I PAVONIANI e L’USO EVANGELICO DEI BENI

COME CRITERIO L’OTTICA DEI POVERI

 

Nessuna rifondazione è possibile senza un uso evangelico delle risorse. Le persone, il bene più prezioso. Il processo economico in atto condiziona anche le strutture dei religiosi. Le varie modalità di una corretta acquisizione dei beni. Alcune direttive pratiche utili per tutti gli istituti e non solo per quello dei pavoniani.

 

Siamo in tempi di capitoli, generali e provinciali. È risaputa la frequente eccessiva rilevanza che al loro interno viene solitamente accordata ai problemi amministrativi. In questi ultimi anni c’è una ragione in più. Mentre nei paesi occidentali si è alle prese con le inarrestabili dismissioni e alienazioni dei grandi edifici ereditati dal passato, altrove, in Asia, Africa, America latina, Europa dell’est, non bastano mai per accogliere le tante nuove vocazioni. Questo problema, insieme a tutti gli altri, se lo sono posto anche i pavoniani in un loro recente documento sul tema Povertà, gestione evangelica dei beni, missione. Sono riflessioni, proposte, suggerimenti che vanno ben oltre le attività e gli interessi dei “Figli di Maria immacolata” di Lodovico Pavoni. Riguardano un po’ tutti gli istituti religiosi, maschili e femminili, di vita apostolica attiva. 

In una lettera indirizzata a tutta la famiglia pavoniana, il superiore generale, p. Lorenzo Agosti, presentando il nuovo documento ne ha sintetizzato il suo triplice obiettivo: testimoniare oggi in modo più efficace il valore evangelico della povertà, finalizzare i beni unicamente in funzione della missione, suggerire alcuni criteri per una sempre più corretta gestione del proprio patrimonio.

Anche i pavoniani sono impegnati da tempo nel processo di rivitalizzazione e di rifondazione del proprio istituto. Però «non può esserci né vera rivitalizzazione né vera rifondazione senza una grande attenzione all’uso evangelico dei beni». Un’economia solidale con i più poveri non può non diventare allora la via obbligata per una più feconda missione apostolica.

Bastano pochi dati per rendersi conto dell’urgenza di un’economia più solidale. Più di un miliardo di persone vivono ancora in condizioni di povertà estrema. Il divario tra paesi ricchi e paesi poveri, anche in conseguenza del processo di globalizzazione, è sempre più preoccupante. Nessuna realtà ecclesiale come tanti istituti religiosi sono di fatto sempre più immersi in un mondo in cui vengono continuamente calpestati i diritti dei poveri.

Come riuscire, allora, si chiedono i pavoniani, a testimoniare chiaramente la propria solidarietà vivendo la povertà evangelica sia a livello personale che comunitario? Se la mancanza di sensibilità di fronte a queste povertà può allontanare sia dalla conversione ai valori del vangelo che dalla condivisione della vita con i poveri, anche la stessa formazione «ci fa correre il rischio di non responsabilizzarci nella questione dei beni e di delegare questo compito solo ad alcuni fratelli, perdendo così, al contempo, il contatto con la realtà e con l’ottica dei poveri, che spesso non hanno nemmeno il sufficiente per vivere».

 

COERENZA

TRA IL DIRE E IL FARE

 

I processi di cambiamento socio-culturale non possono non avere ripercussioni anche sugli istituti di vita consacrata. I pavoniani li stanno vivendo sulla propria pelle. Il documento infatti osserva: «Il venir meno, in alcune realtà, del nostro servizio di supplenza, l’aumento più che esponenziale dei costi di gestione dovuto principalmente alla sostituzione del personale religioso con personale laico, l’esigenza di un servizio qualitativo conforme agli standard voluti dagli enti pubblici ecc., hanno cambiato notevolmente il nostro modo di essere presenti nella società». La stessa gestione del personale dipendente, cioè della risorsa più importante di ogni realtà operativa, che oltre ad essere la meno facile da organizzare e incentivare, è anche la più costosa, «ci ha trovati impreparati». In alcuni casi si sono addirittura azzerate le possibilità di gestione di attività scolastiche e assistenziali non convenzionate. E questo per il semplice motivo che «il finanziamento derivante dalla convenzione richiede anche il rispetto delle condizioni per le quali è stato riconosciuto», condizioni che potrebbero anche rimettere in discussione il proprio stesso carisma.

Non è possibile per dei consacrati testimoniare e educare alla solidarietà senza «rendere visibile nella nostra vita quello che proclamiamo a parole», senza vivere e testimoniare la povertà evangelica, senza operare scelte concrete, coerenti con tutto ciò che si intende professare, senza autolimitarsi e convertirsi continuamente, senza tornare all’essenziale, senza arrivare a esprimere un modo alternativo  nell’uso dei beni. «Non possiamo continuare a vivere come se nulla fosse cambiato». Non si può parlare di scelta evangelica e non rinunciare a un modello di vita borghese.

Oggi non si può gestire in senso evangelico le risorse economiche senza una sensibilizzazione e una presa di coscienza da parte di tutti i singoli religiosi, fin dai tempi della formazione, dell’importanza di questo problema. Da parte di tutti i religiosi ci si attende oggi trasparenza, chiarezza, professionalità, rispetto delle leggi vigenti in ogni paese, piena disponibilità, come leggiamo nel documento dei pavoniani a «passare dalla semplice accettazione dei laici all’effettiva valorizzazione del loro apporto al carisma». Non preoccuparsi dei problemi socio-economici, per un religioso oggi potrebbe essere un sintomo di fuga, un atteggiamento di comodità e di mancanza di solidarietà o un segno di vera e propria “ignoranza”.

Fermo restando il fatto che il bene più prezioso sono sia i propri confratelli che i collaboratori e tutte le persone che in un modo o nell’altro condividono il carisma pavoniano, ciò non esime, però, dal dovere di predisporre l’inventario reale di tutte le proprietà dell’istituto e delle sue singole entità giuridiche, legalizzando tutte le situazioni in modo da garantirsi contro eventuali sgradite future sorprese.

Con molta concretezza nel documento in questione sono elencate le diverse modalità con cui, all’interno dell’istituto, vengono acquisiti e beni e le risorse. «Il modo fondamentale di mantenerci e di provvedere alla missione, è detto senza mezzi termini, è il lavoro dei singoli religiosi».

Mentre all’interno dell’istituto il lavoro, ove possibile, dev’essere «retribuito con salari adeguati, di mercato e proporzionati ai ruoli e alle mansioni richieste,  in modo da poter godere anche dei contributi previdenziali», all’esterno o lavorando per altre attività, sia civili che ecclesiastiche, «diamo il nostro apporto specifico di pavoniani ed esigiamo un’equa retribuzione».

Altre modalità per l’acquisizione dei beni sono quelle offerte dalle sovvenzioni e dai contratti con enti civili o religiosi, dalle donazioni vere e proprie, dalle attività produttive e commerciali, dal reddito di affitti delle proprietà dell’istituto a terzi. Sono tutte modalità oggi impensabili senza tutte le doverose rendicontazioni e certificazioni, senza l’aiuto dei più diversi consigli di amministrazione, senza il rispetto delle leggi vigenti in un determinato paese, senza la verifica continua della destinazione e dell’utilizzo effettivo di una proprietà, senza il rigoroso rispetto, nel caso delle donazioni, della volontà dei donatori e della finalità per cui vengono elargite.

La fiducia nella provvidenza non esclude mai anche una doverosa prudenza. È  difficile garantire la vita dei fratelli e la continuità delle varie attività senza un “congruo fondo”, senza una “riserva”. Il tutto nella piena consapevolezza, però, «che non possiamo vivere di questa scorta, ma del nostro lavoro e della solidarietà», convinti che «il patrimonio è a servizio della missione e non del nostro benessere personale e comunitario» e avendo sempre cura di distinguere nettamente la gestione economica della comunità da quella delle attività. 

Non è possibile condividere concretamente la vita dei poveri, senza vigilare attentamente sulle decisioni da prendere in campo amministrativo, decisioni che dovrebbero sempre essere «conformi ai criteri evangelici e non a quelli propri di un’economia capitalistica di orientamento neoliberale». Attraverso un consumo critico e un risparmio trasparente (finanza etica), si dovrebbe sempre puntare su un’economia che sia realmente a servizio e in funzione della persona. Solo garantendo la preparazione necessaria per una “opportuna gestione del personale”, solo perseguendo il criterio dell’economicità (con il miglior servizio al minor costo), sarà allora possibile offrire una coerente testimonianza di povertà e di comunione dei beni.

 

IL VALORE PIU’ GRANDE

DI UNA PROVINCIA

 

A tutti i livelli, personale, comunitario, provinciale, generale, si dovrebbero inculcare nei religiosi e nelle comunità «i principi di austerità, semplicità di vita, comunione dei beni e solidarietà tra le comunità e con i poveri». Mentre il direttivo generale ha di fronte a sé la totalità delle opere dell’istituto a cui deve assicurare un’equa distribuzione delle risorse, quello provinciale dovrebbe essere sollecitato a investire preferibilmente nella formazione integrale delle persone, che rimangono sempre il valore più grande della provincia, anziché in strutture materiali. Se la comunità, poi, è realmente  la nostra famiglia e la titolare della missione, allora è giusto consegnare ad essa «tutto quello che siamo e che abbiamo». Anche da un punto di vista economico-gestionale, la conduzione di un’attività deve sempre rispondere a dei criteri comunitari «evitando così personalismi e individualismi che oscurano il nostro mettere tutto in comune».

Tutte le entità giuridiche create per la “gestione trasparente” delle diverse attività non vanno considerate come dei corpi estranei dalla comunità religiosa. Dal momento che i collaboratori laici (dipendenti e volontari) nelle tante attività dell’istituto sono sempre più numerosi, «vediamo e  coltiviamo in modo positivo i rapporti con loro». Invece di tenere i beni inutilizzati o sottoutilizzati, si dovrebbe ottimizzare l’uso delle risorse e delle strutture (edifici, attrezzature, ecc.), «anche mettendo i nostri ambienti a disposizione del territorio in cui siamo inseriti e aprendoci all’ospitalità e all’accoglienza a chi è nel bisogno».

Gli spazi di autentica solidarietà vanno creati e cercati sia all’interno che all’esterno dell’istituto. Il punto di partenza non può non essere allora la comunione dei beni fra le diverse comunità. In caso di vendita di immobili, aveva già chiaramente affermato il 35° capitolo generale dei pavoniani, le singole province concordano con il superiore generale la quantità da passare alla congregazione. Quanto avanza in ogni comunità dovrebbe essere messo a disposizione della propria provincia. Non è certo un criterio evangelico quello di chi afferma che «può spendere di più chi guadagna di più o chi osa di più nel chiedere».

Ma è soprattutto all’esterno che i pavoniani sono sollecitati a compiere “gesti profetici” in favore dei poveri, denunciando il male e testimoniando una reale povertà, intervenendo in caso di calamità naturali, attenti ad ogni tipo di povertà (materiale, culturale, morale), mettendo a disposizione delle persone più bisognose edifici, tempo, denaro, non sottovalutando mai, infine, l’opportunità della propria presenza in quegli organismi locali pubblici e privati in cui si affrontano e si cerca di dare una risposta alle tante povertà.

 

LA GESTIONE

DELLE RISORSE UMANE

 

Per certi versi la parte più concreta di tutto il documento è quella riguardante alcune direttive operative nella gestione del personale, degli immobili, degli acquisti, delle manutenzioni straordinarie, delle offerte. Una corretta gestione del personale è possibile solo a determinate condizioni: verificare periodicamente i rapporti di lavoro subordinato, autonomo, coordinato ed occasionale del personale laico e religioso, rispettare i contratti di lavoro (dando tutto il dovuto, ma richiedendo anche le corrispondenti prestazioni lavorative), prestare attenzione alle facili assunzioni, con una seria e oculata politica e gestione delle risorse umane, stilare adeguati mansionari in cui chiarire i rapporti e stabilire le competenze e i doveri del personale dipendente. Inoltre, anche se tra religioso e istituto di appartenenza «non si pone in essere un rapporto di lavoro subordinato», tuttavia  «tutte le attività della congregazione dotate di propria personalità giuridica richiedono la stipula di un regolare contratto di lavoro anche per il personale religioso».

Per quanto riguarda la gestione degli immobili dell’ente, va sempre redatto un loro accurato inventario, sia che si tratti di immobili strumentali (per uso e destinazione) che di immobili istituzionali, ponendo tutta l’attenzione dovuta alla loro destinazione, al loro utilizzo e ai relativi regimi fiscali e tributari. Il contenimento di costi di gestione, poi, non sarà mai troppo. Lo spreco degli spazi «è un onere e può compromettere la continuità dell’opera». Proprio per questo «cerchiamo di non realizzare strutture troppo grandi, che nel tempo diventano più difficili da sostenere e impediscono la visibilità della nostra testimonianza di povertà».

Un programma dettagliato di breve-medio periodo va previsto anche «per gli acquisti di beni durevoli, per le manutenzioni straordinarie, per le scelte operative (investimenti) finalizzate all’attualizzazione del carisma e delle attività», con il pieno coinvolgimento di tutti gli organismi di partecipazione interessati. Anche la correttezza nei rapporti commerciali non sarà mai troppa. «Qualità, professionalità e servizio hanno un costo, ma alla lunga ripagano». In occasione poi di avvicendamenti di responsabili delle diverse attività, si dovrà stare attenti a non cambiare “tutto e subito”, dai fornitori, ai consulenti, alle società di servizi.

Per importanti che possano essere le offerte che vengono dall’estero per le missioni, si dovrebbe nello stesso tempo imparare a utilizzare anche le risorse interne, chiedendo a chi più ha, sottoscrivendo convenzioni con gli enti pubblici, adeguando gli affitti degli immobili, alienando quelli che non danno reddito e che non hanno più nessuna finalità apostolica. «Tutte queste cose le attuiamo attraverso scelte comunitarie, perché neppure il fare del bene e l’aiutare i poveri giustifica l’individualismo e l’autonomia da un riferimento comunitario».

 

Angelo Arrighini