DOPO IL SUICIDIO DI UNA PERSONA CARA
COME SANARE IL CUORE
Talvolta i
religiosi rimangono sconvolti dal gesto di una persona cara che ha deciso di
togliersi la vita. P. Pangrazzi, che ha animato negli Usa un gruppo di
mutuo-aiuto per familiari che hanno vissuto questa perdita, delinea alcuni
elementi caratteristici di questo vissuto luttuoso e percorsi di guarigione.
Uno dei lutti più dolorosi da elaborare è
quello legato al suicidio di un proprio caro. In questo caso la morte non
è causata da una malattia o da un errore fatale commesso lungo una
strada, ma è la persona stessa che, travolta da un intreccio distruttivo
di pensieri e sentimenti, decide di togliersi la vita. È una tragedia che
può colpire le migliori famiglie e persone di comportamento esemplare.
Per chi resta l’impatto è terribile. Non
è solo il sentimento di amaro abbandono che sconvolge i superstiti, ma
è anche la drammaticità di un gesto che, razionalmente o
irrazionalmente, è percepito come un’accusa: «Familiari e
amici si consumano nel tormento di aver fallito nel proprio ruolo di genitore,
coniuge o figlio, di non aver amato abbastanza, di non aver prestato
sufficiente attenzione ad un gesto o a una parola, di non aver saputo decifrare
un messaggio, di non poter tornare indietro”.1
Talvolta, un messaggio lascia intravedere ciò che
è passato nella mente della persona prima del folle gesto: «Per
favore non odiarmi per ciò che ho fatto. È meglio così,
avrai meno problemi. Perdonami, ma ho bisogno di pace» (Rina); «Sto
vivendo in una specie d’inferno mentale e non posso continuare a vivere
così. Vi voglio bene» (Silvia); «Francesca era l’unico
scopo della mia vita. Senza di lei non ha più senso vivere”
(Roberto)»; «Ho cercato di andare avanti, ma non posso continuare a
vivere nell’oscurità. Non voglio essere di peso per voi. Vi voglio
bene» (Enza); «L’eroina ha distrutto la mia famiglia, il mio
amore e ora ha cominciato a intaccare la mia anima. Ho perso tutto, perché
non ho avuto la forza di oppormi al male che mi stava conducendo verso
l`inferno. Di conseguenza, molto egoisticamente, ho preso la decisione di
chiudere questa esistenza terrena. Basta con questa lunga agonia. Vi amo»
(Sergio).
I messaggi possono aiutare a decifrare qualcosa, ma il mistero
e gli interrogativi restano.
Più spesso chi si toglie la vita non lascia messaggi
e porta con sé nella tomba le ragioni per rinunciare a sperare,
producendo nei superstiti sbigottimento e un tormento infinito: «Qualcuno
viene lasciato con l’angoscia di essere stato abbandonato slealmente.
L’abbandono non è così terribile quando c`è tempo e
spazio per un arrivederci. È quando non c’è stato nessun
arrivederci, o peggio un cattivo arrivederci, che la morte diviene odiosa e
lascia un sentimento di incompletezza e irrisolutezza».2
Il cordoglio dei familiari trova eco nelle parole scritte
sul diario di un giovane e indirizzate al fratello: «Un’altra notte
in bianco. Ancora sto cercando di capire perché ci hai lasciato.
È passato quasi un anno da quel giorno, eppure il dolore non diminuisce.
Non riesco a darmi pace, mi manca il tuo sorriso, la tua voce, il tuo ascolto,
le nostre discussioni. Eppure non mi ero mai reso conto del grande dolore che
portavi dentro. Perché non me ne hai mai parlato? Perché hai voluto
abbandonarci così? Se ti fossi reso conto del dolore che ci avresti
provocato, non te ne saresti andato! Ancora mi tormento cercando di capire
perché io ce l’ho fatta e tu no. Spero che tu abbia trovato la
pace che cercavi».3
Talvolta l’esile filo di una comunicazione
«Perché non me ne hai mai parlato?» è ciò che
divide la vita dalla morte. In molte occasioni sarebbe bastato confidare a
qualcuno il groviglio di sentimenti accumulati, per disintossicare un sistema
interiore inquinato e superare un valico ritenuto insormontabile.
Purtroppo, però, il tragico gesto è compiuto;
non si può più tornare indietro. Ai superstiti non resta che
affrontare il travaglio e lo sconforto di una vita drasticamente cambiata.
IL CALVARIO
DI UN CAMMINO
La lacerazione causata da una morte autoinferta richiede
tempi e processi lunghi per cicatrizzarsi. Ci sono due sentimenti ricorrenti
che accomunano chi vive questo lutto particolare: il senso di colpa e il
risentimento. L’intensità di questi due stati d’animo,
ampiamente sperimentati, invoca comprensione e percorsi di graduale soluzione,
per alleviarne il peso e dilatare gli orizzonti della speranza.
Il peso della colpa
Il sentimento di colpa costituisce un incontro umile e
profondo con la propria umanità. Nella vita quotidiana questo stato
d’animo si avverte ogniqualvolta si trasgredisce una norma o un
principio, quando si sperimenta un fallimento o bisogna fare i conti con i
propri limiti e impotenza.
C’è una colpa morale, legata alla violazione di
principi e valori, sociali o religiosi, che richiede ascolto, pentimento e
cambiamento.
C’è una colpa psicologica, che nasce
all’ombra di aspettative disattese (realistiche o irrealistiche),
conflitti sperimentati, frasi dette o non dette, errori di omissione o
commissione.
Questo senso di colpa invoca introspezione e una saggia
valutazione per non trasformarsi in tormento che consuma o in atteggiamenti
autopunitivi, per situazioni o scelte non imputabili alla propria
responsabilità o conoscenza. L’evento di un suicidio fa esplodere
prepotente questo sentimento, che spinge il superstite a interrogarsi e ad
angosciarsi per non aver saputo impedire la tragedia.
Le seguenti frasi, pronunciate da familiari in lutto,
mettono a fuoco il travaglio causato da questo sentimento: «Non mi
perdono di averlo lasciato solo”; “Forse avrei potuto fare di
più»; «Se solo avessi prestato maggiore attenzione a quello
che cercava di dirci»; «Avremmo dovuto portarlo subito dal medico o
dallo psicologo e non assecondare le sue scuse»; «Abbiamo anche noi
le nostre colpe, se non se l’è sentita di andare avanti»;
«Rimpiango di averlo sgridato in un paio di occasioni»;
«Forse gli abbiamo fatto sentire che per noi era un problema».
Talvolta è anche qualche commento sussurrato e
registrato in un supermarket o per strada che sconcerta: «Quello è
il padre del ragazzo che si è impiccato»; «Quella è
la figlia della donna che si è gettata dal quarto piano». Dietro
queste frasi si annida la percezione di un’accusa, la percezione di aver
fallito nel proprio ruolo, lo sconforto per non aver precluso l’infausto
evento.
All’ombra di un addio insperato e segnato
dall’incompiutezza veglia un cuore straziato e una mente abitata da mille
domande. Il senso di colpa che attraversa l’incompiutezza delle relazioni
e dei distacchi assume un ventaglio di manifestazioni che vanno
dall’imbarazzo al rimpianto, dall’autodenigrazione alla
depressione, dal rimorso al bisogno di fuga dal contesto sociale.
Un’espressione frequente concerne il senso di vergogna che si prova
dinanzi a una tragedia che macchia e lede la reputazione della famiglia agli
occhi della società.
C’e’ chi per evitare lo stigma sociale sceglie
di nascondere le vere cause della morte attribuendola ad altri fattori
più accettabili: «È stato un incidente, stava pulendo il
fucile»; «Aveva un tumore al cervello»; «Un infarto se
l’è portato via». La scelta del diniego o del silenzio
può limitare le opportunità di catarsi, perché
l’energia psichica viene consumata nel proteggere il segreto.
Talvolta, il nascondere ai figli le cause di morte del
genitore per proteggerli da altri dolori può comportare il rischio che
scoprano la verità a scuola attraverso il commento sarcastico o
provocatorio di un compagno.4
La presenza del senso di colpa e/o di vergogna richiede
comprensione, ma anche obiettività nel rivisitare quanto accaduto.
La colpa “malsana”, alimentata dalla percezione
di errori non imputabili alla propria conoscenza o responsabilità, tende
a prosciugare le energie fisiche, psicologiche e mentali della persona
paralizzandone la vita, accrescendone la tristezza e la chiusura.
La colpa “sana”, d’altro canto, valuta con
equilibrio il rapporto, contempla il passato alla luce delle informazioni che
si possedevano allora, non con le conoscenze di oggi; riconosce che, per quanto
significativa possa risultare la propria presenza, non si è mai
l’unica persona nella vita di chi se ne è andato; prende atto che
non si può scegliere o decidere per un altro. Se così fosse, il
proprio caro sarebbe ancora in vita!
La capacità di perdonarsi e di perdonare nasce dalla
riconciliazione con i propri limiti e impotenza, dalla disponibilità ad
addentrarsi nel complesso mondo dell’altro, non per giustificarne il
gesto, ma per coglierne lo smarrimento e la sofferenza.
Monbourquette5 riassume l’atteggiamento sanante di chi
si apre al perdono verso chi se ne è andato senza salutare.
«Perdonagli di essersene andato, di essersene andato
troppo presto, di essersene andato all’improvviso, di essersene andato
senza salutare, di essersene andato senza mai averti dichiarato il suo amore,
di esserne andato senza aver mantenuto le promesse fatte, di essersene andato
portandosi dietro una parte della tua vita, di essersene andato portandosi
dietro i sogni del tuo futuro».
La forza del risentimento
L’altro sentimento sperimentato da molti superstiti
è il risentimento verso il defunto per tutto il dolore che ha causato,
per aver disonorato il buon nome della famiglia, per aver rinunciato a lottare.
La collera trova eco in espressioni, quali: «Non poteva
pensare ai bambini?»; «Perché non ha considerato tutti i
problemi che avrebbe creato anche a noi?»; «È stato un
egoista, ha voluto uscire dalla scena!»; «Non aveva il diritto di
pensare solo a sé»; “Non doveva lasciarci
così”; «Sono arrabbiato per tutti i guai che mi ha
causato»; «Non posso lasciarmi morire, perché lui ha scelto
di abbandonarmi»; «Sono furente perché non ha saputo
aspettare»; «La sua decisione mi ha terribilmente ferito…,
dopo tutto quello che ho fatto per aiutarlo».
Per alcuni il risentimento è un modo per spurgare
gradualmente l’amarezza di sentirsi traditi e lasciati; per altri
scaturisce all’ombra degli umilianti e imbarazzanti colloqui sostenuti
con i carabinieri o con il medico legale, per escludere l’ipotesi di un
omicidio. Spesso, sono le notti in bianco, il letto freddo e vuoto o
l’infinita sequenza di problemi quotidiani, che fanno esplodere la
collera verso il defunto, per aver scombussolato l’esistenza di tante
persone.
Il risentimento rappresenta, comunque, un’energia
solida e puntigliosa, che aiuta a sopravvivere, a stringere i denti e a
lottare. In qualche modo i superstiti, a differenza del proprio caro che ha
deciso di arrendersi dinanzi ai disappunti e ai fallimenti, attraverso questa
reazione dichiarano la loro volontà di andare avanti, di non lasciarsi
travolgere dallo scoraggiamento, di credere nel futuro, nonostante il duro
colpo inferto alla loro immagine e al loro morale.
Il risentimento denuncia una protesta, una forma di
ribellione verso chi ha rinunciato a sperare considerando la morte come
l’unica soluzione al dolore.
La manifestazione verbale o non verbale di questo sentimento
permette gradualmente ai superstiti di maturare atteggiamenti di comprensione
verso il mistero, le difficoltà e i silenzi del suicida, il suo senso di
solitudine e isolamento, la sua percezione dell’inutilità di ogni
sforzo, la sua paura di vivere.
La disponibilità ad addentrarsi nella mente o nel
cuore dell’altro è un modo per perdonarlo, accettandone la
complessità e imparando a riconciliarsi con ciò che non si
può cambiare. Allo stesso tempo, il contatto con la rabbia innesta
motivazioni per vivere, per ricavare insegnamenti dalla ferita, per affermare
il proprio valore e le proprie ragioni per proiettarsi nel domani.
Dinanzi alla lacerazione di un abbandono, Monbourquette
coglie il processo positivo del risentimento che non rimane ruggine, ma si
trasforma in atteggiamenti costruttivi:
«Non mi sono avviato sui sentieri della vendetta. Sono
fiero di me. Ho vissuto la mia indignazione senza cercare di castigarti. Ho
capito l’inutilità della mia vendetta. Sono orgoglioso di me
stesso: sono rimasto solo con la mia ferita, l’ho curata e l’ho
guarita. Non ho accettato di seppellire ciò che avevo amato».6
PERCORSI
PER SANARE IL CUORE
Il lutto dipende da una varietà di variabili, tra cui
elementi concernenti l’età e il ruolo del defunto, il tipo di
rapporto avuto con lui/ lei, il supporto esterno su cui contare e le proprie
risorse interiori. Ogni variabile ha la sua rilevanza, ma il fattore che incide
maggiormente nel processo del cordoglio riguarda le risorse fisiche, mentali,
psicologiche e spirituali presenti nel superstite.
Alcuni sono in grado di rispondere alla tragedia e al
ventaglio di sentimenti e disagi che l’accompagnano facendo appello alle
proprie forze e ai propri impegni familiari e professionali. Altri hanno
bisogno di ricorrere al supplemento di qualche farmaco o all’aiuto di
qualche sonnifero per poter dormire, alleviare l’ansietà, recuperare
le energie necessarie. Altri, ancora, si rivolgono all’aiuto di uno
psicologo, psicoterapeuta o psichiatra per ricomporre i frammenti di un mondo
crollato, ricostruire un’identità smarrita, dare voce al caos di
emozioni che invocano ascolto e liberazione. Il supporto di un professionista
contribuisce a sedare il dolore, ripristinare l’autostima, ricostruire la
progettualità. Ci sono, infine, coloro che trovano conforto e guarigione
all`interno dei gruppi di mutuo aiuto sorti per aiutare le persone provate da un
lutto.
C’è un senso di comunione e solidarietà
che si crea con quanti sono provati da perdite simili alle proprie. Il gruppo
diventa luogo di supporto reciproco e di guarigione interiore e sociale. Chi vi
partecipa scopre di non essere solo nel vivere determinati sentimenti e
pensieri, avverte la fecondità della sofferenza messa a servizio del
prossimo, apprende lezioni importanti di vita e ritrova le proprie motivazioni
e risorse per reimmergersi nella vita.
“Un suicidio, scrive F. Antonelli, non può
essere né commentato né spiegato, può essere soltanto
pianto”.7 “Ci sono dolori che non hanno tempo: immobili, enormi,
mille volte più forti delle nostre capacità di soffrire; restano
lì, inesorabili, come pugnali nel cuore”.8
È vero: il suicidio può essere uno di questi
grandi dolori. La vita, però, non è solo dolore e il dolore non
è per sempre. Il suicidio di una persona cara può sconvolgere i
propri progetti e la propria pace, ma non rende infelici per sempre. Anche la
notte più lunga è seguita dall’aurora.
All’ombra delle tempeste più impressionanti,
così come dietro le nuvole più oscure, è nascosto il sole.
L’invito è di assumere il travaglio del cordoglio, affrontare la
stagione del freddo e dell’inverno sapendo che lentamente
ritornerà il caldo, la primavera e la speranza.
p. Arnaldo
Pangrazzi,
docente al Camillianum9
1Pangrazzi A., Coscienza e vissuto: il
suicidio, in Il Regno, quindicinale di attualità e documenti, Anno XLVI,
n. 873, 2001, p. 11.
2Ibidem, p. 10.
3Aa.Vv., a cura di Arnaldo Pangrazzi, Il suicidio: dalla
resa alla lotta per la vita, ed. Camilliane, Torino, 2004, p. 119-120.
4Pangrazzi A., “Suicidio: prospettive” in
Aggressività e disperazione nelle condotte suicidarie, Atti convegno
internazionale, Abano Terme, (PD), 1998, p. 186.
5Monbourquette J., Ricominciare a vivere, ed. Paoline,
Milano, 1996, p. 133.
6Ibidem, p. 132.
7Antonelli F., “Togliersi la vita, un fatto
patologico”, in Famiglia Oggi, n. 48, 1990, p. 14.
8Buttafava V., La vita è bella nonostante, Rizzoli,
Milano, 1975, p. 22.
9INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE:
A. Pangrazzi, Il suicidio: dalla resa alla lotta per la
vita, ed. Camilliane, Torino, 2004, tel. 011/ 8194648.
A. Pangrazzi, Il lutto: un viaggio dentro la vita, ed.
Camilliane, Torino, 1991.
A. Pangrazzi, Aiutami a dire addio, Ed. Erickson, TN, 2002.