UN’INCHIESTA DELLA RIVISTA “CHRISTUS”
UNA STIMA CHE NON TI ASPETTAVI
Dalle risposte
giunte alla redazione si ha l’impressione che a essere più pessimisti su se
stessi siano i religiosi stessi che non i laici o comunque chi vede i religiosi
da fuori. I giudizi positivi espressi dall’esterno inducono a riflettere sulla
validità di “questa” vita religiosa, evitando giudizi troppo affrettati e
superficiali.
È vero che a volte le apparenze ingannano, come è vero che
l’abito non sempre fa il monaco. Chi guarda le persone dall’esterno ha bisogno
quindi di una certa perspicacia di spirito per saper discernere ciò che è
autentico e ciò che invece è ingannevole. Che cosa si può dire a questo
riguardo dell’immagine che i religiosi/e, e le loro comunità, danno di sé a
coloro che li incontrano o li osservano? Qual è il giudizio della gente comune?
Per saperlo, la rivista di formazione spirituale dei padri
gesuiti francesi Christus, i cui abbonati sono ormai in gran parte laici, con
un buon terzo di religiosi/e, ha lanciato nel primo trimestre del 2005
un’inchiesta, raccogliendo circa 220 risposte da parte di 118 donne e 102
uomini, di età media sui 65 anni. Purtroppo mancano quasi del tutto i giovani e
non è una lacuna da poco, poiché forse i giudizi espressi sarebbero stati più
complessi e articolati. Una seconda lacuna è che, rivolgendosi ai propri
lettori, è stato scelto un gruppo specifico di individui, ossia persone che si
impegnano a vivere la loro vita di fede.
Ma pur con questi limiti, l’inchiesta ha ottenuto riposte
interessanti, come si può leggere nel numero di aprile dove sono sintetizzati i
risultati.
Ciò che stupisce, in un momento in cui forse sono proprio i
religiosi a diffondere un certo pessimismo su se stessi, è invece l’alto grado
di stima e di riconoscenza che gli intervistati dicono di nutrire verso di
essi. Cosa che fa riflettere quando forse con troppa superficialità diamo ormai
per spacciata l’attuale vita religiosa o parliamo di una ipotetica
“rifondazione” i cui contorni spesso non sono molto chiari. Bisogna comunque
come dice il proverbio fare attenzione a “non buttare via assieme all’acqua
della vasca da bagno anche il bambino”.
Dalle risposte risulta infatti che ciò che gli intervistati
vedono nei religiosi/e sono i valori di sempre, quelli su cui si fonda la vita
consacrata e che conferiscono ad essa, anche oggi, il suo sapore evangelico. E
bisogna dire che c’è serietà nelle risposte. I redattori della rivista,
infatti, allo scopo di evitare affermazioni improvvisate e superficiali,
avevano invitato i lettori a prendersi del tempo per riflettere, prima di
rispondere, e a considerare questo invito come un “esercizio spirituale” con
tutto ciò che esso significa davanti a Dio e a partire dalla propria
esperienza.
I VALORI
PIÙ SOTTOLINEATI
Una prima domanda voleva sapere dai lettori quali erano i
religiosi o le comunità conosciuti personalmente e che avevano avuto un
influsso sulla loro vocazione di battezzati. Tra i più citati nelle risposte
sono i gesuiti, seguono in forma generica i missionari, i domenicani, i
francescani e altri..
Una cifra relativamente alta di inchiestati segnala anche
l’incontro con le religiose: suore insegnanti, missionarie in città,
formatrici. Ma sono ben rappresentati anche i religiosi/e di vita
contemplativa, carmelitane, clarisse, benedettini/e, trappisti/e. Seguono i
sacerdoti diocesani incontrati in genere nell’ambito dell’insegnamento,
collegi, licei. Un numero relativamente inferiore parla anche di incontri con
le nuove comunità.
Una seconda domanda chiedeva: «Attualmente siete in rapporto
con dei religiosi o religiose? Se sì, in quale contesto?». Molti hanno risposto
di esserlo attraverso l’accompagnamento spirituale, i ritiri, la preghiera e la
contemplazione, la formazione, pastorale, il settore della carità, dell’
educazione e della salute.
Tra le caratteristiche più apprezzate sono indicate ai primi
tre posti la preghiera, collegata spesso con la contemplazione; l’ascolto,
messo in relazione con la presenza, la testimonianza di vita, l’esemplarità e
la prossimità e, in seconda battuta, con la gioia, l’ascendente, l’accoglienza,
la semplicità. In terzo luogo, l’azione, indicata insieme con la formazione, la
qualità delle relazioni, l’approfondimento e l’efficacia.
Un’altra domanda toccava aspetti centrali della vita
religiosa, ossia il radicalismo evangelico. Si chiedeva: «Siete testimoni di un
radicalismo evangelico specifico nella vita dei religiosi/e? Se sì, in quale
ambito e a quale livello?».
I responsabili della rivista osservano che questa è stata la
domanda che ha posto agli intervistati un maggior numero di problemi. Un terzo
infatti non ha risposto. Coloro invece che hanno inviato le loro impressioni,
hanno affermato di cogliere questo radicalismo in tre aree ben precise: la
comunità, il dono di sé, la povertà.
Prima di tutto, la comunità, ossia il vivere e mettere tutto
in comune.
In secondo luogo, il dono di sé, ossia il radicalismo di una
vita donata in maniera totale e fatta di sacrificio, soprattutto in rapporto
alla missione nel mondo. Frutti di questo dono sono l’abbandono, la gratuità,
l’abnegazione. Il dono, a cui si accenna, inoltre, è considerato sinonimo di
amore e di impegno nella società, nella città, e di sequela di Cristo.
In terzo luogo, la povertà, segnalata in particolare per i
contemplativi, meno invece per i religiosi/e di vita apostolica; essa è intesa
anche come accoglienza del povero e come povertà materiale in una società di
ricchi, con le esigenze che essa comporta: ascesi, il lasciare tutto, da cui
deriva quella libertà dei figli di Dio di cui danno testimonianza i religiosi.
La castità e l’obbedienza invece sono semplicemente accennate, senza alcun
tentativo di approfondimento.
Da parte di molti, i religiosi/e sono apprezzati anche come
guide spirituali e testimoni di Cristo. Espressioni come le seguenti ricorrono
almeno in una quarantina di risposte: «ci richiamano alla vita interiore»;
«sono un invito a una presenza discreta, affermata nella preghiera
comunitaria». Altri sottolineano che i religiosi sono testimoni di Cristo,
vigili rispetto al mondo e attenti ai poveri. C’è anche una certa insistenza
sul fatto che essi sono, o devono essere, degli esempi, sia nel campo della
vita intellettuale, sia in quella quotidiana.
Per i più giovani, essi sono percepiti come dei partner i
cui tratti sono la reciprocità e il reciproco sostegno tra battezzati. Una
quindicina di risposte menzionano anche il legame reale che esiste tra
religiosi e laici nella preghiera, quale «manifestazione della comunione dei
santi».
Diversi esprimono perciò il timore di una loro scomparsa,
anche perché, dicono, «da essi dipende in parte la vita della chiesa».
Un’ulteriore domanda chiedeva a quali appelli e attese nella
Chiesa e nella società i religiosi possono meglio rispondere. Tra le
indicazioni figurano anzitutto la formazione alla vita spirituale,
l’iniziazione alla preghiera, con le seguenti accentuazioni: accoglienza,
ascolto, ritiri, invito alla preghiera in particolare per coloro che si trovano
a disagio nelle parrocchie. In secondo luogo, la trasmissione della Parola: ci
si attende cioè dai religiosi che formino alla comprensione delle Scritture. In
terzo luogo, l’evangelizzazione nel campo della cultura e la bellezza. Una
signora di 55 anni scrive: «C’è oggi una ricerca, una “fame di Dio” da non
dire; spesso le giovani generazioni sono diventate (in breve tempo) analfabete,
ma non sono senza desiderio. Non credo che il servizio parrocchiale e diocesano
risponda a questa fame».
Sempre nel contesto di questa domanda, ci si aspetta che
siano testimoni di Cristo, di umanità, di fraternità e di gioia. Una ventina di
volte viene nominato anche il servizio parrocchiale, pur con i suoi pro e
contro.
Tra coloro che hanno risposto figurano anche sacerdoti.
Questi dicono di attendersi dai religiosi un impegno pastorale ed esprimono
grande stima per il loro spirito di condivisione, di complementarietà e il loro
cameratismo. La maggioranza riconosce che i religiosi sono in grado di «meglio
rispondere a un ministero di ascolto e di iniziazione alla vita spirituale e
alla preghiera». Sono apprezzati inoltre perché, con la loro vita semplice e la
loro disponibilità, richiamano l’ “unico necessario”.
Altri riconoscono nei religiosi una grande capacità di
adattamento al mondo contemporaneo e di conseguenza una comprensione acuta dei
problemi della società.
In maniera ancora più netta che nelle risposte dei laici, i
sacerdoti sottolineano nei religiosi il loro richiamo alla contemplazione, alla
preghiera, al silenzio e alla vita fraterna. Questi sacerdoti esprimono quindi
un rammarico nel vedere case religiose che chiudono perché, a loro modo di
vedere, esse costituiscono uno stimolo e un sostegno prezioso per la pastorale
della diocesi.
IMPRESSIONI
D’INSIEME
Una volta presentate in sintesi le risposte, la rivista
Christus, ne ricava alcune impressioni d’insieme. Osserva, anzitutto, che nelle
risposte emerge un forte sentimento di riconoscenza verso i consacrati/e. In
secondo luogo, sottolinea la notevole insistenza posta sul temine
“testimonianza”: i religiosi/e sono visti come testimoni dell’essenziale. In
terzo luogo, l’attenzione posta sul radicalismo nel senso che «essi
testimoniano che si può vivere di povertà, castità e obbedienza in un mondo di
denaro, sesso e di potere; ciò significa che il regno di Dio esiste, qui e
ora».
I responsabili della rivista si sono premurati anche di
sottoporre le risposte alla commissione teologica della Conferenza dei superiori
maggiori (CSMF) e delle superiore (CSM) di Francia, per conoscere le loro
impressioni.
A parere di questa commissione, il filo conduttore che
percorre la lettura delle risposte è l’esperienza dell’incontro, descritto
sotto due forme: come sostegno spirituale o come semplice amicizia.
A prescindere dalla capacità o meno di percepire la
diversità dei carismi e degli istituti, si afferma, questo incontro può
risvegliare nelle persone un modo credere, amare e sperare che esse sentivano
nel cuore ma che ignoravano.
Per quanto riguarda l’amicizia con dei religiosi, è
sottolineato che essa è un dono condiviso in cui si iscrive in filigrana la
figura di Cristo amico degli uomini: «In un tempo in cui la solitudine fa
soffrire coloro che la vivono, può avvenire che coltivando l’amicizia il
religioso aiuti a credere che è sul versante dell’agàpe che la vita di ciascuno
trova la sua sorgente e la sua forza.
Una seconda osservazione riguarda la vita spirituale,
vissuta come gratuità e radicalità. In effetti, l’inchiesta è fortemente
marcata dalla vita spirituale. In questo senso ci si attende molto dai
religiosi. Forse, osservano i componenti della commissione, una cinquantina
d’anni fa non si sarebbe detto la stessa cosa. Allora probabilmente si sarebbe
insistito sulle “opere” d’insegnamento o di cura. Quel tempo ormai è finito e
l’inchiesta viene a confermarlo. La conseguenza è che il religioso non può più
definirsi da quello che fa, ma da ciò che ha determinato il suo gesto: la
gratuità e la radicalità. Non si tratta più dunque di considerare il religioso
come un modello, ma come un anello di trasmissione di un’esperienza spirituale.
Inoltre, l’insistenza sulla vita spirituale non è forse il
riflesso dell’attesa e della sete che i nostri contemporanei hanno di gratuità
e radicalità?
Anzitutto la gratuità. In effetti, la vita religiosa non
serve a niente in rapporto a tutto ciò che ha importanza nella vita di una
persona. L’amore e l’amicizia non servono a niente, la fiducia, la fede e la
speranza non sono utili.
Il problema della gratuità forse è da mettere in relazione
con quello dei voti: nell’inchiesta, la povertà è citata molto più della
castità e dell’obbedienza. Se i tre voti sono dei segni di questa gratuità, è
possibile che ci si attenda essenzialmente dai religiosi una testimonianza di
povertà.
In secondo luogo, la radicalità. In effetti la vita
religiosa è una scelta. Un certo disagio forse può aver suscitato la domanda
del questionario: «Siete davvero dei testimoni di un radicalismo evangelico
nella vita dei religiosi/e?». E legata a questa domanda, l’altra: «Vi sentite
messi in questione da ciò che vivono i religiosi?».
L’inchiesta infine indica in particolare la comunità come
luogo del radicalismo evangelico. È interessante, per esempio, costatare come
coloro che hanno risposto siano così benevoli verso i religiosi, e invece
piuttosto critici per quanto riguarda il luogo dove il religioso dovrebbe
incarnare e vivere la sua ricerca evangelica, ossia la vita comune.
Secondo la commissione, l’inchiesta, pur con il limite di
essersi rivolta a un lettorato specifico, cioè a cristiani, piuttosto
intellettualizzati, può suscitare tre interrogativi che possono aprire un
dibattito. Essa propone un’immagine un po’ “ideale” dei religiosi, quali
esperti della ricerca di Dio, persone che hanno trovato “qualcosa”. Di qui
l’insistenza sulla richiesta di formazione. Ma come trasmettere un’esperienza
che è propriamente l’esperienza di un “non sapere”? Difficile problema posto ai
catechisti, insegnanti e predicatori. Come trasmettere l’esperienza di un
incontro? Forse con l’incontro, appunto.
Un secondo interrogativo riguarda la missione, poco presente
nell’inchiesta. La missione, vale a dire la dimensione politica della vita
religiosa in quanto impegno pubblico. La relativa assenza del voto di castità e
di obbedienza potrebbe trovare qui la sua giustificazione.
Un terzo interrogativo potrebbe essere questo: la vita
religiosa si esaurisce in quello che si vede? In che maniera ciò che è visibile
è leggibile? Il religioso non è forse sempre in tensione tra dei poli che egli
deve continuamente lasciare per trovarne altri: abbandonare la solitudine per
la comunità, lasciare lo studio per l’annuncio, lasciare l’annuncio per il
silenzio; lasciare la preghiera per il servizio dei fratelli e, nello stesso
tempo, vivere l’invito a rimanere vicino al proprio Maestro?
C’è un segreto, non solo della storia personale, ma anche in
quella dell’istituto, e riguarda le proprie lotte, sofferenze, gioie. La
dimensione escatologica è da ricercare qui, in questa storia discreta in cui
uomini e donne hanno donato il loro tempo, la loro amicizia, le loro forze, la
loro intelligenza, ignorando spesso il peso (nel linguaggio biblico la
“gloria”) di ciò che donano, invitando altri a seguirli, o meglio a seguire
Cristo, a mettere la loro vita nelle mani di un altro, poiché questo in
definitiva è solo ciò che conta.
A.D.