NELLE ATTUALI DIFFICOLTÀ DELLA VITA CONSACRATA
LA VERA SFIDA DA AFFRONTARE
Il problema
è questo: i nostri istituti che dovrebbero unicamente mostrare Cristo, lo
fanno credibilmente? Non ci occupiamo forse troppo di noi stessi, delle nostre
strutture, del piccolo numero? Una cosa è chiara: un istituto religioso
che nell’insieme ponga l’accento su se stesso e non su Cristo non
interessa più niente al mondo e alle eventuali vocazioni.
La seguente relazione è stata tenuta, da don Gambino, salesiano, responsabile nello studio e nell’
animazione vocazionale del corso per formatori dell’Università
pontificia Salesiana, all’incontro di formazione permanente per consigli
generali e provinciali, organizzato dal 6 all’11 febbraio scorso dalla
comunità di preghiera “Mater Ecclesiae”.
Nella sua relazione, don Gambino
ha preso come icona e punto di riferimento il brano del vangelo di Marco
9,14-29 dove Gesù guarisce un fanciullo epilettico indemoniato, sul
quale aveva tenuto, in un primo incontro, la lectio divina. Il testo
evangelico, ha detto, ci ha invitato a guardare con realismo il mistero del
male, ma soprattutto ci ha spinti a fissare i nostri occhi su Gesù per
contemplare come Gesù si lascia colpire personalmente dal male per
annientarlo nella sua persona e farcelo superare con lui. Solo Gesù ci
guarisce e ci salva.
Questa è la sfida che siamo invitati ad affrontare in
questo momento storico della vita consacrata. Rifarsi di continuo al
Crocifisso-Risorto.
La vocazione è sempre un dono di Dio. Ha il suo
culmine nella carne di Gesù, nell’incarnazione del Verbo, nel
vivere concreto e nel morire e risorgere di Gesù, Figlio del Padre:
«Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più
fame e chi crede in me non avrà più sete» (Gv 6,35).
Gesù è la priorità assoluta della
nostra vocazione. L’unico modo giusto per vivere la vocazione è di
vivere in, con e come Gesù Cristo. Questa testimonianza è il
cuore della vocazione.
Sullo sfondo dell’icona si è posto quindi due
domande, a cui ha risposto attingendo dalla sue esperienza.
– La prima: che cosa pensare, alla luce del Vangelo,
delle attuali difficoltà della vita consacrata?
– La seconda: quale la proposta di Gesù? La sfida
della fedeltà, oggi, dei giovani consacrati.
LE ATTUALI DIFFICOLTÀ
ALLA LUCE DEL VANGELO
La prima domanda provoca in noi un doloroso smarrimento.
È fuori dubbio che stiamo attraversando un periodo pieno di trepidazione
e di ripiegamento preoccupante nell’attesa di un futuro sostenibile.
Certamente tra le ragioni profonde di questo ansioso
interrogarsi c’è sicuramente il fatto che il consacrato
dell’era tecnologica, soprattutto nella vecchia Europa, rischia di essere
vittima degli stessi successi della sua intelligenza e dei risultati delle sue
capacità operative e va incontro a un’atrofia spirituale, ad un
vuoto del cuore. Niente e nessuno può dire che cosa capiterà
domani alla vita consacrata.
Ci si affida solo alla permanenza dell’abitudine,
benché sia avvalorata da una lunga storia bimillenaria.
Un numero non indifferente di istituti consacrati, maschili
e femminili soprattutto maschili, nel periodo successivo al concilio sono stati
galvanizzati dalla parola magica dell’ “aggiornamento”.
La linea dell’orizzonte si è trasformata. Si
è passati dalla centralità di Cristo e del Regno a un esagitato
attivismo, sul modello stressante della società. Si è passati
dalle grandi frontiere del regno di Dio in cui si era sospinti da
un’ardente carità apostolica, alla sclerosi delle opere, divenute,
per lo più, quasi insignificanti. Da energiche comunità, piene di
vita e di fervore, si è arrivati a piccoli gruppi, modellati su uno
standard di vita sostanzialmente borghese, spesso inconsistenti e carenti di
energia creativa. Dalle frontiere del Regno si è passati a una missione
ridotta spesso a strette dimensioni private. Le comunità, una volta
persi i grandi orizzonti del passato, si sono trasformate in una specie di
convivenza informale, gli uni accanto agli altri a proprio piacimento, senza
troppe speranze e dialogo creativo. L’entusiasmo per la vita consacrata
in non pochi è caduto e la fedeltà è diventata fragile e
difficile da gestire.
TRE GRANDI
DIFFICOLTÀ
Dall’esperienza di accompagnamento di tanti consacrati
ho potuto così ricavare tre grandi difficoltà che le giovani
consacrate vivono a livello personale, istituzionale e a livello specificamente
religioso.
a) A livello personale. Sono sorpreso nel constatare che
parecchie consacrate sono ansiose, si sentono sole, hanno paura di non riuscire
nella vita. Magari sono ritenute brillanti e socievoli nei loro impegni di
apostolato, ma si sperimentano sole in comunità, a volte sentono il
bisogno di piangere, non hanno rapporti con altre consorelle, sono rinunciatarie,
mediocri, squallide, non si capiscono, non trovano amicizie vere… Una
giovane professa mi scriveva: «Ho compiuto poco tempo fa ventiquattro
anni, e ho pianto tutto il giorno. Mi fa paura la vita. Quale sarà il
mio futuro?».
Difficoltà, dunque, personali; solitudine, fatica a
comunicare, ansietà.
b) A livello istituzionale. C’è a volte la
rabbia contro qualche superiora poco disponibile o incapace, scoraggiamento per
il troppo lavoro che vedono inutile, per lo stile sorpassato o rigido, per il
non essere prese in considerazione. Si trova pure la consorella che lamenta che
non ha sufficiente tempo per la preghiera, per il silenzio, la riflessione, o
per una vita fraterna più curata. Denunciano pure che la comunità
soffre di sindrome di stanchezza. Si sentono come schiacciate e spesso ridotte
ad essere piccolo gruppo e sofferenti di una mentalità d’esilio o
a un complesso di minoranza.
Poi fanno difficoltà le ingiustizie sociali, la
corruzione, il numero dei poveri, la vita borghese dell’istituto. Vedono
che la loro vita è conformista.
c) A livello propriamente religioso. La vita di
comunità è troppo chiusa, indifferente, appiattita, vecchia,
pervasa di un grigiore diffuso. Alcune fanno osservare che la messa non le dice
più niente. La lectio divina l’hanno abbandonata. La congregazione
cerca il successo, ci impone dei doveri morali che non riescono più a
capire. Accettano ancora Cristo, ma non la Chiesa. Oggi non si farebbero
più religiose. In non poche c’è la paura di cadere in una
rassegnazione stanca.
Sono consacrate smarrite, confuse, incerte e si domandano
qual è la vita buona, la vita vera?
Ma quali risposte dare a queste consorelle?
L’ambiente, anche religioso, spesso propone risposte sbagliate che causano
confusione. Ci sono purtroppo anche falsi maestri di vita che riflettono i
modelli del mondo. Maestri che insegnano ad uscire dal corpo, dal tempo e dallo
spazio per trovare la vita vera, ma che lasciano alla fine le consacrate
più sole e più esposte al loro male.
C’è pure un clima ormai deleterio che invita ad
assecondare ogni propensione istintiva accompagnata da pericolose evasioni.
Ma quello che è peggiore è ormai il gonfiarsi
cancerogeno della soggettività. Lo si trova spesso anche nelle nostre
comunità formative. Intendo quel modo di pensare che si rifà a
termini come coscienza personale, esperienza e convinzioni personali,
autenticità, spontaneità, sensibilità, rispetto dei propri
sentimenti. Parecchie nostre consorelle l’unica coerenza che ricercano
è, in fondo, quella con i propri sentimenti, con le proprie emozioni.
Tutto questo viene scambiato da loro come istanza autentica,
verità oggettiva.
Ci sono pure maestri che situano il senso della vita nella
ricerca della realizzazione e del successo, nello sviluppo delle
capacità personali, senza rispetto per i valori fondamentali della vita.
CHE COSA
DICE IL VANGELO?
Che cosa ci dice il Vangelo in queste situazioni? Tutto
ciò ha come conseguenza la scoperta della nostra fragilità,
specialmente per noi in occidente. Non si pensava di essere tanto fragili. Non
pensavamo che le nostre sicurezze potessero essere così facilmente
sconvolte. Siamo entrati in una sorta di sofferenza, di incapacità di
capire.
Più in profondità, ci sembra di cogliere un messaggio
che scaturisce dalla stessa sorgente del Vangelo. Vediamolo.
Partirò dall’icona evangelica del giovane ricco
(cf. Mt 19, 16-22).
Sentiamo quello che dice Gesù: “Un uomo domanda a Gesù che
cosa deve fare per avere la vita eterna?”. Gesù rispondendo, non
parla di vita eterna, ma dice semplicemente: Se vuoi entrare nella vita (Mt 19,17).
Tuttavia l’espressione entrare nella vita è
collegata con la risposta sul buono, su Dio data immediatamente prima da
Gesù: Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno
solo è buono (Mt 19,17).
In realtà la vera crisi degli istituti religiosi
è l’indebolirsi della vita nuova in Cristo Gesù. Questa
vita nuova ha come via maestra i comandamenti: se vuoi entrare nella vita
osserva i comandamenti (Mt 19,17). Poi, il bene più
grande, più perfetto: se vuoi essere perfetto… (Lc 18,22), poi ancora lo spirito delle beatitudini e la
sequela di Gesù: va, vendi quello che hai, dallo ai poveri e avrai un
tesoro in cielo, poi vieni e seguimi (Mt 19,21).
Ossia l’originalità della vita consiste nel
realizzare lo stesso percorso pasquale di Gesù: morte e risurrezione.
Vuol dire, passare da una vita spirituale depressa a una vita dinamica che ha
Gesù Risorto come centro del proprio itinerario. Una vita nuova di
speranza perché Cristo è morto ed è risorto.
Osserviamo che il giovane se ne parte triste. Ma certo, non
basta porre delle domande sincere, se poi non c’è un amore forte
per Gesù che occupi tutto lo spazio della nostra vita.
Entrare nella vita significa seguire l’itinerario
delle beatitudini vissute da Gesù: beati i poveri, beati i
misericordiosi, beati i perseguitati, beati gli operatori di pace, beati i puri
di cuore. La nuova vita è Gesù povero, misericordioso,
perseguitato, operatore di pace. La vita è fare una sola cosa con la
vita di Gesù povero, misericordioso, mite, perseguitato, vivendo con lui
che è la nostra vita.
Gesù ci sollecita a una permanenza con lui. Essere
non solo con il Signore, ma come il Signore. La vita consacrata richiede
l’accoglienza di questa vita di Gesù, di fare comunione con questa
vita. Fedele è chi entra nella comunione eterna con Gesù e nella
sua forma di vita.
Possiamo dire che noi speriamo perché Cristo è
morto ed è risorto. Perché Cristo ha percorso il cammino della
Pasqua. Perché crediamo nella vita consacrata che ne è
testimonianza.
Abbiamo invece preso l’abitudine di contarci, di fare
statistica. Siamo caduti nel complesso dell’impotenza. Abbiamo la
percezione di essere piccolo gruppo. Siamo presi dal complesso
d’impotenza, di dubbio, di minoranza. Tutto ciò è
deleterio. Fa del male alla vita consacrata.
Ciò che è decisivo è invece il fatto di
sentirci lievito. Gesù non provoca il fiato grosso. Non vuole da noi
volontarismi, ma invece vuole da noi che restituiamo vitalità al lievito
nella pasta, che riaccendiamo l’amore. Oggi, più che mai, occorre
dare spazio alla speranza che Cristo è presente e lo occupa tutto.
La nostra missione è di dire al mondo che Cristo
è la speranza del mondo. Ma i nostri istituti hanno ancora speranza?
COSA CI CHIEDE
OGGI LO SPIRITO?
Come vedete, la risposta da dare va molto più in
là dei nostri tentativi razionali di cambiamento di modello, come alcuni
si auspicano. D’altra parte che cosa significa cambiare di modello? Solo
la risposta al progetto di Gesù crea la vita nuova in Cristo.
Quello che inquieta di più è di notare come la
vita consacrata non sia più considerata come luogo di azione dello
Spirito Santo. Eppure il concilio Vaticano II non ci aveva, forse, detto che la
vita consacrata «dimostra a tutti gli uomini l’infinita potenza
dello Spirito Santo mirabilmente operante nella Chiesa»? (LG 44). Non
dovevamo visibilizzare questa infinita potenza? Il
rinnovamento non doveva essere frutto dello Spirito Santo? Per caso i nostri
fondatori erano meno forti e audaci di noi? Essi avevano certamente lo Spirito
Santo che li sospingeva all’azione. Sapevano contare su di lui.
Dobbiamo smettere di piagnucolare, di parlare di crisi.
Dobbiamo lasciare di colpevolizzarci. Le nostre paure aumentano il disagio delle
nostre consorelle.
Che cosa ci chiede oggi lo Spirito?
Oggi lo Spirito ci conduce dalla quantità dei segni e
delle cose alla qualità dei segni.
Siamo chiamati a condividere un nuovo parto nella Chiesa, a
non fermarci sui numeri, ma a saper cogliere il segno del piccolo gregge, il
segno cioè di una essenzialità più credibile. Vorrei dire:
a convertirci a ciò che è decisivo per la Chiesa d’oggi.
Eppure noi, al contrario, continuiamo ad affidarci al nostro
attivismo razionale e programmatico.
Il vero problema non è quello di voler ad ogni costo
cambiare “modello”, ma quello di ricentrare
la vita consacrata in Cristo, unica vera fonte di senso. D’altra parte
che cosa significa rinnovarsi? Questi anni, a caso, non abbiamo fatto
l’impossibile per rinnovarci? Ma quali sono stati i risultati?
Il rinnovamento da tentare non doveva essere una piena
«adesione conformativa a Cristo
dell’intera esistenza»? (VC 16).
Il concilio Vaticano II aveva chiesto alla Chiesa di essere
luce delle genti (LG 1), ossia di illuminare riflettendo davanti a tutto il
mondo Cristo il suo fallimento, la stoltezza, l’infermità, la
spogliazione del Cristo, coperto di maledizioni, d’ignominia e gettato
come un rifiuto sulla croce. Questa richiesta ovviamente era stata fatta
specialmente alla vita consacrata, chiamata a favorire e sostenere la tensione
di ogni cristiano verso la perfezione (VC 29).
Ma dopo tutto, quale rinnovamento si è poi
verificato? È ormai un luogo comune sentire in tanti convegni e riunioni
rinnovate proposte d’ipotizzazione di nuovi
modelli di vita consacrata. È ben probabile che un modello di vita
consacrata si sia debilitato.
Che significa allora? Che tutto sia da buttare a mare? La
situazione storica del mondo d’oggi non è forse l’occasione
che ci dona il Signore per meditare sull’originalità
dell’unico modello che è Cristo, paradigma di tutti i modelli?
Il problema allora è questo: i nostri istituti che
dovrebbero unicamente mostrare Cristo, lo fanno credibilmente? Non ci occupiamo
forse troppo di noi stessi, delle nostre strutture, del piccolo numero? Una
cosa è chiara: un istituto religioso che nell’insieme ponga
l’accento su se stesso e non su Cristo, non interessa più niente
il mondo e le eventuali vocazioni. Il modello che Cristo ci propone non
è la quantità, ma l’essere lievito. Un condensato di
“perfetta carità”, come ci chiedeva il concilio. E il
lievito matura dove sboccia la santità.
Il punto fragile della vita consacrata è appunto di
essere andata da sola alla ricerca di risposte teoriche alle sfide di oggi,
lasciando da parte quello che veramente conta ed è la sua unica
prerogativa: Gesù Cristo, la sua morte, risurrezione e ascensione al
Padre. Cristo è l’“unica” cosa che davvero conta.
Non si pensa, forse, troppo in fretta che la vita consacrata
sia un progetto nostro? Non sarebbe, invece, più necessario chiederci se
davvero la nostra vita ha le sue radici in Cristo che è la novità
assoluta dei nostri progetti?
Cristo è l’unica ragione della vita consacrata.
La sua vera identità.
Sullo sfondo delle difficoltà delle nostre consorelle
e sulle false risposte dei falsi maestri, possiamo comprendere meglio la forza
della proposta di vita nuova di Gesù.
LA PROPOSTA DI GESÙ
SFIDA DELLA FEDELTÀ OGGI
Vorrei leggere la forza di tale proposta in un testo molto
ricco del Nuovo Testamento: “ Ciò che era fin da principio,
ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo udito, ciò
che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo toccato,
contemplato, e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della
vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo
veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna,
che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo
udito e veduto, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in
comunione con noi. La nostra comunione è con il Padre e con il Figlio
suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia
sia perfetta” (1 Gv 1,1-4).
Questa in sintesi, la proposta di Gesù indicata con
chiarezza pure da papa Giovanni Paolo II in Vita consecrata: «La vera
sconfitta della vita consacrata non sta nel declino numerico, ma nel venir meno
dell’adesione spirituale al Signore e alla propria vocazione e missione.
Le nuove situazioni di scarsità vanno affrontate con la serenità
di chi sa che a ciascuno è richiesto non tanto il successo, quanto
l’impegno di fedeltà» (63).
La vera domanda da porsi è la seguente: Che cosa ci
chiede il Signore con queste crisi?
Vediamo che non è la difficoltà di questo o di
quell’altro istituto, ma è un problema
di tutti gli istituti religiosi, maschili e femminili. Tutti si trovano nello
stesso smarrimento. Di fronte a un fenomeno ecclesiale di tale portata,
dobbiamo chiederci che cosa vuole il Signore da noi? Perché ci sta
purificando così? Perché siamo fragili? Non chiederà,
forse, alla vita consacrata un salto di qualità di fede, di conversione,
di ricerca rinnovata fedeltà alla parola di Gesù e al carisma del
fondatore? Ossia, di un amore radicale all’Amore che ci ha amati per
primo? Persino gli apostoli dicevano a Gesù: “Accresci la nostra
fede!”.
Penso che avevamo bisogno di questa purificazione. La nostra
crisi è l’indebolimento di amore a Cristo. L’aver voluto
“guardare troppo avanti” dimenticando i fondamenti del messaggio
ecclesiale.
La vera domanda costruttiva da porsi allora è la
seguente: come trasformare le crisi e le difficoltà in occasione di
grazia? Questo significherebbe “volgere indietro” lo sguardo
all’evento di Cristo affermando la sua presenza sovratemporale.
Non è questo che vuol dire a caso il documento Vita consecrata, quando
parla che il consacrato è memoria vivente di Cristo, del suo amore?
Che fare allora? Concretamente da dove partire?
Alcuni pensano di specializzare sempre più i
consacrati. Si vorrebbero consacrati superspecializzati,
super abilitati, plurilaureati. Credo che la
superspecializzazione da sola non risolverà il problema. Il risultato
è spesso la tentazione di cercare una sistemazione diversa da quella che
il servizio apostolico ci richiede o che l’autorità religiosa ci
propone.
Si stanno cercando vie nuove. Il prurito di nuovi modelli ci
sta sempre tentando. Ma il panorama è ancora frammentato.
Certamente ci vuole molto discernimento tra ciò che
può essere un’autentica via futura di sapienza dello Spirito Santo
e ciò che è unicamente zavorra.
In tanto smarrimento c’è un punto veramente
fermo: quella del consacrato che in Cristo ha perso talmente la coscienza di se
stesso da stimare Cristo e il suo Vangelo come unica realtà.
Lo Spirito Santo ci chiede un salto di qualità. Per
compierlo occorre partire da una santità più autentica, che
implica dare nella preghiera tutto lo spazio allo Spirito Santo per la sua
azione. I grandi innovatori, come ad esempio Madre Teresa, prima di qualsiasi
altra cosa, si sono consegnati totalmente all’amore originario di Cristo
perché fosse Cristo stesso a coinvolgerli nel suo progetto.
La loro spiritualità non era ovviamente
spiritualismo. Hanno dato sempre il meglio di se stessi ai fratelli, ma sempre
sotto lo sguardo di Cristo. Da lui hanno sempre ricevuto non solo la carica
spirituale, ma anche la direzione di marcia, i tempi e i ritmi.
Solo a questo aspirava la loro azione.
UN PROGRAMMA
CHE C’È GIÀ
Il papa Giovanni Paolo II in Novo millenio
ineunte esprime la stessa idea: «No, non una
formula ci salverà, ma una Persona e la certezza che essa ci infonde: Io
sono con voi». «Il programma, continua il papa, c’è
già: è quello di sempre, raccolto dal Vangelo e dalla Tradizione.
Esso si incentra, ultima analisi, in Cristo stesso, da conoscere, amare,
imitare, per vivere in lui la vita trinitaria» (NMI 29).
Qual’è la
proposta chiara di Gesù? L’abbiamo letta nel brano della Prima
lettera di Giovanni che, riprendo, partendo dalla conclusione:
– Queste cose vi scriviamo perché la nostra
gioia sia perfetta. La proposta di Gesù ci chiede la gioia perfetta,
cioè una speranza piena e senza limiti che susciti il desiderio e la
gioia di servire il Signore.
– Giovanni congiunge la “gioia perfetta”
con la comunione. Si tratta di una speranza condivisa, comunicata, una speranza
che deriva dall’essere lievito.
– Questa comunione è con il Padre e con il
Figlio suo Gesù Cristo, ed è la nostra. Quindi è una gioia
ed è una speranza con Dio, con la Trinità, con i fratelli e le
sorelle nella comunità e nella Chiesa.
– Giovanni chiede che la gioia e la speranza siano
annunziate: Noi la annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in
comunione con noi. Questa nuova vita è una gioia condivisa, che, come i
vasi comunicanti, fa circolare la gioia.
– La vita che comunichiamo e condividiamo è la
vita eterna, perché Gesù è presso il Padre da principio.
È una vita che viene dal cielo di Dio, dall’eternità.
– Questa vita si è fatta visibile a noi, noi
l’abbiamo veduta e ne diamo testimonianza.
Ecco qui tutto il Vangelo! La gloria di Dio che abbiamo
visto: è la vita di Gesù, non in forma astratta, ma come la
descrivono i vangeli: una vita povera, schernita, messa in croce, crocifissa
per noi e poi risorta.
Ecco il contenuto di vita che le congregazioni devono
trasmettere alle loro sorelle. Qui sta la fecondità! Qui si ritrovano le
vocazioni! Le giovani consorelle non aspettano altro!
Oggi, purtroppo, è comune trovare delle consacrate
impaurite del futuro. Esse sono sempre più campioni della dilazione. Si
entusiasmano della loro vocazione, arrivano magari anche a stimarla e ad
amarla, ma rimangono indecise, perplesse, in un atteggiamento sempre pronto
alla ritirata.
Le loro scelte non sono più appassionate. Tutto
rimane come appeso sull’esile filo dell’incertezza e del
sentimento. La fedeltà, al massimo, può essere ancora ammirata in
certe persone, ma abitualmente è in una crisi più maligna che
mai.
La cosa più drammatica è che viene a mancare,
nonostante il presunto amore al Signore che si prodiga fedelmente
all’uomo, l’impegno professato una volta e per sempre. Anche se la
professione temporanea per prudenza mi chiede di porre un limite:
l’intenzione dev’essere sempre: una volta
e per sempre.
Siccome non è possibile che Dio possa ritornare
indietro dal momento che i suoi atti sono eterni, allo stesso modo neppure per
l’uomo, dal momento che la sua risposta deve corrispondere
all’offerta di Dio.
Parlando alle giovani religiose che stanno per entrare in un
istituto di vita consacrata, o che già vi sono entrate, dico spesso che
si deve “scegliere di scegliere”.
La fedeltà non è nient’altro che una
scelta. Nella vita consacrata ci si impegna con una decisione di apertura a 360
gradi nei riguardi di Cristo. L’impegno richiede una scelta totale che
implica ridare ossigeno alla speranza. Naturalmente questa scelta deve fare i
conti con le nostre fragilità e le nostre paure, però
l’intenzione di partenza dev’essere
quella di cercare la volontà di Dio sulla propria vita per giocarsi in
una scelta di totalità all’Amore. Ovviamente
l’infedeltà dell’uomo non infrange la fedeltà di Dio.
Lo dice stupendamente Dio in Osea: “Il mio popolo è malato della
sua infedeltà…Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo
freme di compassione…” (11,7-9).
È
inevitabile allora chiedersi: è possibile oggi una scelta vissuta per
tutta la vita?
LA NOSTRA
PROPOSTA
Abbiamo visto la proposta di Gesù. Adesso è
conveniente vedere qual è la nostra proposta.
Scegliere questa vita che propone Gesù. Non come il giovane
ricco che se ne andò triste, ma come quell’altro
giovane che disse a Gesù: Maestro, ti seguirò dovunque andrai (Mt 8,19). Significa non tirarsi indietro, di fronte alle
condizioni che egli ci pone. A chi lo vuol seguire dovunque andrà,
Gesù risponde: Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i
loro nidi, ma ll figlio dell’’uomo non ha
dove posare il capo (Mt 8,20). Scegliere quella vita,
significa avere lo sguardo puntato verso l’amore incommensurabile di
Cristo che è sorgente di grazia. Equivale a voler conoscere il
Gesù del Vangelo, le sue parole, i suoi gesti, la sua passione, morte e
la sua vita tra di noi come risorto. Scegliere quella vita è decidere di
fare ogni giorno la lectio divina, cioè una lectura
in preghiera della sacra Scrittura per conoscere la vita di Gesù, i suoi
sentimenti, il suo amore, che riflette in mezzo a noi l’amore di Dio.
Scegliere Gesù insieme con la comunità:
“insieme” riflette quella gioia di comunione di cui parla Giovanni
nella Prima Lettera: comunione con il Padre e con il Figlio, comunione tra noi,
cioè con tutti coloro che hanno scelto questa vita, e comunione per la
gioia di tutti. Implica il desiderio di ridare non solo ossigeno alla speranza,
sapendo che i tempi non sono facili, ma anche la certezza che lo Spirito non
è stanco, né di questa congregazione né della Chiesa o di
questa storia.
Ma tale comunione va scoperta e approfondita in particolare
con coloro che accolgono Gesù come vita. Si tratta di approfondire che
cosa voglia dire mettere Gesù al centro della comunità. Richiede
fare discernimento. Che cosa è essenziale e va approfondito a livello di
comunione nella fede e nei sacramenti e a livello con la Chiesa locale e
universale?
Tutti, ma soprattutto i giovani, sono affascinati dai
testimoni gioiosi, motivati, capaci di ascolto e di farsi guide, capaci di
“perdere tempo” per accompagnare le giovani consorelle nelle loro
diverse situazioni di vita.
Occorrono pure comunità o fraternità
significative, capaci di rendere visibile la bellezza di essere al servizio del
Regno. Oggi sono stimate queste comunità. Ma non è sufficiente.
Occorre passare dall’ammirazione all’imitazione. Occorre che queste
comunità sappiano presentare consacrate generose nel dono di sé e
umanamente ricche e gioiose.
Occorre ancora una coscienza di unità nella Chiesa
tra tutti i giovani consacrati, al di là delle differenze legittime, al
di là delle tensioni talora creative e talora pericolose, che faccia
risplendere la bellezza dell’unica vita a cui partecipiamo. Credo sia un
compito prioritario.
Forse lo Spirito Santo ci chiede uno slancio rinnovato per
allargare gli orizzonti della nostra testimonianza. Questa fiducia ci rende
capaci di uscire dalle nostre paure, ci permette di credere che
c’è un avvenire, non solo per la vita consacrata, ma per ogni
essere umano sulla terra.
Non sarebbe, forse, opportuno poter presentare dei
“luoghi-segno” della vita come vocazione, luoghi ossia pedagogici
della Chiesa.
Il papa Giovanni Paolo II ci ha chiesto di curare la
celebrazione del Risorto in ogni comunità. L’Eucaristia è
la fonte da cui promana tutta la forza della comunità.
L’Eucaristia crea e costruisce la comunione. Fa crescere la
comunità.
L’Eucaristia è un progetto per la
comunità. La comunità sorge dall’Eucaristia come progetto.
Nell’Eucaristia celebriamo Cristo morto e risorto. Ci fa capire
l’itinerario del consacrato. Ci rimanda a Cristo nostro centro e motiva
tutta la nostra vita. È il dono potente dello Spirito capace di evocare
nella terra bruciata dal secolarismo, la bellezza di seguire Gesù.
La comunità non si organizza, ma si genera.
Nell’Eucaristia ciascuno accoglie la sorella e il fratello. Diventiamo in
questo modo per tutti noi e per gli altri una comunità segno della
speranza. È questa la preghiera che facciamo in ogni celebrazione
eucaristica “conferma nella fede e nell’amore la Chiesa di
Gesù pellegrina sulla terra”. L’Eucaristia ci ricorda che il
volto della speranza è la Pasqua di Gesù. È la forma di
vita di Cristo che è pure la nostra per vocazione. Gesù è
la nostra memoria. La vita consacrata è la memoria della presenza di
Cristo risorto e glorioso accanto al Padre.
Perché non diventare tutti noi testimoni della
speranza? L’Eucaristia ci indica il traguardo che ci attende, ma intanto
ci indica pure la nostra urgente missione: non solo parlare di Cristo a (e oggi
forse si parla troppo), ma di farlo vedere attraverso le nostre vite.
COME FORMARE
ALLA SCELTA?
Il cammino della fedeltà come scelta richiede un
serio cammino formativo condotto con competenza teologico-spirituale
profonda e insieme attenta al mondo.
Solo quei formatori che hanno incontrato personalmente
Cristo e hanno vissuto nella propria vita una donazione fedele al suo amore
fedele che domanda di essere riamato con la stessa fedeltà, possono
capire e far vedere come vivere con fedeltà la vita consacrata. La
scelta definitiva è sempre scelta di amore.
Gli elementi su cui possono basarsi e di cui tenere conto
per definire la scelta definitiva per Cristo sono:
– anzitutto, la purificazione del cuore perché
il nostro cuore è pieno di oscurità, di indurimenti, di
impedimenti, di esaltazioni di sé che non permettono allo Spirito di far
udire la sua voce.
– In secondo luogo, l’ingresso nel mondo della
Scrittura che è il mondo di Dio, quindi la sintonia con il progetto di
Cristo che rivela il disegno di Dio sull’uomo e sul mondo. Dalla
fedeltà alla Parola nasce un “istinto soprannaturale” che
permette di non conformarsi alle mode del momento, ma di rinnovare la propria
mente per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è
buono a lui gradito e perfetto (Rm 12,2).
– In terzo luogo, vi è l’attenzione ai
movimenti interiori del cuore, a ciò che lo Spirito dice in noi. Occorre
invitare il consacrato d’oggi alla riscoperta della vita interiore, che
è l’esperienza di essere preceduti, al fine di dare libera
espressione alle aspirazioni del cuore che cerca significato d’esistenza
e trova la pace in Dio.
Che cosa favorisce la fedeltà come scelta? La
fedeltà è favorita dal mettere la propria vita nelle mani di Dio.
Qui occorre il coraggio di recuperare una solida spiritualità.
Significa:
– un esplicito ricentrarsi
su Cristo. Il punto debole di tanti consacrati è il fatto di essere
andati “da soli” di fronte alle sfide e ai problemi di oggi.
È mancato il rapporto intimo e profondo con Cristo.
– Il ricupero della capacità di silenzio, di
deserto interiore, di momenti di pausa, di preghiera, di rapporto con Dio, di
lectio divina, di combattimento spirituale. Quando il consacrato non è
più capace di affrontare il problema globale della sua vita e
s’immerge nell’attivismo non riesce più ad ascoltare il
proprio cuore.
Quali ostacoli bloccano il cammino della fedeltà?
– La mancanza di equilibrio stabile e definitivo nella
scelta fatta.
Occorre mantenere la memoria biblica del
“sì” detto la prima volta a Dio. Quindi, non solo scegliere,
ma rinnovare la scelta fatta, soprattutto in determinate tappe e momenti della
nostra vita. Scrive von Balthasar:
Il cuore della Chiesa è l’amore fedele (Dove ha il suo nido la
fedeltà? “Communio” 26, 1976, pag.
19). Se, da una parte, c’è Gesù Cristo che è
l’assenso assoluto di Dio all’uomo e per questo è chiamato
il Fedele (2Ts 3,3), dall’altra ci siamo noi che possiamo chiamarci i fideles, i fedeli. La nostra vita diventa sempre più
dinamica e feconda nella misura che ci impegniamo fedelmente nella scelta
fatta.
– Un altro ostacolo è la presunzione di
sé. La fedeltà è una scelta definitiva che coinvolge il
tutto di Dio con il nostro tutto, anche le nostre debolezze. Per questo bisogna
pregare e chiedere a Dio il dono della fedeltà. La presunzione di
sé impedisce la richiesta al Dio fedele.
– Un grande ostacolo è la paura di giocarsi.
Chi ama la propria vita la perderà e chi perde la propria vita per me e
per il Vangelo, la troverà (Mt 10,39).
Si tratta di giocarsi sulla parola di Dio. Questo realizza
la vitalità del consacrato.
Solo questo giocarci per Dio, come Gesù si è
giocato al completo per il Padre sul Calvario, ci rende figli del Padre.
M’impressiona l’esperienza concreta di san
Paolo. Si tratta del famoso discorso di Mileto, dove
dice tra l’altro: “Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito Santo, io
vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà. So
soltanto che lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono
catene e tribolazioni. Non ritengo la mia vita meritevole di nulla,
purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato
dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di
Dio” (At 20, 22-24).
Per Paolo il giocarsi la vita è al centro del
discorso. Non ritengo la mia vita meritevole di nulla, quindi mi butto, mi
lascio andare. Sento che quel che mi importa non è la mia vita, ma
portare a termine la corsa. Cioè fidarmi dell’amore di Dio. Per
Paolo la sua vita non importa niente di fronte a ciò che gli sta
davanti. Paolo si gioca la vita non per disprezzo di essa, bensì per il
fatto che l’ha votata al Signore.
Anche noi siamo chiamati allo stesso fuoco che ardeva in
Paolo. Lo Spirito vuole avvincere anche noi, vuole che ci giochiamo per
Gesù, il nostro unico Amore.