PAZIENZA E IRRITAZIONE NEI RAPPORTI FRATERNI

IMPARARE A PERDONARSI

 

Perché ci irritiamo dinanzi a episodi a volte anche abbastanza banali per poterli sopportare con un sano spirito di sacrificio? E, soprattutto, com’è possibile che quanti sono “esperti di comunione”, si facciano sfuggire ciò che hanno di più caro, la pazienza che aiuta a portare insieme i pesi gli uni degli altri?

 

Che cos’è l’ira? O meglio, è possibile provare risentimento e irritazione per chi vive in un contesto relazionale qualificato dall’amore reciproco qual è appunto la comunità religiosa?

Non si può dire che la rabbia faccia parte del dizionario comportamentale della vita consacrata, perché di solito i religiosi e le religiose hanno come fondamento della loro vita comune la tranquillità e la calma, o meglio, la comprensione e il perdono. Ma mettiamoci per un momento dalla parte di chi, per un motivo o per l’altro, perde la pazienza anche in un contesto particolarmente votato all’amore reciproco, non ce la fa più e scoppia di rabbia…

«Quando ho visto che aveva ancora una volta dimenticato le luci della chiesa accese e la porta aperta, diceva un vecchio parroco riferendosi al confratello sagrestano, non ce l’ho fatta più, ho cominciato a dirgliene di tutti i colori, a tal punto che non riuscivo più a fermarmi». Sono situazioni limite, oppure un modo per poi tornare a chiedersi scusa, da buoni fratelli o confratelli, ma certo che di tanto in tanto può succedere anche alle anime più pie di vedersi scappare la pazienza ed esplodere. Facciamo riferimento non soltanto agli avvenimenti straordinari di reazione incontrollata (ciò che difficilmente si riscontra nella vita consacrata) ma a quei molteplici episodi ordinari, fastidi relazionali, piccoli e irritanti “dispetti relazionali” che nella letteratura sulle dinamiche interpersonali nei gruppi significativi sono indice di un vissuto intrapsichico “non detto” che influenza il rapporto emozionale tra le persone. Già Lazarus, attento studioso dei contesti relazionali stressanti, parlava di daily hassles,1 cioè di quei fastidi quotidiani che sfiancano il contesto delle relazioni, quando le persone non sono capaci di riscoprire il senso profondo della loro convivenza. Sono insomma quei problemi relazionali stabilizzati e ripetitivi che in genere non presentano una grande difficoltà di adattamento (“basta non farci caso, basta chiudere un occhio e far finta di non vedere…”, come tante volte si ribatte quando ci si trova coinvolti), ma che incidono a livello emotivo sulle relazioni, assumendo un carattere stressante per l’effetto cumulativo che hanno negli individui.

Ma perché ci arrabbiamo dinanzi a tali episodi che a volte sono anche abbastanza banali per poterli sopportare con un sano spirito di sacrificio? E, soprattutto, com’è possibile che quanti sono “esperti di comunione”,2 si facciano sfuggire ciò che hanno di più caro, la pazienza che aiuta a portare insieme i pesi gli uni degli altri?

 

QUANDO ARRABBIARSI

FA MALE ALLA COMUNITÀ

 

L’irritazione, la collera, il rancore, la rabbia, sono tutte emozioni tipiche che esprimono ostilità verso un oggetto esterno, in modo particolare nei rapporti tra persone che condividono relazioni significative come nella famiglia, tra amici, oppure nelle comunità religiose.

Tali sentimenti si presentano spesso in combinazione e, pur avendo origini, vissuti e conseguenze diverse, risulta difficile identificare l’emozione che predomina sulle altre. Paradossalmente, quando siamo arrabbiati con il confratello o la consorella noi ci relazioniamo – in modo disfunzionale – con il mondo circostante per ottenere risposte ai nostri bisogni. Le risposte che però otteniamo non sono più funzionali ai bisogni non soddisfatti, e ciò amplifica il valore che assegniamo al nostro vissuto emotivo negativo.

Pur consapevoli che tutti questi termini linguistici riferiti alla rabbia sono molto lontani dalle esortazioni abituali sulla vita comune, quali «educazione, gentilezza, sincerità, controllo di sé, delicatezza, senso dell’umorismo e spirito di condivisione»,3 quanti si arrabbiano per qualcosa spesso si chiedono con sorpresa: “non so perché l’ho fatto, è stata una cosa che non sono proprio riuscito a controllare”. Da dove nasce tale carica emotiva negativa?

Per la maggior parte delle teorie la rabbia rappresenta la tipica reazione alla frustrazione e alla costrizione, sia fisica che psicologica. Pur rappresentandone i denominatori comuni, la costrizione e la frustrazione non costituiscono in sé le condizioni sufficienti e neppure necessarie perché si origini un sentimento d’irritazione e di rabbia. La relazione causale che lega la frustrazione alla rabbia non è affatto semplice. Altri fattori sembrano infatti implicati affinché origini l’emozione della rabbia. La responsabilità e la consapevolezza che si attribuisce alla persona che induce frustrazione o costrizione sembrano essere altri importanti fattori.

Ancor più delle circostanze concrete del danno, quello che più pesa nell’attivare una emozione di rabbia sembra essere la volontà che si attribuisce all’altro di danneggiare l’eventuale possibilità di evitare l’evento o la situazione frustrante. Insomma ci si arrabbia quando qualcosa o qualcuno si oppone alla realizzazione di un nostro bisogno, soprattutto quando viene percepita l’intenzionalità di ostacolare l’appagamento.

Le modificazioni psicofisiologiche che si manifestano attraverso la forte propensione all’agire con modalità aggressive sono funzionali alla rimozione dell’oggetto frustrante. La rabbia è sicuramente uno stato emotivo che aumenta nell’organismo la spinta energetica utilizzabile per passare alle vie di fatto, siano queste azioni oppure solo espressioni verbali. Provate a osservare due confratelli o due consorelle che “battibeccano” nel corso di un incontro comunitario: osservate i loro gesti, il movimento agitato delle gambe, guardate come i fasci nervosi del collo si tendono e si irrigidiscono man mano che alzano la voce per ribattere il proprio pensiero a quanto l’altro sta dicendo. Ovviamente non fanno nulla di male, si stanno semplicemente arrabbiando tra loro perché l’altro/l’altra in quel momento è percepito/a come un ostacolo che si oppone alla realizzazione di un proprio bisogno, con una particolarità che rende spiacevole il loro scambio verbale: l’unica strategia che in quel momento sembra loro possibile è quella dell’induzione alla paura mediante un violento attacco verbale.

 

LE DIVERSE FUNZIONI

DELL’EMOZIONE NEGATIVA

 

A livello psicologico, le ricerche compiute sui comportamenti umani hanno dimostrato che i motivi che sono alla base di un attacco di rabbia riguardano maggiormente la frustrazione di attività connesse con l’immagine e la realizzazione di sé, soprattutto quando tale immagine è centrata su un sé ideale molto forte e inamovibile per poter essere scalzato dall’opposizione di qualcun altro. Lo scopo in questo caso sembra rivolto a modificare un comportamento che non si ritiene adeguato. L’arrabbiarsi, motivando chiaramente le motivazioni dello scontento, sembra infatti essere una procedura per ottenere un utile cambiamento.

Ma allora, se potrebbe essere utile, perché temiamo la nostra irritazione? Lo sanno bene quanti hanno perso la pazienza e hanno avvertito il pericolo di perdere il controllo delle proprie azioni. “Mi sentivo ribollire dentro, avevo proprio voglia di dirgliene quattro”, diceva una suora a proposito di una consorella che non aveva fatto quanto le aveva chiesto. Sembra che la rabbia ci carichi di energia, di certezze, di decisione, di coraggio: stiamo male, ma crediamo di sapere bene cosa ci farebbe star meglio: ripagare o raddrizzare i torti subiti, mettere le cose a posto, far smettere l’altro, cantargliene quattro, fargliela vedere. Le persone che entrano in questa dinamica sentono che la reazione che attuano arriva a un punto in cui c’è il rischio di farsi prendere la mano, diventa “più forte di loro”. È come entrare in una escalation interiore che però controlliamo poco e conteniamo con difficoltà.

Quando ci troviamo a questi livelli di interazione, i fattori psicologici che stanno all’origine delle arrabbiature dipendono essenzialmente dal valore assegnato alle cose e dalla rappresentazione mentale che ci si fa del “colpevole”.

Possiamo distinguere tre caratteristiche delle arrabbiature comunitarie più frequenti e diffuse. In primo luogo sembra evidente che esse insorgono quando la responsabilità di un evento per noi negativo viene attribuita a una persona che sentiamo responsabile di quello che ha fatto. Una seconda caratteristica dell’evento negativo che suscita rabbia relazionale è che esso sia considerato potenzialmente evitabile, cioè né fatale, né necessario. Allora la rabbia, che di fatto è scatenata dalla frustrazione, viene indirizzata contro chi avrebbe potuto evitare tale frustrazione e non lo ha fatto. Un terzo elemento è la mancanza di giustificazione, cioè la gratuità di un evento che, pur arrecando danno ad altri, non porta dei vantaggi reali a nessuno.

In altre parole, quando le persone si arrabbiano, sono sicure di queste tre cose: che l’altro ha fatto volontariamente e consapevolmente quello che ha fatto; che volendo avrebbe potuto evitarlo; che questa azione non gli ha dato vantaggi considerevoli o almeno proporzionati al danno arrecatoci. Tutto ciò attiva una sequenza di azioni, nella quale si perde di vista il moto iniziale che ha dato inizio al disagio successivo. Purtroppo però, quando la persona non riesce a gestire il vissuto emotivo, le azioni ostili nel loro ripetuto rimbalzare possono amplificarsi lungo il percorso, subire drastici cambiamenti, come quando da toni aspri si passa agli insulti o peggio al silenzio svalutante nei confronti dell’altro.

 

IL PERDONO

E LA RICONCILIAZIONE

 

Il documento La vita fraterna in comunità ci ricorda che «sempre è possibile migliorare e camminare assieme verso la comunità che sa vivere il perdono e l’amore. Le comunità infatti non possono evitare tutti i conflitti. L’unità che devono costruire è un’unità che si stabilisce al prezzo della riconciliazione».4 Per migliorare i rapporti perdonandosi a vicenda, così come Gesù ha insegnato, occorre tenere presenti alcune disposizioni che aiutano a crescere attraverso le differenze che si manifestano nei contrasti e nelle arrabbiature comunitarie.

La prima, quella del confronto tra le persone che entrano in dinamiche interpersonali che possono portare a vissuti di rabbia. Tale confronto fatto sulla base della chiarezza e della reciprocità di vedute, comprende un tipo di comunicazione interpersonale che sia capace di descrivere ciò che accade senza valutazioni e generalizzazioni personali. In questa fase le persone saranno portate a rispettarsi e a comprendersi (nel senso più oggettivo possibile) nelle reciproche differenze, senza irrigidirsi su posizioni da mantenere anche a costo di emozioni bloccanti e minacciose, come l’ira e la rabbia.

Tutti sono d’accordo che arrabbiarsi è un’esperienza spiacevole, così come è vero che la continua irritazione è dannosa alla salute. Inoltre, avere a che fare con una persona arrabbiata è spiacevole, infatti le persone irascibili hanno meno amici degli altri. Basterebbero questi due fatti per giustificare affermazioni frequenti come “arrabbiarsi non serve a niente”, oppure “se ti arrabbi non si può ragionare”. Forse arrabbiarsi non serve a niente, ma è possibile che si continui a provare uno stato emotivo e a manifestarlo in molte situazioni diverse fra loro nelle quali questa emozione sia inutile, se non proprio dannosa? No, deve servire a qualcosa, anzi a qualcosa di molto importante, soltanto che quando le persone sono arrabbiate non riescono a elaborare nient’altro di costruttivo per i loro rapporti, perché la loro valutazione dei fatti è offuscata dall’esperienza emotiva negativa.

Quindi, la seconda disposizione è centrata sull’attenzione verso le risorse emozionali presenti, di cui gli interagenti se ne assumono le responsabilità. Tale attenzione dovrebbe facilitare la comunicazione del proprio vissuto emotivo all’altro, sulla base di quanto è stato ricostruito attraverso la comunicazione descrittiva, e serve a facilitare il processo di esplorazione reciproca, affinché le persone possano accorgersi della propria emozionalità e comprendere il significato (positivo o negativo) che essa ha nella loro interazione.

Infine, tale riconoscimento dato dalla definizione dei fatti interpersonali che hanno portato al disagio emozionale e dall’individuazione dei loro stati emozionali sperimentati nella relazione, prepara la strada all’integrazione di tali differenze in vista degli interessi comuni. «La comunità genera un senso di direzionalità congruente con i valori personali e le aspirazioni in ciascuno dei suoi membri. Ciò contribuisce al senso di identità di ognuno, (...) e motiva ciascuno individualmente».5

Soltanto a partire da questo continuo allenamento a saper riconoscere a livello emotivo ciò che succede nei rapporti (piacevoli o spiacevoli che siano) si può arrivare a riscoprire il dono della differenza dell’altro,6 in un contesto relazionale che è il luogo privilegiato per la reciproca evangelizzazione e per la missione apostolica che caratterizza l’identità di ogni comunità religiosa, attraverso il coinvolgimento di ciascuno.

 

Giuseppe Crea, mccj

pontificia Università Salesiana, Roma

 

1Lazarus R. S. et alii (1980), Psychological stress and adaptation: some unresolved issues, in: Selye H. (Ed.), Selye’s guide to stress research, vol. 1, New York, Van Nostrand Reinhold, pp. 91-117.

2Vita consecrata, 46.

3La vita fraterna in comunità, 27.

4La vita fraterna in comunità, 26.

5Gonzalez Silva S. (ed.) (2002), Star bene nella comunità, Milano, Áncora, p. 65.

6Crea G. (2006), Diagnosi dei conflitti interpersonali nelle comunità e nei gruppi, Bologna, EDB, p. 130.