UNA GRAZIA DA NON RICEVERE INVANO
CONFESSIONE E IDEE FALSE DI DIO
Il sacramento
della riconciliazione è spesso pregiudicato nei suoi frutti dalla falsa
concezione che molti hanno di Dio. C’è quindi tutto un lavoro da
fare per correggere queste immagini sbagliate e sostituirle con quelle vere,
come sono presentate nella Bibbia e nel magistero della Chiesa.
La celebrazione della domenica della misericordia, stabilita
da Giovanni Paolo II per la seconda domenica di Pasqua, è venuta anche
quest’anno a ricordarci quanto sia grande il dono che Gesù ha
voluto lasciarci attraverso la Chiesa, in particolare nel sacramento della
riconciliazione. Un sacramento di cui si continua a parlare molto, ma che forse
la prassi pastorale non è ancora riuscita a far diventare un vero momento
di grazia e di conversione per tanti fedeli che pur vi si accostano. Per molti
esso rimane una specie di routine che lascia le cose com’erano prima,
anche se magari resta la convinzione di aver adempiuto a un dovere.
Lasciando ai pastoralisti di approfondire questo argomento,
c’è un aspetto su cui vorremmo qui attirare l’attenzione:
molti si accostano alla confessione con un’immagine falsa di Dio, e sono
perciò incapaci di coglierne i frutti.
Scrivendo su questo argomento, p. Scott P. Detisch,
nell’ultimo numero di Human Development (n. 1 2006),1 osserva che
nell’incontro sacramentale c’è qualcosa di genuinamente
divino e insieme di genuinamente umano. Ciò che è divino è
il dono totale e gratuito che Dio ci offre: la nuova vita, la sua intima
presenza, un amore di alleanza, la guarigione e il perdono; nella parte umana
c’è invece sempre qualcosa di imperfetto, così che il dono
sacramentale non riesce mai a diventare un’esperienza efficace. La
ragione sta proprio in questa immagine imperfetta che molti penitenti hanno di
Dio, un’immagine che non corrisponde alla verità e che p. Scott
chiama “tossica”. Per esempio, osserva, ci sono alcuni che si
accostano al sacramento nella convinzione di recuperare lo stato di grazia,
allontanando così da sé i castighi di Dio. Confessandosi, sono
convinti di avere riguadagnato l’amore di Dio. Altri ritengono di avere
recuperato la rettitudine per aver confessato in maniera appropriata i loro
peccati, aver ricevuto l’assoluzione e fatto la penitenza. Un’altra
categoria è convinta di non potersi liberare da sola dagli atteggiamenti
peccaminosi e dalle cattive abitudini, e dal relativo senso di vergogna che li
accompagna. Sono persone incapaci di andare alle cause di queste abitudini; per
esse la “confessione” diventa la scelta più facile
poiché offre loro un immediato senso di sollievo, almeno fino alla
prossima occasione di peccato.
In tutti questi atteggiamenti, sottolinea p. Scott,
c’è un’immagine malsana di Dio ed è importante che i
confessori sappiano diagnosticarla per farla emergere e sostituirla con quella
che viene offerta dalla Scrittura, dall’insegnamento della Chiesa e da
una visione teologica matura e in grado di far maturare. Se infatti la
verità su Dio diventa un’immagine “tossica”, questa
può giungere ad avvelenare la vita interiore della persona e impedire
quella guarigione e liberazione che Dio desidera donare, specialmente nel
sacramento della riconciliazione.
UN DIO
CHE CASTIGA
La prima immagine sbagliata è quella di un Dio che
castiga. Questa convinzione presente in tante persone è dovuta
certamente a numerosi fattori legati alla psiche di ciascuno o alle circostanze
in cui uno è cresciuto ed è vissuto. Anche la Scrittura sembra a
volte favorire questa immagine. Essa infatti, sottolinea p. Scott, è
piena di racconti e di immagini di un Dio che punisce chi si comporta male. E
ciò non solo nell’Antico Testamento, ma anche nel Nuovo. Per
esempio, nel vangelo di Matteo leggiamo del castigo eterno inflitto “ai
capri messi a sinistra” (25,41-46); così negli Atti degli Apostoli
viene riferito della morte improvvisa inflitta ad Anania e a sua moglie per non
aver consegnato agli apostoli il ricavato della vendita della loro
proprietà (5,1-11). Leggendo questi episodi, commenta p. Scott, è
difficile resistere alla tentazione di collegare il castigo di Dio con il male
commesso.
In realtà, Dio desidera che tutti abbiano a scegliere
ciò che è buono, giusto e nobile. Questa scelta pone la persona
all’interno del regno di Dio e favorisce la sua crescita. Scegliere
invece il contrario vuol dire optare per ciò che è sbagliato,
prendere le distanze dal regno di Dio e quindi andare incontro a esperienze di
disordine e di alienazione. La verità sta quindi nel fatto che ci sono
delle conseguenze negative che derivano dai nostri peccati, non da Dio. Siamo
noi con le nostre scelte che ci mettiamo in contrasto con la dinamica del suo
Regno.
Ma se le conseguenze delle nostre scelte peccaminose sono
viste come una risposta vendicativa di Dio, e non come il risultato naturale
delle nostre risposte peccaminose, allora Dio si trasforma in una
divinità di cui è necessario placare l’ira e guadagnare la
misericordia. Dio è concepito come una minaccia punitiva, come uno che
va alla ricerca del peccatore per dargli ciò che si merita per i suoi torti
commessi. Questa, sottolinea p. Scott, è un’immagine
“tossica” di Dio contro cui i confessori devono combattere.
Un’immagine del genere non ammette l’amore di Dio, e pertanto non
apre alla forza trasformante del suo amore. Per un individuo del genere, lo
scopo della “confessione, consiste allora nel tenere lontano la punizione
di Dio invece di sentirsi attratto dal suo incredibile abbraccio amoroso. In un
atteggiamento del genere non avviene nessuna guarigione capace veramente di
trasformare, né alcun progresso nella maturità spirituale;
persino il bene che si compie nei riguardi degli altri diventa un problema di
immaturità (“Dio mi ricompensa per il bene che ho fatto”)
anziché un dono disinteressato di sé.
Anche gli sforzi per diventare migliori toccano solo la
superficie della persona (parole, azioni, pensieri). Abbiamo qui allora una
persona che agisce per paura di un Dio severo, chiudendo così il proprio
animo alla grazia di Dio, ossia proprio quel luogo in cui avvengono i veri
effetti del sacramento della riconciliazione.
UN DIO CHE SI ATTENDE
LA PERFEZIONE
Una seconda idea sbagliata è quella di un Dio che si
attende la perfezione. Viene spontaneo collegare questa convinzione con
l’affermazione di Gesù: “Siate perfetti come è
perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). In realtà, osserva p.
Scott, sia il messaggio sia il suo ministero sono un invito a non cadere mai
nella tentazione di compiacersi del proprio modo di vivere. Esiste sempre una
dimensione ulteriore del Vangelo da abbracciare e da vivere. La vita è
un cammino di perfezione, intesa come santità. Dal momento che è
un processo, vuol dire che la perfezione non sarà mai uno stato
acquisito in nessun momento della vita. Inoltre, in quanto processo,
attraverserà sempre momenti di crescita e di regresso a causa delle
nostre disposizioni imperfette. Ogni essere umano, benché salvato da
Cristo e costante oggetto della grazia di Dio, rimane sempre imperfetto fino al
momento dell’eterna unione con lui. E tuttavia Dio continua ad abbracciarci
durante questo processo: altrimenti il cammino per diventare santi non potrebbe
assolutamente continuare poiché non può essere solo il risultato
degli sforzi umani. È sempre la grazia di Dio che ci conduce alla
pienezza di vita nel regno di Dio – una vita di persone indivise nel
nostro amore a Dio e nel nostro impegno verso il prossimo. Questo è
quanto che Gesù intende dire con il suo comando di essere perfetti.
Se invece esso lo intendiamo come un ammonimento in ordine a
una vita senza imperfezioni e del tutto senza peccato, allora cadiamo in
un’immagine “tossica” di Dio, ossia quella di un Dio
perfezionista. In questo modo, si finisce con l’accostarsi al sacramento
della riconciliazione solo se si è convinti di avere un dolore perfetto,
se si fa un rendiconto preciso e completo della propria vita, accompagnato da
una ferma risoluzione di non peccare più. Molti penitenti che la pensano
così danno l’impressione di voler raggiungere la perfezione con la
sola forza della loro volontà e la loro determinazione umana. Cosa che
evidentemente non avverrà mai: di qui un’accresciuta
rigidità nel modo di vivere la loro vita e di concepire la confessione
come un tentativo di riacquistare la perfezione. Inoltre, se Dio è visto
come un perfezionista, il penitente non arriverà mai a capire quanto
egli sia amabile e amato da Dio proprio nella sua imperfezione e non
giungerà mai a sentire la presenza di Dio che l’accompagna
così come è, ossia come essere imperfetto. Per lui infatti Dio
può essere raggiunto solo in uno stato di perfezione. Ciò fa di
Dio una divinità che invita a qualcosa di più (qualcosa di
irraggiungibile senza Dio) ma che poi non ci aiuta lungo il cammino: una
concezione crudele di Dio, se si pensa così.
UN’IDEA SBAGLIATA
DELL’AMORE DI DIO
Un’altra immagine sbagliata riguarda il modo di
concepire l’amore di Dio. Esser amati da Dio è la dimensione che
più di ogni altra sta al cuore dell’esperienza religiosa. In altre
parole, sappiamo che l’amore di Dio è immeritato e incondizionato.
È un puro dono che proviene dal cuore di Dio, un dono che desidera
essere accolto.
Il rischio è di considerare l’amore secondo i
dinamismi umani in cui c’è bisogno di reciprocità per
continuare ad agire, secondo un criterio di giustizia: ossia uno riceve quello
che si merita. In questa concezione, coloro che peccano o vivono egoisticamente
non meriterebbero l’amore di Dio. I penitenti che hanno questa
convinzione considerano il sacramento della penitenza il mezzo per recuperare
l’amore di Dio. Si trovano così prese in un continuo movimento di
va e vieni rispetto alla grazia di Dio, nel senso che pensano di perdere
l’amore di Dio ogni volta che peccano e di recuperarlo per mezzo della
contrizione, la confessione, l’assoluzione e la penitenza. Il sacramento si
riduce così a una specie di transazione in cui uno paga il prezzo dei
propri peccati, recupera l’amore di Dio e ricomincia a vivere in uno
stato di grazia, almeno per un po’, fino al prossimo peccato. Questa
mentalità, rileva p. Scott, diventa sempre più
“tossica” poiché impedisce al penitente di porsi la
difficile ma risanante domanda su che cosa c’è dietro al proprio
stato peccaminoso. C’è infatti ben poca motivazione per una
profonda conversione e trasformazione poiché in definitiva ciò
che conta è di recuperare lo stato di grazia. Queste persone non hanno
l’esperienza di essere abbracciate dall’amore di Dio, unico punto
di partenza per una profonda conversione e trasformazione.
UN DIO
CONTROLLORE
Un’ultima idea sbagliata è quella di un Dio che
controlla la nostra vita. La verità invece è che egli è il
creatore dell’universo e di ciascuno di noi e ha un progetto su ognuno di
noi. Suo desiderio è che tutta la creazione rientri nel regno di Dio.
Questa è la ragione per cui ha inviato Gesù Cristo nel mondo,
ossia per “riconciliare a sé tutte le cose, in cielo e sulla
terra” (Ef 1,10). Cristo è il completo e definito momento di Dio
impegnato nella nostra storia. Ma egli non manipola gli eventi per compiere il
suo piano. Ha dotato la creazione e la volontà umana di libertà,
anche se non è un ozioso spettatore. Al contrario il suo Spirito
è sempre presente e attivo nella creazione, per porre ogni momento della
storia umana e di ogni vita umana a contatto con la vita, la morte e la
risurrezione di Cristo. Tuttavia, agli sforzi dello Spirito si può
sempre resistere ed essi possono essere rifiutati dalle creature umane.
Ora se uno interpreta la provvidenza di Dio e il suo
coinvolgimento nella vita umana come di uno che controlla gli avvenimenti della
sua vita personale, questi rinuncia al proprio senso di responsabilità e
fa di Dio un abile manipolatore. Il penitente che ha un’immagine del
genere di Dio ragiona press’a poco così: «Dio deve avere una
ragione perché questo accada nella mia vita».
Questo modo di pensare può portare, secondo p. Scott,
ad atteggiamenti autodistruttivi, a forme di depressione e toglie alla persona
la capacità di percepire che cosa la porta a queste esperienze dolorose
e peccaminose. Occorre inoltre aggiungere che è quasi impossibile innamorarsi
di un Dio che controlla la nostra vita. Al posto dell’amore, si sviluppa
un’esperienza di schiavitù spirituale in cui il penitente cerca di
essere il più possibile sottomesso allo sconosciuto piano di Dio e
perciò diviene meno responsabile della propria vita. Il sacramento della
penitenza diviene così un’espressione rituale di sottomissione.
Tutte queste idee sbagliate di Dio rendono molto
problematica l’efficacia del sacramento della riconciliazione. Ecco
perché, conclude Scott bisogna che chi agisce in questo campo della
pastorale cominci anzitutto con l’esaminare immagine egli stesso si
è fatto di Dio e il modo con cui parla di lui. In secondo luogo è
necessario che si sforzi di trasmettere alla propria comunità di fede
un’immagine di Dio come amore in condizionato. In terzo luogo deve
ricordarsi che chi ha delle idee sbagliate su Dio non cambia il suo modo di
pensare con dei semplici argomenti razionali o teologici: sono immagini che
vengono da lontano e che sono profondamente a radicate.
Nella celebrazione del sacramento della riconciliazione, in
particolare, bisogna ricordarsi che il perdono di Dio è il punto di
partenza, non solo il risultato del sacramento: il perdono è puro dono
garantito e già donato al penitente. Per questa ragione lo scopo del
sacramento non è tanto il perdono di Dio, che è già stato
offerto, ma la guarigione, la conversione e la riconciliazione che questo
perdono produce.
Infine, è decisivo ricordarsi dell’importanza
della preghiera. Ogni ministro deve essere una persona di preghiera e
riconoscere che la sua preghiera può diventare il solo canale attraverso
il quale la misericordia e la compassione di Dio possono raggiungere chi
è incapace di aprirsi ai doni del sacramento della riconciliazione.
«Se crediamo veramente all’efficacia della preghiera, conclude p.
Scott, allora questa raccomandazione deve diventare sia il primo passo sia la
risorsa finale di ogni sforzo per aiutare le persone a liberarsi dalle loro
immagini sbagliate di Dio. La vita interiore è un luogo formidabile della
grazia di Dio, in cui la misericordia, il perdono e l’amore sono
abbondantemente profusi. Ci possono essere molte resistenze in coloro che hanno
delle immagini distorte di Dio e il modo con cui egli agisce nella loro vita.
Paolo esorta i fedeli a “non accogliere invano la grazia di Dio” (2
Cor 6,1). Qui sta il compito di tutti coloro che curano la vita interiore degli
altri, specialmente per quanto si riferisce al sacramento della
riconciliazione: aiutarli ad accogliere bene ciò che Dio offre in fatto
di grazia. Spesso questo ministero può consistere nell’aiutare gli
individui a discernere se l’immagine di Dio che hanno è basata su
una verità teologica degenerate e divenuta poi una tossina. Svelando
questa tossina e guidando il credente a un’esperienza più equilibrata
della verità su Dio, i confessori, i direttori spirituali e gli altri
ministri pastorali possono fare molto nel preparare una persona a quella
guarigione e trasformazione che la grazia della riconciliazione offre.
A.D.
1 P. Scott P. Detisch è un sacerdote americano della
diocesi di Erie. Attualmente presto il suo servizio presso la facoltà
del Christ the King Seminary a East Aurora, New York, dove è professore
associato di teologica sistematica e codirettore del programma di formazione
spirituale.