IN TEMPI
DI CAPITOLI E DI CONSULTAZIONI
CONSIGLIO
PROVINCIALE ALLO SPECCHIO
Le sfide attuali della vita consacrata
filtrate dall’interno dei consigli provinciali. Qualche utile consiglio da
parte degli esperti in programmazione e formazione aziendale. Saper pensare
diversamente. Tramontata l’epoca dei “super-superiori”. La corresponsabilità, a
tutti i livelli.
Sono
sempre più consistenti i contributi degli esperti che provano a rileggere
alcune dinamiche individuali e comunitarie della vita consacrata ispirandosi ad
alcune delle più consolidate tecniche organizzative aziendali. Ne cito due fra
tutti. Il salesiano Giuseppe Tacconi, direttore del Centro pedagogico per
l’orientamento e la formazione (CePOF) di Verona, ne ha dato un saggio
convincente nell’ultima assemblea generale della Cism a Monopoli. Ha esordito
osservando che «stiamo attraversando un guado, siamo in una fase di
transizione. Quante volte ce lo siamo detti».
Da anni
ci si sta muovendo alla ricerca di nuovi modelli, di nuovi paradigmi di vita
consacrata. Basta avere il coraggio e la pazienza di «guardare dentro la nostra
storia di religiosi, di provincia, di comunità, per renderci conto di quanta
riflessione è stata portata avanti, di quante trasformazioni sono state
attivate all’interno delle congregazioni». Rileggendo i tanti libri scritti in
questi ultimi anni sulla vita consacrata si ha l’impressione di trovarsi di
fronte ad una vita consacrata «che non c’è o che almeno non c’è ancora».
FINITO
IL TEMPO
DELLE
GRANDI OPERE
Volendo
far coesistere insieme il vecchio e il nuovo, non si può sfuggire a una
ibridazione di modelli e di stili di comportamento. Il fenomeno è forse
maggiormente percepito negli istituti di vita attiva, costretti dagli eventi a
ridisegnare ex novo quello spazio e quel senso di comunità che prima era dato
anche semplicemente dal fatto di vivere insieme, dall’essere tutto il giorno
fianco a fianco nello stesso lavoro. Oggi è sempre più facile trovarsi al
massimo uno qua e uno là, sparpagliati in uno dei tanti settori di un’opera.
Purtroppo, però, è molto più facile cambiare sul versante del lavorare insieme
che non su quello del vivere insieme. I religiosi e le religiose si trovano in
una condizione di transito appesantita dalla gestione di opere sempre più
complesse e sempre più autonome nei confronti dei processi interni alle
congregazioni. È una situazione che pesa molto e che spinge, anche senza
volerlo, a ripensare a fondo tutti i modelli di vita consacrata consegnatici
dal passato.
Sempre
più frequentemente ci si trova di fronte ad inevitabili processi di
cambiamento, come il venir meno delle forze, l’esigenza di ristrutturare, di
cambiare continuamente, anche sul fronte della missione e della pastorale, di
abbandonare la cultura del “si è sempre fatto così” e di rispondere a domande
che finora non erano mai state poste. «Tutto questo mette inevitabilmente in
crisi il sistema di autorità». Si impone conseguentemente l’esigenza di
ridefinire la stessa “cultura della leadership”, in modo da porla nelle
condizioni di gestire il cambiamento. Ma fino a quando l’incertezza rimane una
dominante, solo sui tempi lunghi sarà possibile veder sbocciare nuove forme di
vita consacrata, «magari meno stabili ma maggiormente capaci di costruire reti
e connessioni e più centrate sul segno testimoniale della comunità che non
sulle opere». Il tempo delle grandi opere, come quello delle grandi visioni,
delle realizzazioni audaci, dei grandi superiori, che stavano sempre al centro
di tutto, è ormai decisamente tramontato. È passato il tempo in cui «il grande
edificio era costruito dai e sui superiori, a loro immagine e somiglianza».
Oggi è
possibile sostenere i cambiamenti necessari solo attraverso una diffusa
competenza di leadership (di adultità come la chiama don Tacconi) all’interno
delle province religiose e delle singole comunità. Senza esautorare il ruolo
dei superiori maggiori, la possibilità di rivitalizzare le varie comunità
generali, provinciali e locali «è nelle mani dei singoli confratelli, adulti,
e, in quanto tali, leader del quotidiano». Oggi non servono più i
“supersuperiori”. C’è bisogno, invece, «di una leadership diffusa e condivisa,
in sostanza, di persone adulte!».
In tempi
di crisi, quando, cioè, si ha l’impressione di navigare in mare aperto, tutto
rischia di diventare complesso e ingovernabile. L’opera dei superiori non
basta. Si deve necessariamente contare «sui singoli confratelli, su tutte le
loro risorse di persone adulte, sulla loro soggettività originale e diversa».
Ma così facendo, la comunità (provinciale e locale) rischia di diventare
fortemente instabile.
La
continua diminuzione del personale religioso inserito nel vivo delle opere e il
progressivo indebolirsi del senso di appartenenza dei religiosi stessi, rende
sempre più indispensabile il ricorso a collaboratori esterni. Tutto questo, a
sua volta, manda in crisi la normalità del ruolo dei superiori, vale a dire la
loro capacità organizzativa all’interno di un ben _definito ambito di autorità.
Nello stesso tempo, entra in crisi anche la normalità dell’essere consiglieri,
dal momento che anch’essi non possono più limitarsi a consigliare e devono
invece «imparare a prendere delle decisioni, a essere innovativi, ad assumersi
responsabilità».
Per
tanti aspetti avviene in un istituto religioso quanto si verifica in
un’azienda. Quando saltano gli schemi organizzativi, nell’impossibilità pratica
di tener tutto sotto controllo, si è costretti a dar fiducia, a delegare ad
altri le proprie responsabilità. Però anche questo inevitabile conferimento di
fiducia ad altri non può mai essere imposto dall’alto. Va preparato e motivato.
Non si tratta di una strategia sempre e solo a disposizione del superiore
provinciale. Essa va invece assunta anche dai consiglieri e da tutti i soggetti
che compongono una provincia. E questo potrà avvenire solo quando si saranno
adeguatamente creati dei contesti che rendano concretamente possibile e
fattibile un simile aumento di potere interno.
“PRENDERSI
CURA”
DEL
PENSIERO
Nessuno
come don Tacconi, esperto nella gestione di processi formativi e organizzativi
non solo a livello aziendale ma anche nelle comunità religiose, conosce la
problematicità di un efficace esercizio della leadership da una parte e della
corresponsabilità all’interno di una provincia religiosa o anche solo del suo
consiglio dall’altra. Con un linguaggio tecnico e originale insieme cerca di
chiarire i vari passaggi che soprattutto un consiglio provinciale dovrebbe
saper mettere in atto quando si trova nell’esercizio delle sue funzioni. Al
primo di questi passaggi, il “prendersi cura” del pensiero, forse il meno
scontato e il più significativo, ne seguono altri due comunque altrettanto
impegnativi e importanti, il prendersi cura sia dei processi relazionali che
dei processi decisionali.
«Mi
piace guardare al consiglio di una provincia innanzitutto come ad uno “spazio
di pensiero”». Ma di quale pensiero? Non solo di quello puramente cognitivo, ma
anche di quel pensiero denso, pregnante che tiene conto delle emozioni, delle
dimensioni più profonde dell’uomo, della sua spiritualità e dell’interiorità
fino all’incontro con l’Altro. Si dovrebbe, in altre parole, saper guardare ad
un consiglio come a un luogo in cui sia possibile «pensare, generare nuovi
pensieri, alimentare visione, rendersi consapevoli dei pensieri non pensati,
quelli che sono dentro a ciò che viviamo e a ciò che facciamo, in modo da farli
emergere, da renderli espliciti». Si tratta, in altre parole, di «allargare gli
spazi di pensabilità positiva».
Quante volte
i cambiamenti sono bloccati in partenza non perché non sia possibile
realizzarli o perché appesantiti da vincoli eccessivi. Spesso sono bloccati
semplicemente per il fatto che «non riusciamo a rappresentarceli come
possibili». Coltivare “nuove pensabilità”, allargare gli spazi mentali di una
“pensabilità positiva” nei confronti della realtà della vita consacrata in una
provincia o anche solo in una comunità, dovrebbe pertanto diventare il primo
obiettivo di un consiglio provinciale. Solo in questo modo si può sperare di
superare quel senso di depressione collettiva che può facilmente sopravvenire
quando ci si sente invecchiati e affaticati per avere gestito processi di
trasformazione e cambiamenti veramente epocali. In queste condizioni «diventa
difficile rimettersi ancora a pensare, reinvestire energie in nuovi processi».
Il consiglio dovrebbe essere, quindi, il luogo dove non si ha paura del
pensare, dove si affrontano e si discutono con coraggio i nodi anche più
problematici non solo della vita consacrata in sé, ma anche e soprattutto della
sua concreta esperienza nella vita quotidiana delle singole province e delle
singole comunità.
La
comunità e il rapporto opera-comunità sono, in effetti, tra i primi spazi sui
quali un consiglio provinciale dovrebbe pensare di più. Don Tacconi è un
salesiano e proprio partendo dalla sua esperienza intravede il rischio di una
“monopensabilità”. È facile convenire con lui quando osserva che l’unico
modello secondo cui si riesce a pensare la comunità salesiana, ad esempio, è
quello di una realtà «circondata da grandi edifici, da cortili, da opere
possenti», in altre parole, una comunità «concepita come nucleo che anima una
realtà educativa più ampia». Fa parte del DNA dei salesiani «l’esigenza
carismatica di costruire ambienti educativi in cui possano esprimersi la
comunità e la sua missione». Ma così facendo «si rischia di identificare con un
modello organizzativo una tensione carismatica che non necessariamente si deve
esprimere solo in quel modo».
I
CAMBIAMENTI
NON SI
IMPONGONO
È a
questo punto che dovrebbe intervenire un consiglio provinciale. Leggendo la
realtà dei fatti e non inseguendo soltanto i modelli ideali, un consiglio
dovrebbe saper cogliere l’idea di comunità diffusa sia all’interno della
cultura organizzativa della congregazione che dentro le mura dei propri
edifici. La cultura, infatti, «si esprime anche negli artefatti, negli edifici,
nella distribuzione degli spazi e nei significati che tutto questo veicola».
Solo a quel punto, osserva don Tacconi facendo propria una riflessione di padre
Guccini, ci si potrebbe facilmente accorgere di aver dato vita spesso a delle
comunità solo in funzione delle opere da gestire.
E questo
è grave perché fino a quando non si fa lo sforzo di esplicitare i significati
incorporati in tutte le strutture organizzative, in tutti gli spazi accordati
ad una determinata opera, «si rischia di caricare in senso moralistico
l’esigenza del cambiamento, senza incidere veramente sul cambiamento stesso,
con continui appelli alla volontà, all’importanza di trovarci assieme a
pregare». Solo quando si sarà convinti che lo spazio più importante da
ricostruire è quello mentale, solo se si riuscirà a pensare ad una comunità
significativa già di per sé e non solo in funzione di una determinata opera,
allora sarà forse più facile, da parte di un istituto religioso, ridefinire la
propria fecondità apostolica.
Quando,
ad esempio, di fronte alla contrazione numerica dei religiosi impegnati nelle
opere, si continua a reagire mentalmente come se tutti fossero invece ancora
pienamente operativi, invitandoli a stare sempre con i giovani, a non aver
paura dei giovani, è chiaro che inviti di questo tipo generano soltanto
frustrazione e mettono le persone più anziane nella condizione di sentirsi
fuori posto. A tutti questi vissuti di deprivazione e di perdite, è facile che
si sovrapponga la percezione del fatto che tutto sta crollando per il semplice
motivo che le leve del comando, come quelle, ad esempio, della direzione di un
istituto scolastico, sono passate o stanno passando nelle mani dei laici.
È troppo
importante, allora, «ripensare i significati e gli schemi attraverso cui
ragioniamo, senza per questo pretendere che le mentalità cambino magicamente».
Si tratta, infatti, di processi culturali lenti e faticosi. Spesso non è
neanche legittimo chiederli a persone ormai strutturate in un certo modo. I
cambiamenti non si possono mai imporre. Ci si dovrà inizialmente limitare ad
avviare «piccole sperimentazioni che allarghino la pensabilità». Un cambiamento
imposto o generalizzato sarebbe una strategia infelice, addirittura violenta.
Non si può fare delle comunità “ambienti caldi”, luoghi di relazioni intense
senza prima cambiare la logica di fondo e la funzione esercitata dai vari
modelli nel passato, quando, cioè, non solo esisteva ma si pensava che non
potesse esistere se non un modello unico, rassicurante, di comunità religiosa.
La
grande sfida di oggi è appunto quella di riuscire a passare «da un unico modo
di pensarsi (monopensabilità) a una pluralità di modi di pensarsi
(multipensabilità), che dialogano, si interrogano a vicenda, si problematizzano
a vicenda e addirittura si relativizzano a vicenda, ma che, in realtà, si
fertilizzano anche a vicenda». Proprio per questo sono importanti sia la
piccola comunità che si concepisce come nucleo di un’opera più grande, sia una
comunità che non abbia alcun riferimento a un’opera e che tuttavia sappia
vivere ed esprimere «una tensione forte tra la consacrazione e la missione
specifica». Questa seconda comunità potrebbe anche semplicemente vivere in un
appartamento, a condizione che sappia ridefinire uno specifico patto di
comunità, favorendo al suo interno una comunicazione reale, non basata
esclusivamente su una specifica missione apostolica, in modo da interagire anche
con i religiosi più anziani.
Solo in
questo modo in questa comunità si potrebbe attivare una comunicazione di vita,
alla pari, una comunicazione, cioè, in cui «l’esperienza di uno che lavora e le
cui forze sono investite in maniera diretta sull’opera, assume la stessa
importanza dell’esperienza di un anziano che quel giorno magari ha solamente
letto un articolo di giornale che gli è piaciuto e che lo vuole raccontare agli
altri».
È solo
un piccolo esempio per dimostrare quanto sia importante «regalare pensiero ai
modelli che stiamo incarnando, provando a farli emergere e a renderli
espliciti, a problematizzarli, possibilmente ad allargarli». Si tratta, in
altre parole, «di aprire spazi di sperimentazione, controllati, monitorati,
seguiti, che permettano di allargare la pensabilità, perché la pensabilità si
allarga attraverso piccole esperienze che facciano percepire come il
cambiamento sia possibile».
IL
VALORE
DELLA
SOGGETTIVITÀ
Ma non
basta prendersi cura del pensiero. Va ripensata a fondo anche una diffusa idea
di quella che si potrebbe chiamare la soggettività. Non ci vuole grande
fantasia a riconoscere che l’idea prevalente che si ha di soggettività è spesso
e ancora molto negativa. La si concepisce come qualcosa «che gioca contro il
bene della comunità e della congregazione», fino al punto da pensare che lo
spazio accordato al singolo possa diventare potenzialmente minaccioso,
pericoloso. Del resto, in passato, chi erano i “buoni religiosi” se non quelli
che misconoscevano qualsiasi desiderio di auto-realizzazione?
Oggi il
contesto sociale e culturale è molto diverso. Anche senza accorgersene si
respira un’aria “culturale” contrassegnata da nuove sensibilità e, insieme,
anche da nuove vulnerabilità. I valori dell’autonomia e della diversità stanno prendendo
sempre più il posto di quelli gerarchici e conformistici ereditati dal passato.
I consacrati, ribadisce giustamente don Tacconi, non sono un corpo estraneo nel
mondo d’oggi. La cultura del nostro tempo è una cultura «che penetra dentro le
nostre comunità, ed è un bene, dal momento che questo, infatti, è l’unico tempo
che abitiamo».
Non è
più possibile oggi negare l’idea sostanzialmente positiva della soggettività
personale, del fatto cioè che le persone intendono essere trattate da adulte
anche all’interno della vita consacrata.
Eppure
anche oggi si continua a pensare che tra la soggettività personale e il
contesto della comunità si crea necessariamente un conflitto, oppure che «avere
delle soggettività forti indebolisce la congregazione». E se fosse vero il
contrario? Se fosse vero, cioè, «che le soggettività consistenti e forti
rendono consistenti e forti le comunità?».
Non si
può rispondere a questo interrogativo senza rivedere il concetto stesso di
corresponsabilità, senza «ritematizzare e regalare pensiero anche all’idea di
potere che abbiamo in testa». Quante volte si è caricato di significati
negativi, si è letteralmente esorcizzata questa parola, senza essere pienamente
consapevoli del fatto che il potere è un elemento che comunque «caratterizza
inevitabilmente tutte le relazioni umane». Certo, si dovrebbe però prima
operare una non immediata conversione mentale, cioè «passare da un’idea di
potere come influenzamento degli altri a un’idea di potere come capacità di
potenziare gli altri». In altre parole, si tratta «di passare dal potere come
sostantivo al potere come verbo, inteso come potere che potenzia e
rivitalizza».
Solo in
questo senso la persona ha la percezione di costruire qualcosa di nuovo, di
trasformare la realtà, di potersi coinvolgere in maniera più profonda nelle
cose che si fanno. È allora facile comprendere come esista una stretta
relazione tra come viene pensata e vissuta la corresponsabilità in un consiglio
provinciale e la cultura diffusa della corresponsabilità nell’istituto, tra i
confratelli e nei laici coinvolti nelle opere dei religiosi. Proprio per questo
è importante «agire sulla cultura della leadership – e sulla relativa idea di
potere – non solo in chi esercita ruoli formali ma in tutti». Infatti c’è
sempre un potere «anche nelle idee che agiamo». Se non si è in grado di
ripensare le proprie idee, è facile rimanerne condizionati «in maniera molto
forte e spesso anche molto limitante».
L’idea
del conflitto, ad esempio, è un ottimo spazio in cui si manifesta la disponibilità
di un consiglio provinciale a ripensare non solo le proprie idee ma anche i
propri comportamenti. Solitamente un consiglio provinciale tende a lasciare i
conflitti fuori dalla porta. E se invece il conflitto fosse «uno degli elementi
di vitalità di un gruppo e non qualcosa di lacerante, da evitare
assolutamente?». Un gruppo senza conflitti sarebbe un gruppo povero, incapace
di rigenerarsi e di arricchirsi proprio tramite la diversità di opinioni. Da
qui, allora, l’importanza di allargare gli orizzonti di pensabilità, di
interrogarsi apertamente a che cosa si pensa quando si parla di soggettività,
di comunità, di rapporto opera e comunità. Non si dovrebbe aver paura, in
consiglio provinciale, di entrare in conflitto sia con le proprie idee che con
quelle degli altri. Forse, sorprendentemente, si potrebbero aprire strade a una
esperienza di autentica “generatività”.
LA SFIDA
DEL
CAMBIAMENTO
Sarebbe
ancora più facile guardare in positivo al conflitto se si dedicasse una
maggiore attenzione a ciò che si è appreso non solo nel periodo della
formazione iniziale ma anche in seguito, sia come singoli che come comunità,
come provincia, come congregazione. Solo in questo modo, infatti, si
favorirebbe più facilmente la circolazione delle idee e ci si convincerebbe che
«l’apprendimento di ciascuno diventa patrimonio di tutti, anche all’interno di
un consiglio». Non è più possibile continuare a pensare ai singoli religiosi e
religiose «come esecutori passivi di disposizioni calate dall’alto».
Soprattutto la leadership di un istituto religioso dovrebbe sempre sapere di
avere a che fare con «persone coinvolte in un progetto, che hanno la sensazione
di fare parte di un’avventura umana e spirituale che permette loro di crescere
come persone e come comunità».
Tutti
gli esperti in scienze umane, infatti, insegnano che uno dei modi per far
crescere la corresponsabilità è quello di «far sviluppare nelle persone il
senso dell’essere parte di un gruppo che stimola a crescere proprio in quanto
persone e ad arricchirsi continuamente». La leadership è un qualcosa che non si
improvvisa affatto, e un consiglio provinciale dovrebbe mettere in conto anche
la piena disponibilità ad apprenderne tutti i dinamismi relazionali con le
comunità della propria provincia.
Una
delle sfide più importanti che i superiori e i loro consigli sono chiamati oggi
a gestire è proprio quella del cambiamento, quella realtà, cioè, che nella
letteratura sulle organizzazioni, viene chiamata visione. Ora il cambiamento
non è semplicemente il passare da un posto a un altro. Comporta, invece, una
capacità di vedere (da qui “visione”), di individuare dei nuovi percorsi, ben
sapendo di muoversi in mare aperto e di navigare a vista, lungo le coste,
proprio come nel cabotaggio.
Quando
gli esperti parlano di visione, intendono tutta una serie di comportamenti e di
acquisizioni troppo spesso date forse per scontante in tanti consigli
provinciali. Il cambiamento presuppone, infatti, la conoscenza di una realtà
che è possibile cogliere solo guardandola da diversi punti di vista.
Presuppone, inoltre, la capacità di valutare, di guardare più lontano, di far
funzionare il carisma come chiave interpretativa nella lettura della realtà, di
pensare a lungo termine, di costruire significati condivisi, ben consapevoli
del fatto che «non si può più dare per scontato che le parole che utilizziamo
abbiano lo stesso significato per tutti». Ciò che un tempo veniva consegnato e
che si doveva semplicemente vivere, oggi va interpretato e costruito insieme. È
una difficoltà non da poco, non solo quando ci si proietta nel campo della
missione, ma anche all’interno delle varie comunità religiose. Se manca questa
visione condivisa, va allora urgentemente costruita, con molta fatica
sicuramente, ma anche nella consapevolezza della sua affascinante prospettiva.
Solo
allora sarà possibile «disseppellire i pensieri incorporati nelle nostre azioni
e nelle nostre affermazioni», individuare tutte le metafore «attraverso le
quali le nostre realtà comunitarie si pensano e noi ci pensiamo», non dare mai per
scontato che tutti pensino sempre allo stesso modo, guardare ai conflitti e ai
diversi punti di vista come qualcosa di generativo, saper vedere l’altro «come
opportunità che mi permette di illuminare un punto di vista a cui io non
pensavo, aspetti della realtà che io non coglievo».
“PRENDERSI
CURA”
DELLE
PERSONE
Se è
importante, in un consiglio provinciale, riuscire a pensare e a vedere
situazioni “altre” da quelle che contrassegnano concretamente la vita
quotidiana di una comunità religiosa, prima ancora, però, si dovrebbe crescere
nella corresponsabilità e farla crescere attorno a sé. «La corresponsabilità va
infatti esercitata e proposta dalle persone, con le persone, per le persone che
fanno la provincia e la congregazione». È fondamentale pertanto “prendersi
cura” soprattutto delle persone, potenziandone le loro capacità e accordando
tutta la fiducia necessaria per aiutarle eventualmente a evolvere proprio nel
senso del cambiamento sopra invocato. Solo se una persona respira fiducia
attorno a sé sarà in grado poi di dare tutto il meglio di sé. Un buon
superiore, ha detto Mario Becciu in un’assemblea internazionale, non dovrebbe
essere quello i cui confratelli dicono: «Che bravo superiore che abbiamo!»,
quanto piuttosto quello i cui confratelli dicono: «Che bravi che siamo!». Il
superiore, commenta don Tacconi, è soprattutto colui «che potenzia la
percezione che le persone hanno di riuscire in quello che fanno e che favorisce
la crescita dei potenziali di ciascuno».
Questo
non si può fare senza dare spazio alle persone. «Siamo ancora troppo
concentrati sui bisogni, sulle carenze, su ciò che manca, sulle esigenze, su
quello che non c’è, e troppo poco sfruttiamo i potenziali generativi del
desiderio».
Chi non
si è mai interrogato su quelli che si considerano gli elementi costitutivi di
una comunità, di una congregazione religiosa? Ma prima di nfilare alla cieca
risposte unidirezionali, è importante camminare con i piedi per terra e
prestare tutta la dovuta attenzione alla storia, alla tradizione, alle radici,
al carisma, al contesto comunitario. Non si possono sviluppare appartenenze
adulte senza tutta una serie di contesti che le possono favorire, dallo
sviluppo delle proprie doti, a quello delle proprie idealità e anche del
proprio protagonismo. In altre parole, «si tratta di mettere le persone nelle
condizioni di esercitare responsabilità sulle scelte che le riguardano, anche
quando sono anziani, senza aspettare che siano altri a decidere e a scegliere
per loro».
È
impensabile pensare di dar vita a una responsabilità diffusa all’interno di un
consiglio provinciale, senza prima rimettere in discussione certe pratiche
passivizzanti e deresponsabilizzanti che sussistono ancora oggi all’interno
delle proprie comunità e della propria provincia. È il caso, ad esempio,
dell’economo che acquista i vestiti o le scarpe ai confratelli, oppure dei
confratelli che andando in farmacia o dal barbiere, invece di pagare
direttamente, non possono fare altro che mettere una firma su un registro. La
corresponsabilità in un consiglio la si costruisce potenziandola prima ancora,
anche nell’uso dei beni e nell’accesso alle risorse, all’interno delle proprie
comunità.
Gli
istituti religiosi oggi hanno bisogno di persone adulte, di persone che, come
scrive C. Fasano, «siano disponibili a mettere in campo più intelligenza,
creatività ed energie per svolgere il loro compito» (Opera o persona?). Ma una
persona non diventerà mai adulta fino a quando non la si coinvolgerà nella
gestione dei cambiamenti, non si favorirà il suo senso di autonomia, non si
coglierà la natura generativa del suo lavoro, non le si riconoscerà la
legittimità del suo punto di vista sulla realtà, non la si saprà veramente
ascoltare, non si considererà la sua storia e la sua esperienza come una
risorsa, non si prenderà atto di tutte le possibili differenze e non le si
considereranno come un valore.
SAPER
DELEGARE
Il
passaggio dal prendersi cura dei processi personali a quelli decisionali è in
qualche modo immediato e scontato. In un periodo di dominante incertezza e di
ritmo velocissimo dei cambiamenti con cui vengono ridisegnati gli spazi di
esercizio della leadership nella piena valorizzazione delle risorse
disponibili, entra in gioco inevitabilmente il problema della delega. Ma cosa
significa esattamente, si chiede don Tacconi, delegare, e con quali modalità lo
si dovrebbe fare da parte di chi esercita il servizio dell’autorità? Significa
tutta una serie di processi, come far circolare le informazioni e attivare,
tutte le volte che è possibile, una larga partecipazione ai processi
decisionali, privilegiando la soluzione collettiva dei problemi. Significa,
ancora, ridurre al minimo le decisioni di vertice, esercitando il controllo più
sugli orizzonti e sui valori che sulle scelte operative, concedere potere decisionale
agli altri, promuovere le doti e i talenti di ciascuno, favorire la nascita di
apprendimenti nuovi, incoraggiare la discussione aperta dei temi che possono
creare conflitti, incoraggiare i rischi e le sperimentazioni. Sarebbe triste
vedere un provinciale o dei consiglieri che, nella definizione di un progetto,
«si preoccupassero del dettaglio, di chi deve spegnere le luci o di cose del
genere. È importante invece che un provinciale e il suo consiglio indichino
l’orizzonte, cerchino eventualmente di costruire consenso rispetto ad un
indirizzo, ma dopo deleghino la realizzazione ad altri».
Più che
impartire ordini o comandi, il provinciale è colui che crea le condizioni per
il migliore sviluppo possibile delle persone, non solo dei consiglieri ma anche
di tutti i confratelli della provincia. Un provinciale favorisce la
corresponsabilità quando la condivide con tutti i confratelli, la incoraggia,
facilita le soluzioni di gruppo, chiede aiuto ai confratelli, favorisce la
comunicazione e la discussione, è flessibile e disponibile a cambiare
direzione, ricorre alla sperimentazione e valuta continuamente i risultati.
Al
provinciale non si dovrebbe chiedere la soluzione immediata di tutti i
problemi, né lui dovrebbe lasciarsi suggestionare da questa tentazione. Dovrebbe
invece saper porre ai confratelli le domande ed evidenziare tutti gli
impliciti, consapevole del fatto che davanti a lui non ha tanto la realtà
quanto piuttosto il suo specifico e personalissimo modo di guardare la realtà.
Quanto
sarebbero utili, al temine di un consiglio provinciale, aprire delle “finestre
metariflessive”, interrogandosi, ad esempio nell’ultima mezz’ora, sul come e su
che cosa si è lavorato, su che cosa si imparato o capito, su quali punti
importanti, invece, si è troppo affrettatamente sorvolato. È sempre
indispensabile riflettere sui processi, sul come si è comunicato e si sono
gestiti i conflitti. Solo «regalando pensiero ai processi e ai contenuti di ciò
che decidiamo come consiglio, possiamo migliorare i processi decisionali».
LA
CORRESPONSABILITA’
NON SI
IMPROVVISA
La
ridefinizione dei campi delle decisioni è un compito specifico di ogni singolo
consiglio provinciale. Non è possibile, a questo riguardo, offrire indicazioni
di carattere generale. Semmai si può dire soltanto e con sicurezza che mai come
oggi i consigli provinciali di un istituto di vita apostolica attiva sono alle
prese con una così difficile gestione delle opere. Prima di ogni decisione
sarebbe quanto mai opportuno rispondere ad alcuni importanti interrogativi.
Fino a che punto, ad esempio, è giusto che un consiglio provinciale «prenda le
decisioni strategiche in ordine a opere di cui, molto probabilmente, pochi nel
consiglio stesso hanno un’idea sufficientemente adeguata?». Proprio in virtù
del principio di corresponsabilità, la decisione sul futuro di un’opera spetta
sempre e solo al consiglio provinciale? Non converrebbe, a volte, prendere atto
del fatto che quando un’opera si è costituita in maniera autonoma, proprio in
virtù della corresponsabilità, dovrebbero essere rispettate le responsabilità
che nascono all’interno di quella stessa opera? Fino a che punto, ancora, è
giusto dedicare tutto il tempo di un consiglio provinciale alla progettazione
di una determinata opera e di una determinata presenza e non riservare, invece,
uno spazio adeguato per interrogarsi a fondo sul senso di quella presenza e di
quell’opera?
E se
fosse vero, almeno in parte, anche per un consiglio provinciale quanto è stato
detto a proposito della condizione manageriale di un’azienda, e cioè che «una
parte sempre maggiore degli input di cui abbiamo bisogno non verrà da persone e
organizzazioni sotto il nostro controllo, ma da persone e organizzazioni con le
quali abbiamo una relazione, una partnership, e alle quali non possiamo
impartire ordini?». È un interrogativo che costringe anche i religiosi a
impostare in maniera più adeguata il rapporto con quei laici che lavorano ed
esercitano una certa responsabilità nella conduzione delle loro opere. Proprio
a questo riguardo potrebbe essere particolarmente preziosa, osserva don
Tacconi, l’esperienza delle congregazioni più povere di personale. «Ma quanta
fatica facciamo a imparare gli uni dagli altri!».
Anche la
corresponsabilità non può mai essere frutto di improvvisazione. Bisogna saper
prevederne tutte le condizioni organizzative, vale a dire tempi, compatibilità,
convivenza nella stessa o in differenti comunità. Nel caso, per altro sempre
più frequente, in cui il consigliere provinciale normalmente è di età media
avanzata, è superiore di una comunità e a causa della inarrestabile contrazione
numerica è super-oberato di impegni, «allora diventa difficile gestire questo
spazio in modo che sia davvero una risorsa di pensiero». Ma proprio per questo,
in prospettiva futura, sarà sempre più urgente e difficile insieme gestire
processi coraggiosi di ridefinizione delle presenze e di ristrutturazione delle
opere, senza mai rinunciare, però a una prioritaria riflessione sul senso di
quelle opere e sul significato di una comunità religiosa oggi.
È un
lavoro complesso, che richiede necessariamente una sempre maggior
valorizzazione di tutti gli organismi di partecipazione del proprio istituto,
dalle commissioni, alle équipe di lavoro, alle conferenze provinciali, alle
assemblee di comunità ecc. Solo in questo modo un consiglio potrà essere in
grado di valutare e verificare il suo operato. Diversamente la
corresponsabilità sarebbe solo apparente e puramente retorica.
Ovviamente
un consiglio provinciale non potrà mai perdere di vista le risoluzioni
capitolari e il programma apostolico della propria provincia. Per quanto, però,
possano e debbano essere determinanti queste decisioni, un consiglio
provinciale non è semplicemente l’organismo esecutivo di decisioni prese da un
capitolo. Deve anche, a sua volta, “reinterpretarlo”, “avvicinarvisi pensando”,
dal momento che un consiglio «si trova ad avere continuamente a che fare con
gli stimoli della realtà».
Quando
si focalizza l’attenzione sul pensare, osserva in conclusione don Tacconi, «le
decisioni vengono di conseguenza». È solo «l’irriflessività sui nostri processi
che, qualche volta, ci impedisce di decidere e ci paralizza». Non si può
neanche lontanamente pensare di risolvere tutti i problemi, di dover decidere,
in consiglio provinciale, tutte le spese di una provincia, fino all’ultimo
centesimo. La domanda sul senso di un’opera rimane sempre la domanda
principale. Il compito fondamentale di un consiglio provinciale è allora quello
di «mettere le persone nelle condizioni di rintracciare senso in quello che fanno
e in quello che vivono», partendo sempre dalla previa consapevolezza che non si
può insegnare né pretendere dagli altri quello che, per primo, un consiglio
provinciale non dimostra sempre di saper e di voler fare.
Angelo Arrighini
1_GIUSEPPE
TACCONI, Alla ricerca di nuove identità. Formazione e organizzazione nelle
comunità religiose di vita apostolica attiva nel tempo della crisi, Elledici,
Torino 2001.
2_CARLO
FASANO, Opera o persona? Un nuovo paradigma organizzativo della vita
consacrata, Ancora, Milano 2005.
3_Cf.
Testimoni, 20/2005.