UN ANNO RICCO DI RICORRENZE E AVVENIMENTI

NUOVO SLANCIO ALLA MISSIONE IN ASIA

 

Quest’anno la Chiesa cattolica dell’Asia celebra alcune ricorrenze molto importanti che, pur riguardando la sua storia passata, sono anche un invito alla speranza per il futuro. Il prossimo mese di ottobre, inoltre, sarà organizzato il primo congresso missionario della sua storia.

 

Agli osservatori più attenti non è sfuggito il fatto che, tra i 15 nuovi cardinali creati da Benedetto XVI nel concistoro del 24 marzo scorso, tre sono asiatici, e tutti e tre residenziali: il card. Joseph Zen Ze-kiun, salesiano, per la sede di Hong Kong; il card. Nicholas Cheong Jinsuk, per Seul (Corea) e il card. Rosales Gaudencio Borbon, per la sede di Manila (Filippine) mentre sono invece rimaste in attesa sedi europee di prima grandezza come Barcellona, Parigi e Dublino.

Questa scelta sembra corrispondere a una precisa volontà del papa di mettere al primo posto nella sua sollecitudine pastorale l’evangelizzazione dell’Asia, raccogliendo così l’auspicio formulato da Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Asia: «Insieme con la comunità ecclesiale diffusa nel mondo, la Chiesa in Asia varcherà la soglia del terzo millennio cristiano, contemplando con meraviglia quanto Dio ha compiuto dagli inizi sino ad oggi e forte della consapevolezza che come nel primo millennio la croce fu piantata sul suolo europeo, nel secondo millennio su quello americano e africano, nel terzo millennio si potrà sperare di raccogliere una grande messe di fede in questo continente così vasto e vivo».

C’è una ragione ben precisa di puntare su questo immenso continente. Come rilevava appunto Giovanni Paolo II: «L’Asia è il più vasto continente della terra ed è abitato da circa i due terzi della popolazione mondiale, mentre la Cina e l’India insieme costituiscono quasi la metà della popolazione totale del globo. Ciò che più colpisce del continente è la varietà delle popolazioni, eredi di antiche culture, religioni e tradizioni. Non possiamo non rimanere colpiti dall’enorme quantità numerica della popolazione asiatica e dal variegato mosaico delle sue numerose culture, lingue, credenze e tradizioni, che comprendono una parte veramente considerevole della storia e del patrimonio della famiglia umana».

È un continente ancor tutto da evangelizzare. I cattolici rappresentano soltanto un “piccolo gregge” che non arriva al 3%; un piccolo gregge tuttavia non insignificante, ma ben visibile e vivace con un potenziale che va ben al di là della sua consistenza numerica. «La piccola comunità cattolica, scriveva Bernardo Cervellera (Avvenire 25 marzo), vive di grande promesse: ogni anno milioni di nuovi battezzati fanno crescere la Chiesa al ritmo del 5%; la frequenza alla messa domenicale è del 50%. E a differenza di quanto avviene in Europa e America del nord, sacerdoti e vocazioni religiose sono in aumento. Già ora missionari coreani evangelizzano l’Asia e l’America latina; sacerdoti e fedeli filippini portano la fede tra i ricchi di Singapore o nei paesi islamici del Golfo. Forse non passerà molto tempo che anche lembi d’Europa saranno evangelizzati da missionari asiatici».

 

ALCUNE DATE

SIGNIFICATIVE

 

Con la creazione di questi tre nuovi cardinali, sono ora 20 i membri del Sacro Collegio del continente asiatico, un numero pari a quello del nord America.

Ad accrescere l’interesse per questa scelta è che essa proprio quest’anno coincide con alcune importanti ricorrenze, portatrici di nuova speranza per Chiesa in Asia: anzitutto i 500 anni della nascita del grande missionario Francesco Saverio, uno dei primi compagni di sant’Ignazio di Loyola, che svolse, con grande successo, tutta la sua attività in questo continente. Nato il 7 aprile del 1506 in Spagna, nella Navarra, il 6 maggio del 1542, sbarcò a Goa, colonia portoghese fin dal 1533, da dove hanno poi avuto inizio i viaggi missionari che lo porteranno in varie parti del continente: in India, in Indonesia e Giappone. Muore il 3 dicembre 1552, all’età di soli 46 anni e 8 mesi, nell’isola di Sancian non molto lontano da Macao.

Anche se Francesco non ha messo piede in Cina, lo si può considerare il primo missionario di quella terra, fecondata certamente dal suo grande desiderio di evangelizzarla. Francesco Saverio è stato proclamato santo – insieme a Ignazio – il 12 marzo del 1622; patrono dell’oriente cristiano nel 1748; patrono dell’Opera della Propagazione della fede nel 1904; patrono delle missioni nel 1927, anno in cui Pio XI proclamò come co-patrona delle missioni santa Teresa di Lisieux (1873-1927).

Una seconda importante ricorrenza è costituita dai 430 anni della creazione della diocesi di Macao avvenuta il 23 gennaio del 1575, al tempo di Gregorio XIII, il quale conferì ad essa la giurisdizione su tutta la Cina, il Giappone e le migliaia di isole dell’arcipelago delle Molucche. Il primo vescovo della sua storia fu Melchior Carneiro, gesuita portoghese. Nel corso degli anni, oltre ai gesuiti, diversi altri ordini religiosi cooperarono all’evangelizzazione e sono tuttora attivi: i francescani, gli agostiniani, i domenicani, le clarisse. Secondo i dati statistici della diocesi, nel territorio si contano attualmente 20 chiese cattoliche, 6 parrocchie, 7 stazioni missionarie, 87 sacerdoti, 11 comunità religiose maschili e 25 femminili; inoltre 39 scuole cattoliche e 48 istituzioni caritative o centri di servizi sociali.

La chiesa di Macao è stato posta sotto la protezione di san Francesco Saverio e di santa Caterina da Siena. Non bisogna dimenticare la straordinaria importanza che essa ha avuto per la storia dell’evangelizzazione, in particolare per quella dei gesuiti e il loro ingresso in Cina realizzato ad opera di p. Ruggeri e p. Matteo Ricci nel 1582.

Di Macao è rimasta celebre la chiesa di San Paolo, costruita nel 1600, è considerata il più grande monumento cristiano dell’estremo oriente (nella foto). Della costruzione, dopo che un incendio la distrusse nel 1853, è rimasta solo la facciata che si erge isolata sulla città. Come ebbe a testimoniare in un’intervista tempo fa il comboniano p. Cerezo, «ciò che resta di quella chiesa è una grande catechesi. In nessun altro posto al mondo esiste qualcosa del genere. Soffermarsi davanti alla sua facciata imponente e alla lunga scalinata che conduce ad essa, fa riflettere. La carità, i gesti significativi di amore per il prossimo, la testimonianza di fedeltà al Vangelo offerta anche a prezzo della vita stessa, possono durare più di un edificio che può andare distrutto. Dalla fine del 1500, centinaia di missionari hanno raggiunto la Cina attraverso Macao e, nel 1563, il gesuita p.Antonio de Quadros la definì «l’unico luogo da cui si può partire per predicare il Vangelo in Cina».

 

Una terza ricorrenza è costituita dai 300 anni (1706-2006) dell’approvazione del primo oratorio del beato José Vaz, sacerdote ed evangelizzatore di Ceylon (oggi Sri Lanka), beatificato da Giovanni Paolo II, il 21 gennaio 1995, durante il suo viaggio in Sri Lanka, nel corso di una solenne celebrazione eucaristica svoltasi nella “Galle Face Green” di Colombo.

In quell’occasione il papa ebbe a dire di lui: «Sono venuto nello Sri Lanka soprattutto per onorare il beato José Vaz. Come un astro splendente nel cielo asiatico, questa grande guida spirituale ci insegna molte lezioni circa la bontà della persona umana e la nobiltà del nostro destino in quanto esseri umani». José Vaz è stato anche il primo nativo non europeo a fondare una missione e una Chiesa in un paese del terzo mondo, e a fondare una congregazione religiosa cattolica composta unicamente di nativi e di ricevere il titolo di “apostolo” (di Kanara e Sri Laka), da parte della Chiesa, per la sua opera nel salvare la Chiesa qui (cf. fuoritesto).

 

CONGRESSO

MISSIONARIO

 

Oltre a festeggiare queste ricorrenze, quest’anno la chiesa dell’Asia si prepara anche a celebrare il suo primo congresso missionario, previsto per il 18-22 ottobre, a Chiang Mai in Thailandia. Avrà come tema La storia di Gesù in Asia. Una celebrazione di fede e di vita. Il progetto di organizzare un congresso del genere era stato sostenuto calorosamente dal card. Crescenzio Sepe, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, il quale, nel discorso tenuto al comitato centrale della Federazione delle conferenze dei vescovi dell’Asia (FABC) a Bangkok, il 27 settembre 2002, aveva dichiarato: «Desidero esprimere la mia gratitudine e quella della Congregazione che presiedo per il progetto di un congresso missionario dell’Asia che sarà organizzato. Non soltanto sono d’accordo con questa proposta ma, da questo momento, assicuro la totale collaborazione e il pieno sostegno del nostro dicastero missionario per la causa della missione. Saremmo felici di metterci a vostra disposizione in modo che il progetto possa essere organizzato il più presto possibile e portare i migliori frutti per l’evangelizzazione del continente asiatico».

Un nuovo impulso al congresso è certamente venuto anche dalla recente celebrazione dell’anno dell’Eucaristia, concluso lo scorso ottobre. In effetti, esso vuole essere una risposta all’invito di Giovanni Paolo II il quale aveva indicato l’Eucaristia come “il principio e la fonte della missione”. «In questo anno dell’Eucaristia, aveva scritto nella lettera apostolica Mane nobiscum Domine (7 ottobre 2004), ci si impegni, da parte dei cristiani, a testimoniare con più forza la presenza di Dio nel mondo. Non abbiamo paura di parlare di Dio e di portare a fronte alta i segni della fede. La “cultura dell’Eucaristia” promuove una cultura del dialogo, che trova in essa forza e alimento» (Mane nobiscum Domine 26).

Sono ormai quattro anni che persone impegnate stanno preparando questo congresso. Durante questo tempo sono state promosse diverse consultazioni e tenuti vari incontri per scegliere il paese ospitante (la scelta è caduta sulla Thailandia) e definire il tema generale, gli obiettivi, contenuto e metodologia dell’assemblea.

Sono già stati definiti anche i temi da trattare: La storia di Gesù nei popoli dell’Asia (19 ottobre); La storia di Gesù nelle religioni dell’Asia (20 ottobre); La storia di Gesù nelle culture antiche e moderne dell’Asia (21 ottobre); La storia di Gesù nella vita della Chiesa in Asia, in particolare nella famiglia e le comunità cristiane locali (22 ottobre).

Il congresso avrà un profilo pastorale e catechetico. Lo scopo che si propone è stato così descritto dai responsabili della preparazione: condividere la gioia e l’entusiasmo della nostra fede in Gesù Cristo. Anzitutto, allargando la nostra comprensione della persona e missione di Gesù di Nazaret attraverso la testimonianza e la narrazione; mostrare come la storia di Gesù si intreccia con le storie delle altre religioni; esprimere la nostra fede attraverso il linguaggio, il canto, la storia, l’arte, la musica, i simboli e l’ architettura dell’Asia e la promozione di autentici valori culturali e diritti indigeni; contemplare il volto asiatico di Gesù nell’adorazione, preghiera e culto.

In secondo luogo, celebrare le vie asiatiche della missione mediante la testimonianza di vita. In terzo luogo: suscitare la consapevolezza nella chiese dell’Asia circa una rinnovata comprensione della missione ad gentes, e una rinnovata comprensione della salvezza e della missione in dialogo; favorire l’incontro tra le chiese locali del continente in modo da trarre ispirazione le une dalle altre per intensificare la loro missione ad gentes attraverso le loro esperienze di vita in Cristo; continuare la missione sul piano ecumenico. Infine, rivelare il volto asiatico di Cristo nella vita personale, famigliare e sociale.

Per questo incontro è stato scelto anche un logo costituito da diversi elementi: rappresenta la mappa dell’Asia entro un ovale che abbraccia tutti i popoli; la croce che indica Gesù Cristo; la colomba segno dello Spirito Santo; la croce nella colomba entro il segno che abbraccia il continente, simbolo di Cristo e dello Spirito che abbracciano l’Asia; Il tema scritto all’intorno, “Raccontare la storia di Gesù in Asia” per significare che ogni nazione racconterà la propria storia di Gesù; l’invito: “Andate… e narrate loro”, ricordando le parole di Gesù nel vangelo di Marco (5,19): «Va’ nella tua casa, dai tuoi, annunzia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ti ha usato». Nella figura, infine, una fiamma di fuoco espressa secondo l’arte tailandese, per significare che pur essendo organizzato in Thailandia, il congresso è come una fiamma che proviene da Gesù e anima tutti noi ad andare e a raccontare la sua storia.

Prenderanno parte all’incontro circa un migliaio di delegati, vescovi, sacerdoti, religiosi e leaders laici, catechisti, giovani, uomini e donne, dediti all’attività missionaria della Chiesa. Appuntamento quindi al prossimo ottobre.

A. Dall’Osto

 


“ERANO UN CUORE SOLO E UN’ANIMA SOLA”

VITA IN COMUNE O VITA IN COMUNIONE?

 

Se è vero che la spiritualità del futuro nella Chiesa è la comunione fraterna, anche la vita religiosa deve trovare le forme che meglio esprimano ciò. Oggi non basta riconoscersi come confratelli a prescindere dal conoscersi o dalla qualità e numero delle comunicazioni dirette. La comunione è ben di più della vita in comune.

 

Gli apostoli seguivano Gesù perché da lui affascinati e poi inviati a portare la buona notizia in tutto il mondo. La sequela era data dallo stare con l’itinerante che non aveva dove posare il capo. Dopo questo primo momento le prime comunità – caratterizzate dall’ascolto di ciò che gli apostoli tramandavano, dalla condivisione, dalla preghiera assidua e dallo spezzare il pane – divennero fonte di ispirazione per tutti coloro che volevano diventare cristiani: fratelli con un cuor solo e un’anima sola. In tal modo realizzavano la koinonia che è l’istanza caratterizzante e irrinunciabile per la Chiesa intera. A partire dal IV secolo l’esperienza singolare di comunione dove ci si lava i piedi gli uni gli altri, dove il primo è chiamato a mettersi all’ultimo posto e colui che comanda ad agire come uno che serve, contestando lo spirito di dominio e testimoniando il mondo nuovo nel quale gli uomini si riconoscono in stretta dipendenza gli uni gli altri,1 è diventato l’archetipo anche di tutte le forme di vita consacrata succedutesi nel tempo.

In questo modo risposi a un gruppo di consacrate che chiedeva: «La vita degli apostoli che seguivano Gesù e successivamente le prime comunità cristiane a cui ci si riferisce parlando di vita consacrata, sono prototipi di vita in comune o di vita in comunione?». Dopo quanto detto mi pare che l’elemento irrinunciabile e caratterizzante la vita consacrata sia la vita in comunione (un cuor solo e un’anima sola) e ciò venga prima delle varie forme, senza escluderle, attraverso cui si è espressa nel corso dei secoli.

 

UNO SGUARDO

RETROSPETTIVO

 

Rendo ragione di ciò con un breve sguardo storico retrospettivo. L’avvio della VR avviene nel secolo terzo con l’anacoresi, che non è scelta di comunità ma di solitudine. Sant’Atanasio fa iniziare il monachesimo con la vocazione di Antonio che sceglie di vivere in una solitudine sempre più progressiva e radicale,2 quale espressione del «Dio solo mi basta». In quel momento, sequela di Cristo significava distaccarsi dalla terra per avvicinarsi a Dio: Simone lo stilita lo esprime fisicamente su di una colonna alta diciotto metri.

È con Pacomio che nasce la vita cenobitica. Successivamente con Basilio la vita in comune è chiamata fraternità, preferendo ai termini monastici quelli semplicemente cristiani.3 Sant’Agostino poi scrive nella Regola: «Il motivo per cui siete insieme riuniti è che viviate unanimi nella casa e che abbiate un anima sola e un cuor solo in Dio».4 Per san Benedetto invece «la comunità benedettina si caratterizza come una società cenobitica intesa quale luogo di formazione al cammino verso Dio piuttosto che come una comunità di vita fraterna avente valore in se stessa e per se stessa».5

Con san Francesco il mutamento consiste nel fatto che i membri non si chiamano più monaci ma fratelli e il monastero convento, a indicare che «la comunità è data dal convergere delle persone (itineranti) piuttosto che dal luogo».6 «Il riferimento non è alla comunità di Gerusalemme ma alla vita degli apostoli perché il loro ideale non è quello di costituirsi una comunità particolare, ma di estendere a tutti l’ideale evangelico della fraternità».7

Il modello monastico e conventuale è superato da sant’Ignazio il quale configurò la comunità secondo nuovi criteri, in particolare quello missionario. La comunità è funzionale al progetto della comune missione in risposta al mandato di Gesù di diffondere il Vangelo. I membri non si chiamano né monaci, ne fratelli ma compagni di Gesù e tra di loro.

Tra il 1500 ed il 1700 l’originalità di ispirazione nei nuovi contesti, in riferimento a nuove forme di comunità, si ha in particolare con le Orsoline di Angela Merici che si differenziano dai tipi correnti di VC e la comunione si realizza nell’essere «unite e concordi di volere come si legge degli apostoli e di altri cristiani della Chiesa primitiva»,8 senza vivere sotto lo stesso tetto. Altro tipo di comunità è quello di Mary Ward (Dame inglesi) che ha dovuto molto soffrire e combattere perché fosse accettato che delle religiose non avessero la clausura e apostolicamente «lavorassero proprio come gli uomini».

Successivamente qualcosa del genere ha voluto san Vincenzo de Paoli con Luisa de Marillac: «le Figlie della Carità non potranno mai essere religiose, e guai a chi parlerà di farle religiose».9 Il motivo è perché «chi dice religiosa dice clausura e le Figlie della Carità devono andare ovunque»10 essendo la missione prevalente sullo stare assieme.

Dopo la rivoluzione francese fino alla metà del 1900 c’è un pullulare di congregazioni nuove, specie su sollecitazione dei bisogni sociali del tempo, che ricalcano modelli di impronta prevalentemente gesuitica frammisti a schemi comunitari di tipo monastico «in cui predomina un rigido ascetismo, l’uniformità, le pratiche spirituali e devozionali, l’osservanza regolare».11

Tutto ciò fino agli anni 1950 (circa), quando «sorgono da ogni parte nuove proposte – particolarmente dal laicato – che, per la loro spontaneità e il loro entusiasmo di gioventù, tracciano un sentiero molto più dinamico e stimolante del nostro».12 C’è una fioritura di nuovi tipi di comunità con caratteristiche diverse rispetto alle precedenti. La maggior parte degli iniziatori sono laici e come tali portano all’interno della consacrazione la sensibilità ai valori terreni, specie la gioia dello stare assieme, l’amicizia. Il progetto di vita discepolare tende a rendere trasparente la spiritualità e la koinonia con l’impronta della comunità di Gerusalemme secondo cui con il termine «comunità si intende una esperienza spirituale vissuta assieme»13 e non necessariamente uno stare assieme in senso locale-temporale. Il card. Lehmann ebbe a dire che queste forme rispondenti alle sfide di un’epoca coniugano assieme la soggettività e la «riscoperta della comunitarietà e solidarietà della vita e della condivisione di fede».

Dopo questo sguardo retrospettivo viene spontaneo dire che molteplici possono essere le espressioni dell’unica comunione e nessuna di queste va assolutizzata ma ricondotta a manifestazioni tipiche di tempi diversi, ecclesiologie diverse e differenti teologie della vita consacrata. Lo afferma il documento La vita fraterna in comunità (10) dicendo che «la storia della VC testimonia modalità differenti di vivere l’unica missione». Vita consecrata (3) aggiunge «si potrà avere storicamente una ulteriore varietà di forme». Circa otto anni dopo il documento Ripartire da Cristo (12) dirà che le persone consacrate sono obbligate a cercare nuove forme. È la presa d’atto della relatività storica di ogni forma e che dalla crisi della modernità se ne esce solo in avanti.14

 

RENDERE ESPLICITA

E FECONDA LA KOINONIA

 

Oggi siamo in un nuovo secolo e millennio che non significa soltanto cambiamento di date ma, in particolare per i consacrati, cambiamento di schemi esemplari, specialmente quelli che riguardano i modi di rendere esplicita e feconda la koinonia. Come essere comunità è uno dei nodi maggiormente problematici per la vita consacrata tradizionale o quantomeno questa fa fatica a esprimere degli elementi di fascino per le nuove generazioni, perché in troppi casi non è trasparente annuncio di un nuovo tipo di società fraterna ed egualitaria. Per conseguire ciò siamo chiamati a sottoporre a critica storica molti dei presupposti culturali che ci siamo portati dietro da altri tempi, uno dei quali è quello di identificare koinonia con vita sotto lo stesso tetto, quasi a dire che se c’è la seconda necessariamente c’è anche la prima. Marsili scrive: «Se vogliamo giustificare il ricupero della parola koinonia, direi che mentre oggi comunità è una situazione di fatto, a livello statico, la koinonia è comunione e cioè l’elemento dinamico e sempre in fieri che costituisce la comunità».15

Come passare dalla vita in comune alla fraternità, vale a dire dall’essere struttura all’essere modello di relazioni senza le quali non esiste comunità anche se la convivenza formale è perfetta? Se è vero che la spiritualità del futuro nella Chiesa è la comunione fraterna, anche la vita religiosa deve trovare le forme che meglio esprimano ciò, partendo dall’ammettere la verità di quanto detto da Karl Rahner: «Noi più anziani abbiamo avuto un’esperienza spesso molto marginale di questo fenomeno», abituati a dire comunità anche se scarseggiano le comunicazioni reali o sono ricondotte soltanto agli abituali comportamenti relazionali «quali il mangiare assieme, il pregare assieme, il vedere la televisione assieme».

Che cos’è cambiato dal tempo in cui le tradizionali comunità attraevano? Le forme di vita evangelica erano particolarmente spirituali, per cui in tempi di spiccato ascetismo l’individuo poteva trovare una appagante risposta di senso anche solo nel vivere la comunità come poenitentia. Oggi questo sarebbe un pensare non corrispondente alle aspettative della persona contemporanea, che intende la comunità come palestra di spiritualità e nel contempo laboratorio di nuova umanità, cioè capace di rispondere al desiderio di responsabilità, simpatia, relazioni vere. In tutto ciò l’ascetica, come valore pedagogico, non può mancare ma altrettanto non può essere assente la gioia della comunione: «una fraternità senza gioia è una fraternità che si spegne».16 Giovanni Paolo II mette in guardia da strumenti esteriori di comunione che siano «apparati senz’anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita», invitando ogni credente a sperimentare la comunione con il fratello su basi sempre più realistiche e concrete «per saper condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia».17 Quest’ultime sono parole decisamente nuove per la VR se confrontate con una certa prassi secondo cui «tra i membri tutto doveva essere solo informale, altrimenti suscitava perplessità, dubbi, diffidenze, gelosie».18

Specie dal ‘500 in poi a far sorgere un istituto religioso era primariamente l’attenzione a un bisogno della società che ne definiva il fine apostolico alimentato da una dimensione spirituale. In pratica l’agire apostolico ha di diritto o di fatto costruito un tipo di comunità funzionale a una maggiore efficienza apostolica : «Il valore di molti uniti insieme – si legge negli scritti delle origini della Compagnia di Gesù - ha certo più vigore e consistenza per ottenere qualunque arduo risultato, che non se si disperde in più direzioni».19 In termini attuali queste potremmo definirle comunità aziendali al fine di un comune servizio, per cui la soddisfazione è – era – data dall’immersione nelle attività tale da poter compensare la mancanza di comportamenti relazionali all’interno della comunità.

 

SIAMO TROPPO

PRUDENTI E SAGGI

 

Mi pare sia incontrovertibile il fatto che le istituzioni, specie quelle numericamente rilevanti, corrano il rischio di reggersi su una concezione collettivistica, per la quale è il sistema di valori a tenere insieme e questo basta a riconoscersi come confratelli a prescindere dal conoscersi o dalla qualità e numero delle comunicazioni dirette. Ma oggi, per esprimere la koinonia non bastano più relazioni all’ingrosso, sono richieste quelle al minuto. Inoltre a definire il concetto e la prassi di comunità non bastano più tutti quei principi di cui le costituzioni sono ricche: «è arrivato il momento di non dire più di quello che siamo disposti a mettere in pratica … senza distrarci con discorsi estetici sugli ideali della VR, invece di analizzare la situazione».20

La VR uscirà dalla crisi che va aggravandosi? Perché molti dei nostri antichi carismi faticano a proiettarsi nel futuro mentre ne sorgono, vigorosi, dei nuovi? A queste domande, espresse da un gruppo di giovani religiosi incontratisi in preparazione al prossimo incontro ecclesiale di Verona, cercò di rispondere uno di essi riportando le parole forti di S.P. Arnold: «Moriamo perché siamo troppo prudenti e saggi. Lo Spirito, nella sua follia, non trova più la breccia attraverso cui penetrare per mobilitarci. È probabile che sia per questo che si rivolge preferibilmente, oggi come al tempo delle nostre stesse origini, verso settori meno saggi, meno prudenti e meno formati teologicamente, ma capaci di rischiare di nuovo la pazzia del Vangelo nella vita reale e non soltanto nelle parole».21 In altro modo potremmo dire che usciranno dalla crisi quegli istituti che sapranno vivere il momento presente come fatto paradossalmente provvidenziale e con quella alacrità che solo un fatto nuovo può suscitare, mettendosi di fronte all’inedito, liberi da precomprensioni e predefinizioni che vengono da mondi che non esistono più, sapendo che «le nuove forme di VC sono nate da gente innamorata della Chiesa senza condizioni e tuttavia critiche e libere dinanzi a ogni sorta di discorso a priori».22 In tutto ciò è da tener presente che il primo intendimento delle nuove forme è quello che sostanzialmente ci differenzia da esse: il modo di esprimere la koinonia. Ne consegue che nel futuro bisognerà essere aperti a nuovi modelli di comunità religiosa che oltre a rendere visibile lo stare assieme, testimonino la fraternità, che associ la «esperienza di Dio condivisa, la preghiera, la celebrazione comunitaria della fede e della vita, la comunicazione dei beni, la pratica comunitaria della riconciliazione, la missione partecipata»,23 lasciandosi guidare dalla pratica concreta e storica di Gesù: «Come fece lui, è urgente reinventare la povertà alla scuola dei poveri, la castità alla scuola dell’amore vero e incarnato, l’obbedienza alla scuola della libertà evangelica».24

 

Cozza Rino c.s.j.

 

 1_F. Ciardi, Koinonia, p. 38.

 2_Ib., p. 60.

 3_Ib., p. 97.

 4_Regola, I, Trapè, p. 241.

 5_F. Ciardi, Koinonia, p. 113.

 6_Ib., p. 123.

 7_Ib., p. 124.

 8_Testam.spirituale, decimo legato, p. 113.

 9_Entretien 56, correspondence, entretiens, documents, par p. Coste, vol. IX, p. 662.

10_Ib. P.658.

11_F. Ciardi, Koinonia, p. 149.

12_S.P. Arnold, Dove ci porta il Signore – Paoline p. 111.

13_F. Ciardi, Koinonia, p. 175.

14_M. Guzzi, La nuova umanità, Paoline.

15_L’abate nella koinonia del monastero, p. 280.

16_Vita fraterna in comunità n. 28.

17_Novo millennio ineunte n. 43.

18_In Consacrazione e Servizio n. 12-2005, p. 58.

19_Scritti (della Compagnia) p. 207-208.

20_F. Martinez, Dove ci porta il Signore – Paoline, p. 24.

21_S.P. Arnold, Dove ci porta il Signore – Paoline, p. 114.

22_S.P. Arnold, Dove ci porta il Signore – Paoline, p. 125.

23_F. Martinez, Dove ci porta il Signore – Paoline, p. 30.

24_S.P. Arnold, Dove ci porta il Signore – Paoline, p. 119.