A UN ANNO DI DISTANZA
DUE PAPI STESSA FEDELTÀ
Mentre è ancora
vivo il ricordo della scomparsa di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI appare
sempre più come colui che ne ha raccolto l’eredità. Tra i due pontefici c’è un
filo conduttore che ne indica la continuità: quello di un amore che spinge ad annunciare al mondo
Cristo come unico Salvatore.
Il mese di aprile del 2005 è stato un mese di forti
emozioni. Il giorno 2 moriva Giovanni Paolo II dopo quasi 27 anni di
pontificato; il 19 gli succedeva Benedetto XVI. Giovanni Paolo II aveva
accompagnato la Chiesa del post-concilio al terzo millennio e Benedetto XVI ne
raccoglieva trepidante l’eredità, come egli stesso ebbe a dichiarare durante la
concelebrazione eucaristica con i cardinali elettori nella Cappella Sistina, il
20 aprile, giorno successivo alla sua elezione: «Mi sta dinanzi, in
particolare, la testimonianza del papa Giovanni Paolo II. Egli lascia una
Chiesa più coraggiosa, più libera, più giovane. Una Chiesa che, secondo il suo
insegnamento ed esempio, guarda con serenità al passato e non ha paura del
futuro. Col grande Giubileo essa si è introdotta nel nuovo millennio recando
nelle mani il Vangelo, applicato al mondo attuale attraverso l’autorevole
rilettura del concilio Vaticano II. Giustamente il papa Giovanni Paolo II ha
indicato il concilio quale “bussola” con cui orientarsi nel vasto oceano del
terzo millennio (cf. Novo millennio ineunte, 57-58). Anche nel suo testamento spirituale egli
annotava: “Sono convinto che ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di
attingere alle ricchezze che questo concilio del XX secolo ci ha elargito”
(17.III.2000).
Anch’io, pertanto, nell’accingermi al servizio che è proprio
del successore di Pietro, voglio affermare con forza la decisa volontà di
proseguire nell’impegno di attuazione del concilio Vaticano II, sulla scia dei
miei predecessori e in fedele continuità con la bimillenaria
tradizione della Chiesa».
UNA LINEA
DI CONTINUITÀ
A un anno di distanza emerge con sempre maggiore chiarezza
come tra i due pontefici ci sia una linea di continuità, al di là della
diversità di stile e di carattere: Giovanni Paolo II ha terminato il suo lungo
pontificato indicando Cristo come unico Salvatore del mondo e invitando la
Chiesa a un nuovo slancio apostolico e missionario; Benedetto XVI ne ha
raccolto il messaggio, indicando al mondo che Dio è amore, Deus caritas est, un amore che trova la sua immagine più
espressiva nel cuore di Cristo, e che da questa fonte la Chiesa trae forza,
coraggio e ispirazione per proseguire la sua missione mentre si inoltra nel
terzo millennio della sua storia.
Era giusto, a un anno di distanza dalla scomparsa, ricordare
la figura di Giovanni Paolo II, di cui nel frattempo è stata avviata anche la
causa di beatificazione, con la stessa emozione con cui era stata accompagnata
la sua morte. Il primo a farlo è stato proprio Benedetto XVI. Nell’omelia
tenuta in Piazza San Pietro, il 3 aprile scorso, nel primo anniversario della
morte, riassumendone bene i tratti, ha detto: «Testimone di Cristo nella sofferenza
e amante dell’uomo “via della Chiesa”, radicato nella preghiera e nella
devozione a Maria, Giovanni Paolo II ha dato speranza al mondo a cavallo di due
secoli».
Meditando quindi sul termine “olocausto”, di cui parlava
nelle letture il libro della Sapienza (3,5-6) ha commentato: «Il termine fa
riferimento al sacrificio in cui la vittima veniva interamente bruciata,
consumata dal fuoco; era segno, pertanto, di offerta totale a Dio. Questa
espressione biblica ci fa pensare alla missione di Giovanni Paolo II, che ha
fatto dono a Dio e alla Chiesa della sua esistenza e ha vissuto la dimensione
sacrificale del suo sacerdozio specialmente nella celebrazione dell’Eucaristia.
Egli non ha mai fatto mistero del suo desiderio di diventare sempre più una cosa
sola con Cristo sacerdote, mediante il sacrificio eucaristico, sorgente di
infaticabile dedizione apostolica. Alla base di questa offerta totale di sé
stava naturalmente la fede».
Quindi ha proseguito: «Cari fratelli e sorelle, questa sera
il nostro pensiero torna con emozione al momento della morte dell’amato
pontefice, ma al tempo stesso il cuore è come spinto a guardare avanti.
Sentiamo risuonare nell’animo i suoi ripetuti inviti ad avanzare senza paura
sulla strada della fedeltà al Vangelo per essere araldi e testimoni di Cristo
nel terzo millennio. Ci tornano alla mente le sue incessanti esortazioni a
cooperare generosamente alla realizzazione di una umanità più giusta e
solidale, a essere operatori di pace e costruttori di speranza. Resti sempre
fisso il nostro sguardo su Cristo, “lo stesso ieri, oggi e sempre” (Eb 13, 8), che guida saldamente la sua Chiesa. Noi abbiamo
creduto al suo amore ed è l’incontro con lui “che dà alla vita un nuovo
orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (cf. Deus caritas est, 1). La forza dello Spirito di Gesù sia per
tutti, cari fratelli e sorelle, come lo fu per papa Giovanni Paolo II, sorgente
di pace e di gioia».
Il giorno prima, all’Angelus, Benedetto XVI aveva ricordato
l’invito che Giovanni Paolo II, il 22 ottobre 1978, pochi giorni dopo la sua
elezione, avvenuta il 16 ottobre precedente, aveva rivolto al mondo: “Aprite,
anzi, spalancate le porte a Cristo!”: «Questo indimenticabile appello, che io
sento ancora risuonare in me come se fosse ieri, Giovanni Paolo II l’ha incarnato
con tutta la sua persona e tutta la sua missione di successore di Pietro,
specialmente con il suo straordinario programma di viaggi apostolici. Visitando
i paesi del mondo intero, incontrando le folle, le comunità ecclesiali, i
governanti, i capi religiosi e le diverse realtà sociali, egli ha compiuto come
un unico grande gesto, a conferma di quelle parole iniziali. Ha annunciato
sempre Cristo, proponendolo a tutti, come aveva fatto il concilio Vaticano II,
quale risposta alle attese dell’uomo, attese di libertà, di giustizia, di pace.
Cristo è il redentore dell’uomo – amava ripetere –, l’unico
autentico salvatore di ogni persona e dell’intero genere umano. Negli ultimi
anni, il Signore lo ha gradualmente spogliato di tutto, per assimilarlo pienamente
a sé. E quando ormai non poteva più viaggiare, e poi nemmeno camminare, e
infine neppure parlare, il suo gesto, il suo annuncio si è ridotto
all’essenziale: al dono di se stesso fino all’ultimo».
IL SUO È STATO
UN IMPEGNO DI AMORE
Sarebbe tuttavia impossibile qui raccogliere anche solo in
sintesi le infinite testimonianze che in questa circostanza sono state date
sulla figura di Giovanni Paolo II in ogni parte del mondo. Ne riportiamo
qualcuna tra le più significative. Anzitutto quella del cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, il quale lo ha ricordato
così: «Egli ha amato sempre e intensamente l’uomo!... Quello di papa Wojtyla è stato amore e impegno per la dignità di ogni
persona, per la difesa e la promozione dei diritti umani a iniziare da quello
sacro e inviolabile alla vita. È stato un amore specialissimo e comunicativo
per i giovani, per le famiglie, per i poveri. È stato un amore che si è
manifestato come predilezione e dedizione per i malati e per ogni persona che
soffre. È stato un amore che si è fatto denuncia di ogni ingiustizia, lotta
verso ogni forma di violenza, ricerca tenace di riconciliazione e di pace. Sì,
l’amore per l’uomo – tanto per gli individui quanto per i popoli – è stata la
strada che egli ha percorso sin dagli inizi del suo pontificato e per tutti i
giorni della sua vita, in fedeltà a quanto egli stesso aveva scritto nella sua
prima enciclica, affermando che “l’uomo è la via della Chiesa” (Redemptor hominis 14). Ma,
proprio in quell’inizio del pontificato, fu subito
chiaro al mondo che l’amore del pastore per la concreta umanità che Dio gli
affidava era l’amore stesso di Cristo… tutti dicono di aver incontrato un uomo
innamorato di Gesù Cristo, un uomo che si è lasciato via via
formare nella carità pastorale e nel servizio alla Chiesa dall’esempio, dalla
contemplazione e dall’imitazione del suo Maestro e Signore. Non si poteva non
rimanere colpiti e attratti da come e da quanto papa Wojtyla
pregava: la preghiera era il suo respiro! E la sua missione era costantemente e
senza interruzione ispirata, plasmata e sostenuta dal dialogo intimo e profondo
con il suo Signore e da una devozione eccezionale verso Maria santissima…
Papa Wojtyla ha dato fiducia e
speranza al mondo e lo ha invitato, fin dall’inizio del suo pontificato, a “non
avere paura”, perché ha vissuto, parlato e amato con speranza e fiducia, con
quella speranza e fiducia che vengono dall’aprire, anzi dallo spalancare le
porte a Cristo e alla sua potenza salvatrice. Tutto questo ha raggiunto, in
qualche modo, il suo vertice quando il papa ha traghettato la Chiesa nel terzo
millennio. La celebrazione del grande Giubileo del duemila, infatti, non è
stata per il papa semplicemente un evento solenne, un evento iniziato e finito
nel giro di un anno. Questo giubileo ha rappresentato, in un certo senso, una
sintesi straordinaria e vissuta di tutto il suo servizio e di come lui ha
inteso la Chiesa: coraggiosa discepola del Maestro, che “prende il largo” tra i
flutti della storia, tutta rivolta a contemplare il volto di Cristo e perciò
tutta protesa ad amare il mondo con il dono che essa custodisce e annuncia,
cioè “Gesù Cristo, lo stesso ieri, oggi e sempre”… Un santo noi lo sentiamo
vivo, lo sentiamo ancora nostro “compagno di viaggio”».
Da parte sua il portavoce vaticano, J. Navarro Valls, colui forse che gli è vissuto più vicino di tutti in
tanti anni di servizio e l’ha accompagnato nei suoi viaggi apostolici in ogni
parte del mondo, ha affermato: «In un momento culturale dove la realtà
religiosa sembrava segregata all’intimo, al soggettivo e alla irrilevanza
sociale, Giovanni Paolo II è riuscito a portare la dimensione religiosa
dell’uomo in primo piano nella considerazione generale; ha aiutato a rendere
“inevitabile” confrontarsi con il tema di Dio e i grandi temi trascendenti
dell’essere umano. Lui ha contribuito decisivamente allo sgretolamento del
preconcetto che l’unica fonte di certezza può venire soltanto dal pensiero positivistico e dalle scienze sperimentali, e non più dalla
fede e dalla sua razionalità».
Sono numerosi anche i bollettini diocesani che hanno
commemorato questa ricorrenza. Il bollettino di Cremona, La Vita Cattolica
scrive: «In un mondo in cui i padri sembrano rifiutati e sconfitti, è più forte
che mai la nostalgia del Padre. Questo è stato Giovanni Paolo II: il padre
terreno che ha mostrato il sorriso e la gioia amorosa del Padre celeste».
La Difesa del Popolo di Padova rileva che oggi Benedetto XVI
si muove nello stesso solco: non si è rimasti soli. Perciò si può dire che «il
papa passa, la Chiesa resta: con riconoscenza per quanto ha ricevuto da lui,
con il desiderio di onorarlo santo subito, rimane la consapevolezza che il
cammino continua… Le persone, anche le più grandi e carismatiche, trovano
significato compiuto dentro la vita comunitaria, in una successione che
autentica la presenza del Cristo pastore nella sua Chiesa».
E Il Popolo di Concordia-Pordenone:
Giovanni Paolo II «doveva far capire Cristo, centro dell’universo, ed è andato
a trovare i musulmani in Marocco e a Damasco. Sapeva che il male dei lager era
una pianta cresciuta in occidente, e ha varcato il Tevere per entrare nella
sinagoga fino poi ad arrivare a Gerusalemme. Ha invitato la sua Chiesa a
chiusura del Giubileo: Prendi il largo! nel terzo millennio verso l’estremo
oriente, mentre aveva già incontrato il buddismo e l’induismo».
L’ORIGINALITÀ
DI BENEDETTO XVI
Come si vede, siamo di fronte al paradigma ancora
sovrastante del padre mediatico, accogliente ed esigente che ha saputo parlare
ai giovani, del pellegrino instancabile e scomodo che per annunciare il Vangelo
si è fatto cittadino globale, dell’uomo di dialogo che ha cercato di percorrere
vie di riconciliazione e di pace. Va però rilevato che quello del suo
successore non è un pontificato fotocopia. Dichiaratosi “semplice e umile
lavoratore” nella vigna del Signore, Benedetto XVI si richiama al suo venerato
amico, ma non cerca di imitarlo. Sin dalla celebrazione inaugurale, quel 24
aprile 2005, ha scelto di comunicare concentrandosi sull’essenziale, sul
Vangelo come “buona notizia”, andando al cuore delle questioni. Non si stanca
dunque di ripetere che essere cristiani è una gioia. Pertanto nella prima
enciclica, Deus caritas est, in un mondo in cui il
nome di Dio viene utilizzato per giustificare odio, violenza e vendetta, egli
rilancia l’immagine di Dio-Amore.
È nel discorso ai cardinali e ai membri della Curia per lo
scambio di auguri natalizi (21 dicembre 2005) che Benedetto XVI ha fatto
intendere tutto ciò in un quadro interpretativo compiuto. In questo senso va
riletta soprattutto la riflessione intorno ai quarant’anni
dalla conclusione del Vaticano II. «Emerge la domanda: perché la ricezione del
concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così
difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del concilio o –
come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di
lettura e di applicazione. I problemi della ricezione sono nati dal fatto che
due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro.
L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più
visibilmente, ha portato e porta frutti. Da una parte esiste un’interpretazione
che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non
di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una
parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’”ermeneutica della
riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa,
che il Signore ci ha donato…
L’ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una
rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa
postconciliare. Essa asserisce che i testi del concilio come tali non sarebbero
ancora la vera espressione dello spirito del concilio. Sarebbero il risultato
di compromessi nei quali, per raggiungere l’unanimità, si è dovuto ancora
trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili… Con ciò,
però, si fraintende in radice la natura di un concilio come tale. In questo
modo, esso viene considerato come una specie di costituente, che elimina una
costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la costituente ha bisogno di un
mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale
la costituzione deve servire. I padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva
mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione
essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi
possiamo raggiungere la vita eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in
grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso».
Papa Benedetto, identificando i tre cerchi di domande che,
nell’ora del Vaticano II, attendevano una certa risposta (la nuova relazione
tra fede e scienze moderne, il nuovo rapporto tra Chiesa e stato moderno, il
problema della tolleranza religiosa e di una nuova definizione del rapporto tra
fede cristiana e religioni del mondo), rileva che il passo fatto dal Vaticano
II nei confronti dell’età moderna (la cosiddetta apertura verso il mondo)
appartiene in definitiva al problema del rapporto tra fede e ragione, che si
ripresenta in sempre nuove forme: «Adesso questo dialogo è da sviluppare con
grande apertura mentale, ma anche con quella chiarezza nel discernimento degli
spiriti che il mondo con buona ragione aspetta da noi proprio in questo
momento».
M.C.