IN CAMMINO VERSO IL CONVEGNO DI VERONA
TESTIMONI DI SPERANZA
In vista
dell’appuntamento decennale di Verona (16-20 ottobre 2006), dopo un cammino
scandito dalla triade Vangelo-fede-carità, la riflessione verte sulla speranza
per rilanciare una nuova sinergia tra comunità cristiana e cristiani laici in
vista della missione.
Quello di Verona 2006 sarà il IV Convegno
ecclesiale nazionale, con il tema
TRA CONCILIO
E STORIA
L’orizzonte che accomuna i convegni già celebrati, secondo il teologo Luca Bressan,1 è dato dal Vaticano II, che «offre le direzioni, gli assi delle trasformazioni che anche le chiese locali italiane sono chiamate a operare: i quattro assi sono infatti un aggiornamento dei linguaggi attraverso i quali si annuncia e si celebra la fede (Sacrosanctum concilium), una rivisitazione della memoria che dice la nostra identità (Dei verbum), una ricomprensione delle strutture istituzionali che danno visibilità alla Chiesa nella storia (Lumen gentium), un rinnovato atteggiamento nei confronti del mondo e della società (Gaudium et spes). Infine il concilio offre ai convegni ecclesiali anche il metodo di lavoro: la struttura della GS vedere – giudicare – agire viene assunta infatti come lo strumento ordinario di lettura e di interpretazione dell’azione, come metodo per una analisi teologica ed ecclesiale della situazione, come punto di partenza per operare quel discernimento comunitario di cui il cristianesimo italiano sente il bisogno per continuare ad abitare da protagonista la storia».
In questa prospettiva si può ricordare la prolusione del card. C. Ruini alla 55a Assemblea generale CEI (Assisi, novembre 2005): «In Italia, in particolare, dobbiamo essere grati a Dio perché il rinnovamento conciliare ha inciso in maniera profonda sul volto e sulla realtà delle nostre chiese, e anche sui modi e sulle forme della presenza cristiana nella vita del paese, senza arrestare certo i processi di secolarizzazione e purtroppo di scristianizzazione, aiutando però a comprendere le radici di questi fenomeni e soprattutto stimolando una risposta pastorale e culturale non ripiegata sulla sola difesa della nostra grande eredità cristiana, bensì rivolta a far nuovamente fruttificare questa eredità, in chiave di missione e di evangelizzazione».
Ogni appuntamento è stato anche momento di verifica dei Piani pastorali nazionali, i quali hanno segnato i decenni che si sono succeduti: evangelizzazione e sacramenti, comunione e comunità, evangelizzazione e testimonianza della carità, comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. In tutti i convegni dunque la storia è il termine di confronto: si sottolinea ciò che si è perso o rende difficoltosa la vita cristiana oggi (un paese secolarizzato e scristianizzato: Roma e Loreto); si mette in luce come questa trasformazione intacca i valori umani a fondamento del tessuto sociale e culturale (Loreto); ci si pone in ascolto dei processi culturali, alla ricerca dei segni dei tempi e del Regno che cresce (Palermo).
DA UN CONVEGNO
ALL’ALTRO
– Il convegno di Roma (1976), indetto per tradurre “il concilio in italiano” e animato dal segretario CEI mons. E. Bartoletti (convinto che non bastasse più l’aggiornamento e che bisognasse puntare a un rinnovamento interno della Chiesa e della sua presenza sociale), rimane fondamentale col suo richiamo all’impegno sia di una rinnovata evangelizzazione che della promozione umana. A metà tra sinodo nazionale e convegno di studi, con la partecipazione paritaria di vescovi, preti, religiose/i e laici, fu concorde nella condanna dell’integrismo inteso come vero e proprio “tarlo del Vangelo” (p. B. Sorge). Il primato dell’evangelizzazione si affermava non tanto come funzionale ai sacramenti, quanto all’impegno costitutivo della Chiesa in un tempo in cui al “miracolo economico” non corrispondeva un analogo sviluppo della “qualità della vita”. La promozione umana fu vista come parte integrante dell’evangelizzazione, attività non alternativa ma complementare dell’unico annuncio di salvezza. La Chiesa non è per se stessa, ma per il Regno.
– Il piano pastorale degli anni ’70 esigeva già il tema della comunione, che diventa esplicito nel decennio successivo: «Solo una Chiesa che vive e celebra in se stessa il mistero della comunione, traducendolo in una realtà vitale sempre più organica e articolata, può essere soggetto di un’efficace evangelizzazione» (Comunione e comunità, 1981). Il convegno di Loreto (1985) nasce proprio all’interno di una società turbolenta (cf. il documento del 1981 La chiesa italiana e le prospettive del paese) e in una chiesa segnata da conflitti per i diversi modelli proposti da associazioni e movimenti. Nei documenti preparatori (del card. Ballestrero, allora presidente della CEI) si sottolinea che la riconciliazione, più che conquista degli uomini, è dono dall’alto; e ancora, si indica la “crisi delle evidenze etiche” (concetto caro al card. C. M. Martini, presidente del comitato preparatorio) con l’avvento di una cultura radicale fatta di individualismo ed edonismo (cf. i referendum su divorzio nel 1974 e aborto nel 1981). Mentre l’assise si svolgeva nello spirito del convegno romano (cf. relazione B. Forte), si manifesta la dialettica fra i cosiddetti cristiani della presenza e quelli della mediazione. I primi, affermando che la verità cristiana è un intero, ritengono impossibile impegnarsi con “gli altri” sulla base di valori comuni; i secondi, guardando alla storia già fermentata dallo Spirito Santo, sottolineano invece il dialogo come prima forma di evangelizzazione e il passaggio dalla fede alla prassi attraverso una mediazione storico-culturale. Giovanni Paolo II sembrò appoggiare la prima posizione, inserendosi nel dibattito con alcune richieste esplicite: impegno nella cultura cristiana in quanto tale; rivendicazione di una visibilità storica della chiesa; necessità di convergere anche verso una unità politica. Il documento conclusivo del convegno fissa comunque i temi sul tappeto: dall’evangelizzazione all’impegno culturale, dalla riconciliazione alla missione, dall’impegno socio-politico alla promozione dei valori, dalla pace al primato della vita spirituale. Si indica poi una chiave interpretativa nella Nota pastorale “La Chiesa in Italia dopo Loreto” (1985): la memoria liturgica del Cristo risorto annuncia la riconciliazione intra-ecclesiale e la verità dell’incontro con lui salda fede e vita, Chiesa e mondo.
– Con gli Orientamenti (non più piano pastorale!) Evangelizzazione e testimonianza della carità l’attenzione, negli anni ’90, si concentra appunto sulla testimonianza. «La carità cristiana ha in se stessa una grande forza evangelizzatrice. Nella misura in cui sa farsi segno e trasparenza dell’amore di Dio, apre mente e cuore all’annuncio della parola di verità. Desideroso di autenticità e di concretezza, l’uomo di oggi – come ha detto Paolo VI – apprezza di più i testimoni che i maestri e, in genere, solo dopo esser stato raggiunto dal segno tangibile della carità si lascia guidare a scoprire la profondità e le esigenze dell’amore di Dio. Del resto, ha fatto così anche il Cristo, unendo il gesto dell’amore concreto alla parola della verità» (24). Accanto alla coscienza che tutta la comunità, in stile di compagnia, deve predicare tutto il Vangelo alla persona concreta (non fermandosi ai valori ma arrivando fino a Cristo salvatore), ci si focalizza sulla carità in tutte le sue manifestazioni, per richiamare alla fede in un tempo di soggettività e appartenenza parziale, mentre si chiude la stagione dell’unità politica dei cattolici. L’attenzione al laicato (vedi documenti quali Christifideles laici del 1988 e Le aggregazioni laicali nella Chiesa del 1993) e al sociale (nel 1988 la CEI decide di ripristinare le Settimane sociali dopo oltre vent’anni di interruzione) sfocia in un nuovo schema interpretativo pastorale proposto ai convegnisti: dal metodo fatto di lettura sociologica della situazione-approfondimento teologico-indicazioni operative si passa a quello caratterizzato da lettura della Parola-discernimento dei segni dei tempi-testimonianza come seminagione. Su questa logica si situa del resto il Progetto culturale orientato in senso cristiano avviato dal card. C. Ruini nel 1995.2 Poco dopo si assisterà alla dissoluzione del partito della Democrazia cristiana (elezioni del 21 aprile 1996), con il successivo passaggio al sistema maggioritario.
Il convegno di Palermo (1995) si porta dietro tutto questo, insieme a una richiesta di maggiore sinodalità e corresponsabilità dentro la comunità credente. Il libro dell’Apocalisse indirizza sul terreno tipico dell’escatologia e prepara al tema del discernimento comunitario (relazione teologica di P. Coda) e dell’apporto insostituibile dei laici (relazione sociologica di F. Garelli). Giovanni Paolo II chiede ancora di uscire dalla semplice conservazione dell’esistente, per un annuncio di fede inculturato. II rilancio della dottrina sociale della chiesa è, secondo il pontefice, conseguenza necessaria in una situazione che «non ha nulla a che fare con una diaspora culturale dei cattolici, con il loro ritenere ogni idea o visione del mondo compatibile con la fede, o anche con una loro facile adesione a forze politiche e sociali che si oppongano, o non prestino sufficiente attenzione, ai principi sociali della chiesa sulla persona e sul rispetto della vita umana, sulla famiglia, sulla libertà scolastica, la solidarietà, la promozione della giustizia e della pace». Da qui riparte un cammino di chiesa universale nel terzo millennio, impresso da Giovanni Paolo II con la Novo millennio ineunte e esplicitato per l’Italia dagli Orientamenti Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, che consacrano definitivamente il nuovo metodo pastorale (lo sguardo su Cristo, la lettura dei segni dei tempi, le indicazioni pastorali).
DISCERNERE
RICONCILIARE, SERVIRE
I convegni di Roma, Loreto e Palermo possono essere sintetizzati (Bressan) con tre azioni a valenza cristologica: discernere, riconciliare e servire. Si può forse aggiungere, con mons. Giordano Frosini,3 che queste azioni hanno avuto luogo con un’evoluzione discontinua e in certo senso segnata da veri e propri “sentieri interrotti”. P. Bartolomeo Sorge preferisce parlare di cammino non lineare, oscillante “tra profezia e normalizzazione”.4
La ricezione del concilio, il confronto con la crisi culturale e sociale (gli anni del terrorismo), spingono negli anni ‘70 all’assunzione dello strumento del discernimento, imparando a “con-venire” (fatica della diversità senza nascondere la differenze, condivisione di identità e memoria che cerca un nuovo volto ecclesiale).
Il secondo convegno negli anni ‘80 lavora nei termini di una identità complessa e relazionale, che si acquisisce riconoscendosi reciprocamente (riconciliazione e comunione). La Chiesa italiana ha conosciuto la crisi della comunione e si è impegnata in un cammino di conversione negli anni ‘90 (a Palermo si è arrivati a parlare di “conversione pastorale”), Questa azione di riconciliazione interna l’ha resa sensibile verso una società anch’essa bisognosa di riconciliazione culturale ed etnica (immigrazione e stranieri) oltre che economica (ripartire dagli ultimi). Il terzo convegno torna a interrogarsi sul modo di intendere l’evangelizzazione, indicandone tre punti fermi: il radicamento nella parola di Dio, letta nella Tradizione (sorgente del discernimento per vivere dentro la storia), un’attenzione privilegiata ai giovani (istanza formativa e vocazionale) e un rilancio del servizio verso i poveri per dare credibilità al messaggio annunciato (istanza politica). La Chiesa esiste per annunciare al mondo l’evento di Gesù Cristo, la sua salvezza; e questo annuncio assume forme di testimonianza.
Il convegno di Verona, a metà del primo decennio del 2000, è occasione propizia per il rilancio di una Chiesa soggetto capace di superare le tentazioni della delega e dell’esclusione e, allo stesso tempo, di riconoscere la presenza al suo interno di soggetti che con le loro specificità contribuiscono a creare il volto di un cristianesimo testimoniale in una società complessa e diversificata. Al riguardo, il tema della sinodalità, a giudizio di diversi osservatori, merita di essere messo ai primi punti dell’ordine del giorno dell’agenda del convegno veronese. In una stagione di “afasia del laicato” taluni si auspicano che il “voto finale” del convegno di Roma che riguardava una struttura partecipativa nazionale di tutte le componenti ecclesiali («È urgente offrire alla nostra comunità ecclesiale un luogo di incontro, di dialogo, di analisi e di iniziativa»5), riemerso a Loreto ed espresso in qualche maniera nel Progetto culturale come istanza di collegamento pastorale globale, muova un passo avanti a Verona.6
Ancora, i convegni hanno suggerito a una Chiesa, spesso appiattita sulla gestione del bisogno religioso, l’istanza di una nuova profezia dell’annuncio, mentre si corre ormai il rischio dell’irrilevanza e dell’anonimato. A una Chiesa concentrata su se stessa, i convegni hanno riproposto la necessità di una estroversione, di un dialogo con gli uomini e la loro cultura, di ascolto e condivisione dei loro bisogni. Si dovrà lavorare perché questa caratteristica della profezia non venga a mancare a Verona, per non cadere in una sorta di retorica della speranza. Infine, la preparazione, celebrazione e ricezione dei convegni confermano che si vive e si trasmette il cristianesimo facendone esperienza: «Contro il rischio di una Chiesa che si riduce al ruolo di gendarme di un costume pubblico che la cultura non sa più difendere; contro il rischio di un cristianesimo piegato alle funzioni di una religione civile rassicurante ma poco profetica e poco utopica; contro il rischio di una Chiesa che si modella sullo stile delle grandi organizzazioni, molto attive e attente a rispondere ai singoli bisogni dell’umanità, ma poco capaci di elaborare un progetto globale, che dica l’identità profonda dell’uomo, attraverso la partecipazione di tutti gli uomini; contro tutti questi rischi si colloca la sfida che è la preparazione e la celebrazione di un convegno ecclesiale, già di per se stessa evento di grazia e luogo in cui lo Spirito lavora per indicarci il futuro che aneliamo ma che più di una volta non abbiamo avuto il coraggio di attendere» (Bressan).
TRACCIA ORGANICA
DI RIFLESSIONE
Il presidente del comitato preparatorio, card. Dionigi Tettamanzi, sottolinea che la formulazione del tema dice la volontà di ribadire la scelta fatta nei precedenti convegni: quella di dedicare tali eventi al ruolo dei cristiani nel contesto della realtà storica. In base a questa scelta si conferma il nuovo metodo, espresso già nel titolo del convegno veronese che sintetizza quattro elementi: «la persona di Gesù, il Risorto che vive in mezzo a noi; il mondo, nella concretezza della svolta sociale e culturale della quale noi stessi siamo destinatari e protagonisti; le attese di questo mondo, che il Vangelo apre alla vera speranza che viene da Dio; l’impegno dei fedeli cristiani, in particolare dei laici, per essere testimoni credibili del Risorto attraverso una vita nuova». Dallo sguardo su Cristo Risorto al discernimento e alla testimonianza.
Gli obiettivi generali affidati al convegno pertanto sono così stati sintetizzati da mons. Giuseppe Betori, segretario CEI:
a) aiutare la pastorale a stabilire un rapporto fecondo con la realtà del nostro tempo perché assuma un’impronta missionaria;
b) aiutare a capire la missionarietà come intima disposizione della Chiesa («non si tratta di attivare e sostenere delle buone volontà, ma di impostare una “ri-strutturazione” della pastorale. Ciò chiama in causa la figura del soggetto comunicatore del Vangelo nella sua interezza: non solo questo o quel ministro della Parola o animatore di un settore pastorale, ma la comunità credente nella sua interezza. La comunità, infatti, appartiene all’atto comunicativo tanto quanto il contenuto da comunicare: è la Chiesa a doversi proporre come la forma storica del Vangelo, il luogo, la condizione concreta in cui incontrarlo, non solo come parola ma come esperienza vissuta! Se la Chiesa oggi vuole comunicare il Vangelo deve anche domandarsi quale figura essa stessa debba assumere affinché l’atto comunicativo possa realizzarsi»);
c) mostrare la sostanza della fede: «occorre respingere lo snaturamento del messaggio evangelico a parola esoterico-consolatoria, come pure lo sfiguramento dell’immagine di Chiesa a struttura auto-referenziale di interessi (essenzialmente psicologici) e a centro funzionale di servizi (sacramentali e sociali). La Chiesa deve mostrarsi come luogo di illuminazione dell’esistenza e di apertura verso orizzonti nuovi di speranza; nonché come realtà istituzionale nella quale tale speranza diventa progetto ed esperienza»;
d) aiutare le comunità cristiane a elaborare una spiritualità del quotidiano: «I luoghi della vita quotidiana sono gradualmente usciti dall’agenda pastorale. I cristiani trovano difficoltà a collegare fede e vita non tanto, o soltanto, sul piano della coerenza personale, quanto, e soprattutto, sul piano della correlazione sostanziale… Occorre aiutare i cristiani a percepire che l’incidenza del Vangelo nella vita quotidiana ne delinea profili concreti, che definiscono nel nostro tempo gli atteggiamenti, i comportamenti, gli stili tipici ed espressivi della fede».
MISSIONARIETÀ
CULTURA E SPIRITUALITÀ
La comunità cristiana perciò è chiamata a diventare soggetto di un’esperienza unitaria di fede e non un contenitore di iniziative e soggetti autonomi; al suo interno i laici sono chiamati alla sintesi vitale indicata da GS 43. Per questo motivo la Traccia in prima istanza si porta nel cuore della testimonianza, l’incontro con il Risorto; quindi mette a fuoco la radice del testimone cristiano; nella terza parte pone il racconto della testimonianza del credente nella comunità e nel mondo; in ultimo prospetta l’esercizio di tale testimonianza come discernimento e presenza significativa dei cristiani laici, mettendo a fuoco le situazioni più rilevanti per la vita delle persone. Una pluralità di attenzioni con lo scopo di fare sintesi tra due linee, una più pastorale attenta alle prospettive della missione nella speranza, l’altra più culturale.
Con il documento preparatorio ci viene offerto anche un testo biblico di riferimento: la Prima Lettera di Pietro, breve scritto imbevuto di speranza, dal quale siamo chiamati a essere «pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (3,15). La speranza non delude perché non si fonda su indici sociologici o statistici, ma su Gesù Cristo Risorto. La Lettera di Pietro, proposta in chiave battesimale, sottolinea la necessità di crescere spiritualmente al fine di far risaltare la “differenza cristiana”, per essere sale e luce nel mondo. Così le prospettive che si aprono alla Chiesa e che fanno da sfondo al convegno si possono riassumere in tre direzioni: la missionarietà (ritrovato impulso all’annuncio del Vangelo); la cultura (capacità come Chiesa di offrire a uomini e donne un orizzonte di senso; la spiritualità: un cammino di santificazione attraverso l’impegno nel mondo e in simpatia con esso.
L’idea di missione in particolare implica due movimenti dello spirito: andare verso il prossimo (disponibili non solo ad accoglierlo, ma a cercarlo, a confrontarci e ad accompagnarlo nel cammino); andare contro noi stessi (contro inerzia o pigrizia che ci fa preferire una vita comoda e ritagliata su misura, contro pregiudizi e paure). Essere missionari è sempre costoso, perché si contrappone al nostro io “naturale”. Uno zelo per la causa del Vangelo può scaturire solo dal lavoro sui fondamenti della propria fede: un ritrovato rapporto personale con Dio, un contatto vivo con la Parola, un’esperienza diretta della carità. Il contesto culturale richiede una fede robusta, ma anche uno sforzo dell’intelligenza. Non è possibile pretendere di portare il Vangelo fra la gente, sorvolando sul fatto che le persone vivono in un contesto estraneo e/o ostile alla fede.
Due allora, per mons. Betori, le prospettive in vista del convegno di Verona. La prima è ribadire l’unità delle tre virtù cristiane di fede, speranza e carità. La riflessione che saremo indotti a fare sulla speranza, e sulla sua piena manifestazione che è il volto del Risorto, ci aiuterà a comprendere meglio l’unità di fede e carità. La seconda, invece, concerne un superamento di una concezione della “pastorale per ambiti” e una ripresa dell’attenzione verso l’unità dell’esperienza di vita cristiana, come risposta alla frammentarietà che caratterizza l’odierno contesto culturale. Dietro c’è ovviamente la “questione antropologica”, che ci interroga sull’identità dell’uomo sul versante del rapporto mente-corpo e su quello del rapporto natura-cultura. La riflessione per ambiti vuole promuovere proprio una riflessione sulla società come contesto necessario per il primo annuncio: «evangelizzare è anzitutto annunciare una Parola che deve collocarsi all’interno di un atteggiamento che comporta stili di vita, modalità di esposizione, coinvolgimento di persone, penetrazione in ambienti diversi, e anche problemi di rapporti istituzionali. Siamo collocati tra l’incarnazione e il conflitto».7
IL LUNGO SGUARDO
DELLA SPERANZA
Contro una logica fondamentalista (che procede per affermazioni corrette dal punto di vista dottrinale, ma prive della capacità di diventare vita) o contro un tentativo di annacquamento dell’esperienza che riduce la fede a religione civile, pur nei suoi limiti e nella sua esigenza di forte rinnovamento, la parrocchia rimane centro di divulgazione e di ri-appropriazione della speranza da parte della gente. Essa può dunque svolgere un ruolo strategico per far comprendere che la cultura non è riservata a una élite, ma consiste nella concretezza quotidiana della gente che sperimenta la speranza cristiana nascente dall’incontro con il Signore (cf. sintesi di mons. D. Sigalini, presidente Centro orientamento pastorale, sull’8° Simposio teologico-pastorale, 16/1/2006).8 Non si tratta dunque di proporre ai credenti uno specifico impegno ecclesiale, ma di orientarli a vivere famiglia e professione, relazioni sociali e tempo libero, crescita culturale e attenzione al disagio, come luoghi in cui possibile fare esperienza del Risorto e della sua presenza trasformante.
Nel tempo del disincanto, ove tutto appare fluido e passeggero, Cristo è saldo e stabile e ci aiuta nelle sfide più urgenti: la società pluralistica e insieme individualizzata, il confronto con i fedeli di altre religioni, il processo di unificazione europea, il cammino di riconciliazione tra le varie famiglie cristiane. Perciò, per dare incisività alle indicazioni della Traccia preparatoria sui cinque ambiti, si auspica che non vada perduta la lettura unitaria del contesto in vista di un annuncio coraggioso e libero.
La novità da cogliere sta nel fatto che la speranza attestata dal credente non è solo l’aspetto di futuro della vita, ma ha il volto di Gesù Risorto, una persona e l’esperienza trasformante con lui. Il tema del laico allora va visto non nella sua differenza dalle altre vocazioni ecclesiali, ma nel configurarsi del testimone capace di raccontare quell’esperienza personale con Cristo. «L’offuscamento della sostanza viva della fede cristiana, che ha il centro nel Crocifisso risorto, paralizza le forme della comunicazione del Vangelo oggi. Il difetto di comunicazione, che tutti sperimentano, non sta tanto nella mancanza di adeguati linguaggi, ma la lingua cristiana si rinnova quando si alimenta a un incontro vitale con il Risorto che è esperienza di conversione, di missione e di relazione per il credente e la Chiesa. Per comunicare il Vangelo è necessario continuamente vivere del e nel Vangelo della risurrezione. La sfida cruciale all’inizio del terzo millennio consiste nel mettere in luce il tratto “escatologico” della fede cristiana, superandone una lettura alienante e straniante. Occorre mostrare il potere trasformante della “speranza viva” che lo Spirito del Risorto ci dona: su l’immagine e la concezione della persona, l’inizio e il termine dell’esistenza, la cura delle relazioni quotidiane, la qualità del rapporto sociale, la sollecitudine verso il bisogno, i modi della cittadinanza e della legalità, le figure della convivenza tra le culture e i popoli. In un parola si tratta di mostrare che il vangelo della risurrezione di Gesù non riguarda solo il destino futuro della persona e del mondo, ma la novità con cui si vive il presente, come “pellegrini e stranieri” che hanno la mente lucida e il cuore libero per dare un originale contributo alla costruzione della città e del mondo attuale».9
TESTIMONIANZA
DELLA VITA
La testimonianza cristiana viene vista nella Traccia per Verona come “esercizio del cristianesimo”. È molto importante che le molteplici iniziative in atto nelle 226 diocesi italiane chiariscano come la testimonianza non abbia prima di tutto la forma dell’impegno, ma quella di un ‘esercizio’, con cui si entra negli spazi della vita umana messi a tema per il convegno (la vita affettiva, il lavoro e la festa, i modi della trasmissione e della comunicazione, la fragilità della vita umana, la cittadinanza). Il cristiano attua così uno scambio tra la specificità della fede e i linguaggi umani. In questo contesto la libertà dei credenti diventa il crocevia di incontri, di discernimenti critici e di annunci.
L’annuncio dell’affettività consiste nella nuova presa di coscienza del Vangelo a confronto col primato del “sei ciò che senti”: dal primato classico della passione infatti si è arrivati al primato romantico del sentimento, e quindi al primato postmoderno dell’emozione, come reazione istantanea che si consuma nell’esperienza immediata, ponendo forse le premesse di una dissoluzione umana.
Le trasformazioni in atto nel mondo del lavoro, che hanno ripercussione sul tempo della festa sono frutto di individualismo, frammentazione sociale ed economicismo imperante. Vanno annunciati i nuovi fondamentali dell’economia, introducendo, oltre a indicatori quantitativi (crescita del Pil e profitto) anche criteri qualitativi: salvaguardia dei beni ambientali, rispetto di diritti e responsabilità come capacità di prevenzione e controllo dei rischi presenti e futuri. E va recuperata la solidarietà, strumento per moltiplicare le risorse, educando i giovani a riscoprire la dimensione vocazionale del lavoro.
L’annuncio alla fragilità umana pone l’uomo al centro di un triangolo in cui la sua prospettiva su se stesso, sugli altri e sul mondo può cambiare in modo proporzionale rispetto all’esperienza del limite che sta facendo. La fragilità mette alla prova, obbligando a guardare in modo diverso questi tre fronti e riscrivendo i termini del loro rapporto: la scuola del dolore consente di raggiungere una conoscenza personale profonda ed articolata.
La tradizione non è un ordine rigido e incapace di modificarsi, ma è una consegna nella continuità. Perciò è annuncio capace di creare legami tra le persone, in quanto patrimonio rilevante del gruppo, fonte di senso di appartenenza e identità collettiva.
La cittadinanza infine va ri-annunciata per uno stile capace di produrre beni di democrazia: infatti per i cattolici, non certo meno che per gli altri italiani, la cultura della cittadinanza si accompagna a una misura molto modesta di cultura civica.
Questi cinque ambiti vanno coniugati in una condizione di minoranza, con la tentazione presente nella compagine ecclesiale di nutrire una nostalgia della cristianità e di favorire il processo che conduce la fede a diventare “religione civile” (sistema capace di fornire alla società la morale comune che si ritiene essere frutto solo delle religioni). Come ammonisce Enzo Bianchi «le chiese propugnano un’etica e concentrano tutte le loro energie affinché essa sia assunta dalla società, si mostrano capaci di quei “servizi” necessari ai quali lo stato non sa dare attuazione, soprattutto in risposta ai diversi tipi di povertà ed emarginazione, offrono la loro esperienza e qualità di intervento nell’educazione giovanile… Raramente però i cristiani riescono poi a far percepire a quanti non condividono la loro fede lo spessore e la qualità “umana” di questi valori… se il cristianesimo è declinato come religione civile, se i suoi valori culturali ed etici sono difesi anche da Cesare, se ha una funzione sociale ridotta al semplice fornire un supplemento di anima alla società, allora si troverà progressivamente svuotato della capacità di pronunciare parole profetiche e di annunciare la venuta del regno di Dio, che non è di questo mondo. Per questo è molto importante che per il convegno di Verona si siano invitate le chiese locali italiane a meditare sulla Prima Lettera di Pietro, che indica chiaramente lo statuto del cristiano come “straniero e pellegrino”, un credente che sa vivere la propria fede come differenza cristiana e che sa essere “evangelizzatore” innanzitutto mostrando un “bel comportamento” in mezzo ai non cristiani».
Mario Chiaro
1 L. Bressan. “La Chiesa italiana a convegno (Roma, Loreto, Palermo): una Chiesa alla scuola del concilio, in mezzo alla sua gente, spinta a testimoniare nella storia” (intervento a Chieti, 2/1/2006).
2 Cf. Paolo Doni, Da Roma, Loreto e Palermo verso Verona, in “CredereOggi” n. 150, 6/2005, pp. 9-24.
3 G. Frosini, I primi tre convegni ecclesiali, in “Settimana” 39/2005.
4 B. Sorge, Tra profezia e normalizzazione, in “Aggiornamenti sociali” 2/2006, pp. 115-126.
5 CEI, Evangelizzazione e promozione umana. Atti del convegno ecclesiale (Roma, 30 ottobre – 4 novembre 1976), AVE 1977, 339.
6 Cf. G. Campanini, Verso Verona 2006 – Un ‘senato’ laicale nella Chiesa italiana? in “Aggiornamenti sociali” 11/2005, pp. 703-712. L’A. propone un Consiglio dei laici italiano.
7 G. Betori, Il cammino della Chiesa italiana dal convegno ecclesiale di Palermo 1995, in “Orientamenti pastorali” 1/2006, pp. 9-18.
8 Sul tema decisivo del cattolicesimo di popolo, mons. G. Ambrosio (membro del comitato preparatorio di Verona) ha ricordato al 7° Forum del Progetto culturale (2/12/2005) il rapporto del 1992 richiesto dai vescovi del Quebec. Tra le proposte: abolire le parrocchie, vendere le chiese, vivere come cristiani in piccoli gruppi, rigettare il cattolicesimo culturale. Proposte motivate dal fatto che il processo di secolarizzazione è inesorabile e che anche il Vangelo col concilio vanno nella direzione del piccolo gruppo!
9 F.G. Brambilla, introduzione al Seminario di studio CEI sui cinque ambiti, febbraio 2006.