora è la seguente: come trasformare le crisi e le difficoltà in occasione di grazia? Questo significherebbe “volgere indietro” lo sguardo all’evento di Cristo affermando la sua presenza sovratemporale. Non è questo che vuol dire a caso il documento Vita consecrata, quando parla che il consacrato è memoria vivente di Cristo, del suo amore?

Che fare allora? Concretamente da dove partire?

Alcuni pensano di specializzare sempre più i consacrati. Si vorrebbero consacrati superspecializzati, super abilitati, plurilaureati. Credo che la superspecializzazione da sola non risolverà il problema. Il risultato è spesso la tentazione di cercare una sistemazione diversa da quella che il servizio apostolico ci richiede o che l’autorità religiosa ci propone.

Si stanno cercando vie nuove. Il prurito di nuovi modelli ci sta sempre tentando. Ma il panorama è ancora frammentato.

Certamente ci vuole molto discernimento tra ciò che può essere un’autentica via futura di sapienza dello Spirito Santo e ciò che è unicamente zavorra.

In tanto smarrimento c’è un punto veramente fermo: quella del consacrato che in Cristo ha perso talmente la coscienza di se stesso da stimare Cristo e il suo Vangelo come unica realtà.

Lo Spirito Santo ci chiede un salto di qualità. Per compierlo occorre partire da una santità più autentica, che implica dare nella preghiera tutto lo spazio allo Spirito Santo per la sua azione. I grandi innovatori, come ad esempio Madre Teresa, prima di qualsiasi altra cosa, si sono consegnati totalmente all’amore originario di Cristo perché fosse Cristo stesso a coinvolgerli nel suo progetto.

La loro spiritualità non era ovviamente spiritualismo. Hanno dato sempre il meglio di se stessi ai fratelli, ma sempre sotto lo sguardo di Cristo. Da lui hanno sempre ricevuto non solo la carica spirituale, ma anche la direzione di marcia, i tempi e i ritmi.

Solo a questo aspirava la loro azione.

 

UN PROGRAMMA

CHE C’È GIÀ

 

Il papa Giovanni Paolo II in Novo millenio ineunte esprime la stessa idea: «No, non una formula ci salverà, ma una Persona e la certezza che essa ci infonde: Io sono con voi». «Il programma, continua il papa, c’è già: è quello di sempre, raccolto dal Vangelo e dalla Tradizione. Esso si incentra, ultima analisi, in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria» (NMI 29).

Qual’è la proposta chiara di Gesù? L’abbiamo letta nel brano della Prima lettera di Giovanni che, riprendo, partendo dalla conclusione:

– Queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia sia perfetta. La proposta di Gesù ci chiede la gioia perfetta, cioè una speranza piena e senza limiti che susciti il desiderio e la gioia di servire il Signore.

– Giovanni congiunge la “gioia perfetta” con la comunione. Si tratta di una speranza condivisa, comunicata, una speranza che deriva dall’essere lievito.

– Questa comunione è con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo, ed è la nostra. Quindi è una gioia ed è una speranza con Dio, con la Trinità, con i fratelli e le sorelle nella comunità e nella Chiesa.

– Giovanni chiede che la gioia e la speranza siano annunziate: Noi la annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. Questa nuova vita è una gioia condivisa, che, come i vasi comunicanti, fa circolare la gioia.

– La vita che comunichiamo e condividiamo è la vita eterna, perché Gesù è presso il Padre da principio. È una vita che viene dal cielo di Dio, dall’eternità.

– Questa vita si è fatta visibile a noi, noi l’abbiamo veduta e ne diamo testimonianza.

Ecco qui tutto il Vangelo! La gloria di Dio che abbiamo visto: è la vita di Gesù, non in forma astratta, ma come la descrivono i vangeli: una vita povera, schernita, messa in croce, crocifissa per noi e poi risorta.

Ecco il contenuto di vita che le congregazioni devono trasmettere alle loro sorelle. Qui sta la fecondità! Qui si ritrovano le vocazioni! Le giovani consorelle non aspettano altro!

Oggi, purtroppo, è comune trovare delle consacrate impaurite del futuro. Esse sono sempre più campioni della dilazione. Si entusiasmano della loro vocazione, arrivano magari anche a stimarla e ad amarla, ma rimangono indecise, perplesse, in un atteggiamento sempre pronto alla ritirata.

Le loro scelte non sono più appassionate. Tutto rimane come appeso sull’esile filo dell’incertezza e del sentimento. La fedeltà, al massimo, può essere ancora ammirata in certe persone, ma abitualmente è in una crisi più maligna che mai.

La cosa più drammatica è che viene a mancare, nonostante il presunto amore al Signore che si prodiga fedelmente all’uomo, l’impegno professato una volta e per sempre. Anche se la professione temporanea per prudenza mi chiede di porre un limite: l’intenzione dev’essere sempre: una volta e per sempre.

Siccome non è possibile che Dio possa ritornare indietro dal momento che i suoi atti sono eterni, allo stesso modo neppure per l’uomo, dal momento che la sua risposta deve corrispondere all’offerta di Dio.

Parlando alle giovani religiose che stanno per entrare in un istituto di vita consacrata, o che già vi sono entrate, dico spesso che si deve “scegliere di scegliere”.

La fedeltà non è nient’altro che una scelta. Nella vita consacrata ci si impegna con una decisione di apertura a 360 gradi nei riguardi di Cristo. L’impegno richiede una scelta totale che implica ridare ossigeno alla speranza. Naturalmente questa scelta deve fare i conti con le nostre fragilità e le nostre paure, però l’intenzione di partenza dev’essere quella di cercare la volontà di Dio sulla propria vita per giocarsi in una scelta di totalità all’Amore. Ovviamente l’infedeltà dell’uomo non infrange la fedeltà di Dio. Lo dice stupendamente Dio in Osea: “Il mio popolo è malato della sua infedeltà…Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione…” (11,7-9).

 È inevitabile allora chiedersi: è possibile oggi una scelta vissuta per tutta la vita?

 

LA NOSTRA

PROPOSTA

 

Abbiamo visto la proposta di Gesù. Adesso è conveniente vedere qual è la nostra proposta.

Scegliere questa vita che propone Gesù. Non come il giovane ricco che se ne andò triste, ma come quell’altro giovane che disse a Gesù: Maestro, ti seguirò dovunque andrai (Mt 8,19). Significa non tirarsi indietro, di fronte alle condizioni che egli ci pone. A chi lo vuol seguire dovunque andrà, Gesù risponde: Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma ll figlio dell’’uomo non ha dove posare il capo (Mt 8,20). Scegliere quella vita, significa avere lo sguardo puntato verso l’amore incommensurabile di Cristo che è sorgente di grazia. Equivale a voler conoscere il Gesù del Vangelo, le sue parole, i suoi gesti, la sua passione, morte e la sua vita tra di noi come risorto. Scegliere quella vita è decidere di fare ogni giorno la lectio divina, cioè una lectura in preghiera della sacra Scrittura per conoscere la vita di Gesù, i suoi sentimenti, il suo amore, che riflette in mezzo a noi l’amore di Dio.

 

Scegliere Gesù insieme con la comunità: “insieme” riflette quella gioia di comunione di cui parla Giovanni nella Prima Lettera: comunione con il Padre e con il Figlio, comunione tra noi, cioè con tutti coloro che hanno scelto questa vita, e comunione per la gioia di tutti. Implica il desiderio di ridare non solo ossigeno alla speranza, sapendo che i tempi non sono facili, ma anche la certezza che lo Spirito non è stanco, né di questa congregazione né della Chiesa o di questa storia.

Ma tale comunione va scoperta e approfondita in particolare con coloro che accolgono Gesù come vita. Si tratta di approfondire che cosa voglia dire mettere Gesù al centro della comunità. Richiede fare discernimento. Che cosa è essenziale e va approfondito a livello di comunione nella fede e nei sacramenti e a livello con la Chiesa locale e universale?

Tutti, ma soprattutto i giovani, sono affascinati dai testimoni gioiosi, motivati, capaci di ascolto e di farsi guide, capaci di “perdere tempo” per accompagnare le giovani consorelle nelle loro diverse situazioni di vita.

Occorrono pure comunità o fraternità significative, capaci di rendere visibile la bellezza di essere al servizio del Regno. Oggi sono stimate queste comunità. Ma non è sufficiente. Occorre passare dall’ammirazione all’imitazione. Occorre che queste comunità sappiano presentare consacrate generose nel dono di sé e umanamente ricche e gioiose.

Occorre ancora una coscienza di unità nella Chiesa tra tutti i giovani consacrati, al di là delle differenze legittime, al di là delle tensioni talora creative e talora pericolose, che faccia risplendere la bellezza dell’unica vita a cui partecipiamo. Credo sia un compito prioritario.

Forse lo Spirito Santo ci chiede uno slancio rinnovato per allargare gli orizzonti della nostra testimonianza. Questa fiducia ci rende capaci di uscire dalle nostre paure, ci permette di credere che c’è un avvenire, non solo per la vita consacrata, ma per ogni essere umano sulla terra.

Non sarebbe, forse, opportuno poter presentare dei “luoghi-segno” della vita come vocazione, luoghi ossia pedagogici della Chiesa.

Il papa Giovanni Paolo II ci ha chiesto di curare la celebrazione del Risorto in ogni comunità. L’Eucaristia è la fonte da cui promana tutta la forza della comunità. L’Eucaristia crea e costruisce la comunione. Fa crescere la comunità.

L’Eucaristia è un progetto per la comunità. La comunità sorge dall’Eucaristia come progetto. Nell’Eucaristia celebriamo Cristo morto e risorto. Ci fa capire l’itinerario del consacrato. Ci rimanda a Cristo nostro centro e motiva tutta la nostra vita. È il dono potente dello Spirito capace di evocare nella terra bruciata dal secolarismo, la bellezza di seguire Gesù.

La comunità non si organizza, ma si genera. Nell’Eucaristia ciascuno accoglie la sorella e il fratello. Diventiamo in questo modo per tutti noi e per gli altri una comunità segno della speranza. È questa la preghiera che facciamo in ogni celebrazione eucaristica “conferma nella fede e nell’amore la Chiesa di Gesù pellegrina sulla terra”. L’Eucaristia ci ricorda che il volto della speranza è la Pasqua di Gesù. È la forma di vita di Cristo che è pure la nostra per vocazione. Gesù è la nostra memoria. La vita consacrata è la memoria della presenza di Cristo risorto e glorioso accanto al Padre.

Perché non diventare tutti noi testimoni della speranza? L’Eucaristia ci indica il traguardo che ci attende, ma intanto ci indica pure la nostra urgente missione: non solo parlare di Cristo a (e oggi forse si parla troppo), ma di farlo vedere attraverso le nostre vite.

 

COME FORMARE

ALLA SCELTA?

 

Il cammino della fedeltà come scelta richiede un serio cammino formativo condotto con competenza teologico-spirituale profonda e insieme attenta al mondo.

Solo quei formatori che hanno incontrato personalmente Cristo e hanno vissuto nella propria vita una donazione fedele al suo amore fedele che domanda di essere riamato con la stessa fedeltà, possono capire e far vedere come vivere con fedeltà la vita consacrata. La scelta definitiva è sempre scelta di amore.

Gli elementi su cui possono basarsi e di cui tenere conto per definire la scelta definitiva per Cristo sono:

– anzitutto, la purificazione del cuore perché il nostro cuore è pieno di oscurità, di indurimenti, di impedimenti, di esaltazioni di sé che non permettono allo Spirito di far udire la sua voce.

– In secondo luogo, l’ingresso nel mondo della Scrittura che è il mondo di Dio, quindi la sintonia con il progetto di Cristo che rivela il disegno di Dio sull’uomo e sul mondo. Dalla fedeltà alla Parola nasce un “istinto soprannaturale” che permette di non conformarsi alle mode del momento, ma di rinnovare la propria mente per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono a lui gradito e perfetto (Rm 12,2).

– In terzo luogo, vi è l’attenzione ai movimenti interiori del cuore, a ciò che lo Spirito dice in noi. Occorre invitare il consacrato d’oggi alla riscoperta della vita interiore, che è l’esperienza di essere preceduti, al fine di dare libera espressione alle aspirazioni del cuore che cerca significato d’esistenza e trova la pace in Dio.

 

Che cosa favorisce la fedeltà come scelta? La fedeltà è favorita dal mettere la propria vita nelle mani di Dio. Qui occorre il coraggio di recuperare una solida spiritualità. Significa:

– un esplicito ricentrarsi su Cristo. Il punto debole di tanti consacrati è il fatto di essere andati “da soli” di fronte alle sfide e ai problemi di oggi. È mancato il rapporto intimo e profondo con Cristo.

– Il ricupero della capacità di silenzio, di deserto interiore, di momenti di pausa, di preghiera, di rapporto con Dio, di lectio divina, di combattimento spirituale. Quando il consacrato non è più capace di affrontare il problema globale della sua vita e s’immerge nell’attivismo non riesce più ad ascoltare il proprio cuore.

 

Quali ostacoli bloccano il cammino della fedeltà?

– La mancanza di equilibrio stabile e definitivo nella scelta fatta.

Occorre mantenere la memoria biblica del “sì” detto la prima volta a Dio. Quindi, non solo scegliere, ma rinnovare la scelta fatta, soprattutto in determinate tappe e momenti della nostra vita. Scrive von Balthasar: Il cuore della Chiesa è l’amore fedele (Dove ha il suo nido la fedeltà? “Communio” 26, 1976, pag. 19). Se, da una parte, c’è Gesù Cristo che è l’assenso assoluto di Dio all’uomo e per questo è chiamato il Fedele (2Ts 3,3), dall’altra ci siamo noi che possiamo chiamarci i fideles, i fedeli. La nostra vita diventa sempre più dinamica e feconda nella misura che ci impegniamo fedelmente nella scelta fatta.

– Un altro ostacolo è la presunzione di sé. La fedeltà è una scelta definitiva che coinvolge il tutto di Dio con il nostro tutto, anche le nostre debolezze. Per questo bisogna pregare e chiedere a Dio il dono della fedeltà. La presunzione di sé impedisce la richiesta al Dio fedele.

– Un grande ostacolo è la paura di giocarsi. Chi ama la propria vita la perderà e chi perde la propria vita per me e per il Vangelo, la troverà (Mt 10,39).

Si tratta di giocarsi sulla parola di Dio. Questo realizza la vitalità del consacrato.

Solo questo giocarci per Dio, come Gesù si è giocato al completo per il Padre sul Calvario, ci rende figli del Padre.

M’impressiona l’esperienza concreta di san Paolo. Si tratta del famoso discorso di Mileto, dove dice tra l’altro: “Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito Santo, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà. So soltanto che lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni. Non ritengo la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio” (At 20, 22-24).

Per Paolo il giocarsi la vita è al centro del discorso. Non ritengo la mia vita meritevole di nulla, quindi mi butto, mi lascio andare. Sento che quel che mi importa non è la mia vita, ma portare a termine la corsa. Cioè fidarmi dell’amore di Dio. Per Paolo la sua vita non importa niente di fronte a ciò che gli sta davanti. Paolo si gioca la vita non per disprezzo di essa, bensì per il fatto che l’ha votata al Signore.

Anche noi siamo chiamati allo stesso fuoco che ardeva in Paolo. Lo Spirito vuole avvincere anche noi, vuole che ci giochiamo per Gesù, il nostro unico Amore.