“ERANO UN CUORE SOLO E UN’ANIMA SOLA”
VITA IN COMUNE O VITA IN COMUNIONE?
Se è vero che
la spiritualità del futuro nella Chiesa è la comunione fraterna, anche la vita
religiosa deve trovare le forme che meglio esprimano ciò. Oggi non basta
riconoscersi come confratelli a prescindere dal conoscersi o dalla qualità e
numero delle comunicazioni dirette. La comunione è ben di più della vita in
comune.
Gli apostoli seguivano Gesù perché da lui affascinati e poi
inviati a portare la buona notizia in tutto il mondo. La sequela era data dallo
stare con l’itinerante che non aveva dove posare il capo. Dopo questo primo
momento le prime comunità – caratterizzate dall’ascolto di ciò che gli apostoli
tramandavano, dalla condivisione, dalla preghiera assidua e dallo spezzare il
pane – divennero fonte di ispirazione per tutti coloro che volevano diventare
cristiani: fratelli con un cuor solo e un’anima sola. In tal modo realizzavano
la koinonia che è l’istanza caratterizzante e irrinunciabile per la Chiesa
intera. A partire dal IV secolo l’esperienza singolare di comunione dove ci si
lava i piedi gli uni gli altri, dove il primo è chiamato a mettersi all’ultimo
posto e colui che comanda ad agire come uno che serve, contestando lo spirito
di dominio e testimoniando il mondo nuovo nel quale gli uomini si riconoscono
in stretta dipendenza gli uni gli altri,1 è diventato l’archetipo anche di
tutte le forme di vita consacrata succedutesi nel tempo.
In questo modo risposi a un gruppo di consacrate che
chiedeva: «La vita degli apostoli che seguivano Gesù e successivamente le prime
comunità cristiane a cui ci si riferisce parlando di vita consacrata, sono
prototipi di vita in comune o di vita in comunione?». Dopo quanto detto mi pare
che l’elemento irrinunciabile e caratterizzante la vita consacrata sia la vita
in comunione (un cuor solo e un’anima sola) e ciò venga prima delle varie
forme, senza escluderle, attraverso cui si è espressa nel corso dei secoli.
UNO SGUARDO
RETROSPETTIVO
Rendo ragione di ciò con un breve sguardo storico
retrospettivo. L’avvio della VR avviene nel secolo terzo con l’anacoresi, che
non è scelta di comunità ma di solitudine. Sant’Atanasio fa iniziare il monachesimo
con la vocazione di Antonio che sceglie di vivere in una solitudine sempre più
progressiva e radicale,2 quale espressione del «Dio solo mi basta». In quel
momento, sequela di Cristo significava distaccarsi dalla terra per avvicinarsi
a Dio: Simone lo stilita lo esprime fisicamente su di una colonna alta diciotto
metri.
È con Pacomio che nasce la vita cenobitica. Successivamente
con Basilio la vita in comune è chiamata fraternità, preferendo ai termini
monastici quelli semplicemente cristiani.3 Sant’Agostino poi scrive nella
Regola: «Il motivo per cui siete insieme riuniti è che viviate unanimi nella
casa e che abbiate un anima sola e un cuor solo in Dio».4 Per san Benedetto
invece «la comunità benedettina si caratterizza come una società cenobitica intesa
quale luogo di formazione al cammino verso Dio piuttosto che come una comunità
di vita fraterna avente valore in se stessa e per se stessa».5
Con san Francesco il mutamento consiste nel fatto che i
membri non si chiamano più monaci ma fratelli e il monastero convento, a
indicare che «la comunità è data dal convergere delle persone (itineranti)
piuttosto che dal luogo».6 «Il riferimento non è alla comunità di Gerusalemme
ma alla vita degli apostoli perché il loro ideale non è quello di costituirsi una
comunità particolare, ma di estendere a tutti l’ideale evangelico della
fraternità».7
Il modello monastico e conventuale è superato da
sant’Ignazio il quale configurò la comunità secondo nuovi criteri, in
particolare quello missionario. La comunità è funzionale al progetto della
comune missione in risposta al mandato di Gesù di diffondere il Vangelo. I
membri non si chiamano né monaci, ne fratelli ma compagni di Gesù e tra di
loro.
Tra il 1500 ed il 1700 l’originalità di ispirazione nei
nuovi contesti, in riferimento a nuove forme di comunità, si ha in particolare
con le Orsoline di Angela Merici che si differenziano dai tipi correnti di VC e
la comunione si realizza nell’essere «unite e concordi di volere come si legge
degli apostoli e di altri cristiani della Chiesa primitiva»,8 senza vivere
sotto lo stesso tetto. Altro tipo di comunità è quello di Mary Ward (Dame
inglesi) che ha dovuto molto soffrire e combattere perché fosse accettato che
delle religiose non avessero la clausura e apostolicamente «lavorassero proprio
come gli uomini».
Successivamente qualcosa del genere ha voluto san Vincenzo
de Paoli con Luisa de Marillac: «le Figlie della Carità non potranno mai essere
religiose, e guai a chi parlerà di farle religiose».9 Il motivo è perché «chi
dice religiosa dice clausura e le Figlie della Carità devono andare ovunque»10
essendo la missione prevalente sullo stare assieme.
Dopo la rivoluzione francese fino alla metà del 1900 c’è un
pullulare di congregazioni nuove, specie su sollecitazione dei bisogni sociali
del tempo, che ricalcano modelli di impronta prevalentemente gesuitica
frammisti a schemi comunitari di tipo monastico «in cui predomina un rigido
ascetismo, l’uniformità, le pratiche spirituali e devozionali, l’osservanza
regolare».11
Tutto ciò fino agli anni 1950 (circa), quando «sorgono da
ogni parte nuove proposte – particolarmente dal laicato – che, per la loro
spontaneità e il loro entusiasmo di gioventù, tracciano un sentiero molto più
dinamico e stimolante del nostro».12 C’è una fioritura di nuovi tipi di
comunità con caratteristiche diverse rispetto alle precedenti. La maggior parte
degli iniziatori sono laici e come tali portano all’interno della consacrazione
la sensibilità ai valori terreni, specie la gioia dello stare assieme, l’amicizia.
Il progetto di vita discepolare tende a rendere trasparente la spiritualità e
la koinonia con l’impronta della comunità di Gerusalemme secondo cui con il
termine «comunità si intende una esperienza spirituale vissuta assieme»13 e non
necessariamente uno stare assieme in senso locale-temporale. Il card. Lehmann
ebbe a dire che queste forme rispondenti alle sfide di un’epoca coniugano
assieme la soggettività e la «riscoperta della comunitarietà e solidarietà
della vita e della condivisione di fede».
Dopo questo sguardo retrospettivo viene spontaneo dire che
molteplici possono essere le espressioni dell’unica comunione e nessuna di
queste va assolutizzata ma ricondotta a manifestazioni tipiche di tempi
diversi, ecclesiologie diverse e differenti teologie della vita consacrata. Lo
afferma il documento La vita fraterna in comunità (10) dicendo che «la storia
della VC testimonia modalità differenti di vivere l’unica missione». Vita
consecrata (3) aggiunge «si potrà avere storicamente una ulteriore varietà di forme».
Circa otto anni dopo il documento Ripartire da Cristo (12) dirà che le persone
consacrate sono obbligate a cercare nuove forme. È la presa d’atto della
relatività storica di ogni forma e che dalla crisi della modernità se ne esce
solo in avanti.14
RENDERE ESPLICITA
E FECONDA LA KOINONIA
Oggi siamo in un nuovo secolo e millennio che non significa
soltanto cambiamento di date ma, in particolare per i consacrati, cambiamento
di schemi esemplari, specialmente quelli che riguardano i modi di rendere esplicita
e feconda la koinonia. Come essere comunità è uno dei nodi maggiormente
problematici per la vita consacrata tradizionale o quantomeno questa fa fatica
a esprimere degli elementi di fascino per le nuove generazioni, perché in
troppi casi non è trasparente annuncio di un nuovo tipo di società fraterna ed
egualitaria. Per conseguire ciò siamo chiamati a sottoporre a critica storica
molti dei presupposti culturali che ci siamo portati dietro da altri tempi, uno
dei quali è quello di identificare koinonia con vita sotto lo stesso tetto,
quasi a dire che se c’è la seconda necessariamente c’è anche la prima. Marsili
scrive: «Se vogliamo giustificare il ricupero della parola koinonia, direi che
mentre oggi comunità è una situazione di fatto, a livello statico, la koinonia
è comunione e cioè l’elemento dinamico e sempre in fieri che costituisce la
comunità».15
Come passare dalla vita in comune alla fraternità, vale a
dire dall’essere struttura all’essere modello di relazioni senza le quali non
esiste comunità anche se la convivenza formale è perfetta? Se è vero che la
spiritualità del futuro nella Chiesa è la comunione fraterna, anche la vita
religiosa deve trovare le forme che meglio esprimano ciò, partendo
dall’ammettere la verità di quanto detto da Karl Rahner: «Noi più anziani
abbiamo avuto un’esperienza spesso molto marginale di questo fenomeno»,
abituati a dire comunità anche se scarseggiano le comunicazioni reali o sono
ricondotte soltanto agli abituali comportamenti relazionali «quali il mangiare
assieme, il pregare assieme, il vedere la televisione assieme».
Che cos’è cambiato dal tempo in cui le tradizionali comunità
attraevano? Le forme di vita evangelica erano particolarmente spirituali, per
cui in tempi di spiccato ascetismo l’individuo poteva trovare una appagante
risposta di senso anche solo nel vivere la comunità come poenitentia. Oggi
questo sarebbe un pensare non corrispondente alle aspettative della persona
contemporanea, che intende la comunità come palestra di spiritualità e nel
contempo laboratorio di nuova umanità, cioè capace di rispondere al desiderio
di responsabilità, simpatia, relazioni vere. In tutto ciò l’ascetica, come
valore pedagogico, non può mancare ma altrettanto non può essere assente la
gioia della comunione: «una fraternità senza gioia è una fraternità che si
spegne».16 Giovanni Paolo II mette in guardia da strumenti esteriori di
comunione che siano «apparati senz’anima, maschere di comunione più che sue vie
di espressione e di crescita», invitando ogni credente a sperimentare la
comunione con il fratello su basi sempre più realistiche e concrete «per saper
condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e
prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia».17
Quest’ultime sono parole decisamente nuove per la VR se confrontate con una
certa prassi secondo cui «tra i membri tutto doveva essere solo informale,
altrimenti suscitava perplessità, dubbi, diffidenze, gelosie».18
Specie dal ‘500 in poi a far sorgere un istituto religioso
era primariamente l’attenzione a un bisogno della società che ne definiva il
fine apostolico alimentato da una dimensione spirituale. In pratica l’agire
apostolico ha di diritto o di fatto costruito un tipo di comunità funzionale a
una maggiore efficienza apostolica : «Il valore di molti uniti insieme – si
legge negli scritti delle origini della Compagnia di Gesù - ha certo più vigore
e consistenza per ottenere qualunque arduo risultato, che non se si disperde in
più direzioni».19 In termini attuali queste potremmo definirle comunità
aziendali al fine di un comune servizio, per cui la soddisfazione è – era –
data dall’immersione nelle attività tale da poter compensare la mancanza di
comportamenti relazionali all’interno della comunità.
SIAMO TROPPO
PRUDENTI E SAGGI
Mi pare sia incontrovertibile il fatto che le istituzioni,
specie quelle numericamente rilevanti, corrano il rischio di reggersi su una
concezione collettivistica, per la quale è il sistema di valori a tenere
insieme e questo basta a riconoscersi come confratelli a prescindere dal
conoscersi o dalla qualità e numero delle comunicazioni dirette. Ma oggi, per
esprimere la koinonia non bastano più relazioni all’ingrosso, sono richieste
quelle al minuto. Inoltre a definire il concetto e la prassi di comunità non
bastano più tutti quei principi di cui le costituzioni sono ricche: «è arrivato
il momento di non dire più di quello che siamo disposti a mettere in pratica …
senza distrarci con discorsi estetici sugli ideali della VR, invece di analizzare
la situazione».20
La VR uscirà dalla crisi che va aggravandosi? Perché molti
dei nostri antichi carismi faticano a proiettarsi nel futuro mentre ne sorgono,
vigorosi, dei nuovi? A queste domande, espresse da un gruppo di giovani
religiosi incontratisi in preparazione al prossimo incontro ecclesiale di
Verona, cercò di rispondere uno di essi riportando le parole forti di S.P.
Arnold: «Moriamo perché siamo troppo prudenti e saggi. Lo Spirito, nella sua
follia, non trova più la breccia attraverso cui penetrare per mobilitarci. È
probabile che sia per questo che si rivolge preferibilmente, oggi come al tempo
delle nostre stesse origini, verso settori meno saggi, meno prudenti e meno
formati teologicamente, ma capaci di rischiare di nuovo la pazzia del Vangelo nella
vita reale e non soltanto nelle parole».21 In altro modo potremmo dire che
usciranno dalla crisi quegli istituti che sapranno vivere il momento presente
come fatto paradossalmente provvidenziale e con quella alacrità che solo un
fatto nuovo può suscitare, mettendosi di fronte all’inedito, liberi da
precomprensioni e predefinizioni che vengono da mondi che non esistono più,
sapendo che «le nuove forme di VC sono nate da gente innamorata della Chiesa
senza condizioni e tuttavia critiche e libere dinanzi a ogni sorta di discorso
a priori».22 In tutto ciò è da tener presente che il primo intendimento delle
nuove forme è quello che sostanzialmente ci differenzia da esse: il modo di
esprimere la koinonia. Ne consegue che nel futuro bisognerà essere aperti a nuovi
modelli di comunità religiosa che oltre a rendere visibile lo stare assieme,
testimonino la fraternità, che associ la «esperienza di Dio condivisa, la
preghiera, la celebrazione comunitaria della fede e della vita, la
comunicazione dei beni, la pratica comunitaria della riconciliazione, la
missione partecipata»,23 lasciandosi guidare dalla pratica concreta e storica
di Gesù: «Come fece lui, è urgente reinventare la povertà alla scuola dei
poveri, la castità alla scuola dell’amore vero e incarnato, l’obbedienza alla
scuola della libertà evangelica».24
Cozza Rino
c.s.j.
1_F. Ciardi, Koinonia, p. 38.
2_Ib., p. 60.
3_Ib., p. 97.
4_Regola, I, Trapè, p. 241.
5_F. Ciardi, Koinonia, p. 113.
6_Ib., p. 123.
7_Ib., p. 124.
8_Testam.spirituale, decimo legato, p. 113.
9_Entretien 56, correspondence, entretiens, documents,
par p. Coste, vol. IX, p. 662.
10_Ib. P.658.
11_F. Ciardi, Koinonia, p. 149.
12_S.P. Arnold, Dove ci porta il Signore – Paoline p. 111.
13_F. Ciardi, Koinonia, p. 175.
14_M. Guzzi, La nuova umanità, Paoline.
15_L’abate nella koinonia del monastero, p. 280.
16_Vita fraterna in comunità n. 28.
17_Novo millennio ineunte n. 43.
18_In Consacrazione e Servizio n. 12-2005, p. 58.
19_Scritti (della Compagnia) p. 207-208.
20_F. Martinez, Dove ci porta il Signore – Paoline, p. 24.
21_S.P. Arnold, Dove ci porta il Signore – Paoline, p. 114.
22_S.P. Arnold, Dove ci porta il Signore – Paoline, p. 125.
23_F. Martinez, Dove ci porta il Signore – Paoline, p. 30.
24_S.P. Arnold, Dove ci porta il Signore – Paoline, p. 119.