IL CONGO A UNA SVOLTA IMPORTANTE

ORA CRUCIALE MA CARICA DI FUTURO

 

La Repubblica democratica del Congo sta vivendo una fase delicata di transizione, dopo due sanguinose guerre. Le elezioni politiche del prossimo giugno saranno determinanti per il suo futuro. Le speranze e le preoccupazioni in una lettera dei vescovi

in vista di questo evento.

 

Poco a poco qualche segno di speranza si sta accendendo nella regione dei Grandi Laghi. Dopo la stagione delle elezioni del 2005 che ha portato il Burundi ad aver un governo democraticamente eletto, è ora la volta della Repubblica democratica del Congo (RDC) ad avviarsi verso la conclusione della transizione in vista della ripresa della democrazia. Anche in questo paese, come in Burundi, la democrazia non è mai riuscita a stabilirsi, malgrado qualche tentativo, più o meno forzato, all’inizio degli anni ’90. Ora sembra che qualche parvenza di democrazia ossia di potere condiviso stia per iniziare. Anche in Congo siamo a un momento cruciale e delicato, ma carico di futuro, se tutti vorranno collaborare alla rinascita di quel grande paese che, proprio per la sua ricchezza, è paradossalmente uno dei più disgraziati dell’Africa. E se il Congo trovasse finalmente una soluzione democratica, sarebbe una speranza in più per tutta la regione dei Grandi Laghi che da anni è sconvolta dalla guerra.

Proprio in vista delle scadenze elettorali del prossimo giugno, la conferenza episcopale della RDC, alla conclusione della sua sessione ordinaria, ha pubblicato una dichiarazione che è un appello ai cristiani, ma anche a tutti gli uomini di buona volontà, per invitare tutti a unire le forze in vista dell’edificazione di un “paese nuovo”. La dichiarazione dei vescovi ha un titolo molto significativo: In piedi, mettiamoci a costruire! Essa guarda a un paese che, uscendo dalla lunga dittatura del gen. Mobutu, ha affrontato due guerre in un breve tempo (1996-97 e 1998-2003), una guerra di liberazione appunto dalla dittatura di Mobutu e una d’aggressione da parte del Rwanda e dell’Uganda, due guerre che hanno stremato il paese e distrutto le sue strutture essenziali. I vescovi invitano la popolazione ad alzarsi in piedi e a riprendere con coraggio la ricostruzione materiale e morale del paese. La guerra di liberazione da Mobutu è stata pagata dal Congo con l’invasione di una sua parte importante, quella orientale, che è praticamente passata sotto il controllo dell’esercito del Rwanda e dell’Uganda.

Ma non basta, una guerra civile ha insanguinato nello stesso tempo il paese che non solo sembrava incapace di scrollarsi di dosso la tutela straniera, ma che, proprio a causa di essa, finiva per essere diviso secondo logiche particolaristiche e regionalistiche, che servivano appunto a saccheggiare le ricchezze minerarie di quelle regioni.

UNA SITUAZIONE

DISPERATA

Come sempre queste difficoltà sono state pagate e pesantemente pagate dalla popolazione che ha visto il paese disfarsi sotto i propri occhi. Non c’era più amministrazione degna di questo nome, non c’erano più le infrastrutture minime dell’amministrazione, la scuola, gli ospedali e i dispensari, le comunicazioni sia terrestri che postali, non c’era più la moneta nazionale sostituita dalla moneta americana. Tutto in questi anni è stato sottoposto a un processo di decomposizione. Ma ciò che più è venuto a mancare è stata la sicurezza personale e collettiva. Il paese è stato, ed è tuttora in parte, percorso da bande armate straniere, come i rwandesi che vi hanno trovato rifugio nel periodo del genocidio, che sono diventate un autentico incubo per la popolazione civile: rapine, furti a mano armata, sequestri di persone, stupri e violenze di ogni genere hanno terrorizzato la popolazione soprattutto all’interno del paese. La gente non sa più a chi rivolgersi per aver un po’ di pace e di giustizia. Chi ha visitato il Congo prima del 1996 e lo rivede ora, non riesce a credere ai propri occhi, tale e tanto è il degrado e così estesa la distruzione che si sono prodotti in questi dieci ultimi anni. La popolazione è stanca e sfinita e chiede un governo che governi e difenda l’unità nazionale dagli stranieri venuti solo per fare razzia.

Se ne sono finalmente accorti anche i politici che, spinti dalle potenze che sperano in un pronto ristabilimento della normalità, hanno deciso di chiudere quest’impossibile stato di degrado sociale e politico. Dal 2003 è in corso una transizione negoziata in Sud Africa, che ora giunge alla sua conclusione. Dopo il periodo di transizione, dopo l’approvazione della costituzione, è ora che il paese si rimetta in piedi e riparta. Si attendono ora le elezioni per il prossimo giugno. Questo è un momento importante e decisivo per il futuro del paese.

 

L’INTERVENTO

DEI VESCOVI DEL PAESE

 

È in questa prospettiva che i vescovi hanno pubblicato la dichiarazione di cui sopra, in cui chiedono appunto ai loro concittadini di «non mancare l’appuntamento (delle elezioni) che segnerà la rifondazione del nostro caro paese». In realtà si sente che il paese deve ricominciare, deve rinascere, come fosse alla vigilia di una nuova e più vera indipendenza. I vescovi sono coscienti, come tanta gente del resto, che non si deve ripercorrere la strada del 1960, quella che ha precipitato il Congo in una spirale di violenza e di distruzione, per questo dicono: «Bisogna prendere bene questo tornante, affinché le giuste attese del popolo non si trasformino in un incubo, come avvenne in occasione delle elezioni all’indomani dell’indipendenza del nostro paese nel 1960».

 

La situazione oggi ripresenta delle nuove opportunità e i vescovi non mancano di rilevare con soddisfazione alcuni segni di speranza che incoraggiano nel proseguimento dell’attuale processo di transizione verso un’autentica democrazia. Tra questi segni, anzitutto il modo con cui si è tenuto il referendum dello scorso dicembre: «I nostri concittadini hanno dimostrato che qualunque sia la situazione del paese, sono in grado, se lo vogliono, di lavorare insieme per cambiare il suo destino». Inoltre essi fanno notare che «si sono fatti degli sforzi notevoli per dare sicurezza alle persone e ai loro beni. La campagna referendaria e i dibattiti politici che l’hanno seguita hanno rivelato che si sta costruendo una cultura democratica». I vescovi auspicano anche l’integrazione di tutti i partiti in modo che si possa giungere a un’autentica democrazia condivisa. Soddisfatto anche per la promulgazione della legge elettorale, l’episcopato cattolico congolese è contento dell’ «impegno degli organismi non governativi e delle confessioni religiose per preparare la popolazione alle elezioni” nel quale impegno essi salutano un progresso “nella formazione a una vera cultura democratica».

 

I PROBLEMI

ANCORA DA RISOLVERE

 

E tuttavia i vescovi della RDC attirano l’attenzione sui problemi che permangono, ma che sono problemi dell’immensa regione dei Grandi Laghi, e in primo luogo sull’insicurezza. Con molta chiarezza essi mettono in evidenza la precarietà che caratterizza una parte del paese, quella più ricca di miniere : «Nell’insieme del paese e particolarmente nel Katanga settentrionale, nel Kivu e nell’Ituri, l’insicurezza è una minaccia per il processo di pace. In queste regioni, troppo spesso la popolazione paga ancora le spese dei misfatti e dei crimini di bande armate irresponsabili che imperversano in quelle località». Ma non basta. La situazione d’insicurezza è aggravata dal notevole ritardo nel costituire un esercito repubblicano unico per altro previsto dagli accordi di Pretoria. Questo permette il protrarsi di una situazione tanto anomala quanto insanabile: «Un esercito mal pagato e mal equipaggiato, dicono i vescovi, invece di contribuire alla pace e alla sicurezza, abusa del suo potere e si trasforma in una minaccia per i cittadini che dovrebbe proteggere». Si tratta di un esercito che deve mantenersi e che lo fa nella maniera più facile e comune, quella cioè di farsi dare dalla popolazione civile ciò di cui ha bisogno. Il comportamento dell’esercito non può essere giustificato e i vescovi si guardano bene dal farlo, ma essi riconoscono che la responsabilità sta altrove, perché non essendo pagato, vive quindi «sulla soglia di una povertà e una miseria disumanizzanti e insopportabili».

Le parole dei vescovi sono forti, ma descrivono la realtà. E ad essi dobbiamo essere riconoscenti, perché come spesso nella storia, quando viene meno il potere statale, l’unica forza che resiste e dà speranza è ancora la Chiesa. È il caso anche della RDC. Sul piano politico i vescovi denunciano la mancata sensibilizzazione della popolazione ai problemi politici della transizione, il ritardo con cui i poteri pubblici hanno organizzato le elezioni, la violenza verbale che caratterizza gli interventi di certi leader di partito che non promettono uno svolgimento sereno della campagna elettorale e delle elezioni e finalmente, ultima, ma solo nella lista, «l’esasperazione delle differenze etniche». Davanti al pericolo etnico, i vescovi invitano al discernimento e alla prudenza nel corso della campagna elettorale. «Evitate di lasciarvi indurre in errore e più particolarmente di sostenere dei politici per la sola ragione che appartengono alla vostra regione o alla vostra comunità etnica». Non è certo, infatti, dicono i vescovi, che «ogni fratello (ndugu uno cioè del tuo clan, ndt) sia per questo necessariamente un buon dirigente. Vi esortiamo a istruirvi vicendevolmente in tutta saggezza e a formarvi un giudizio, per quanto possibile, corretto per opporvi a ogni ritorno alla dittatura e per progredire, invece, verso una cultura della democrazia».

I vescovi concludono dicendo che il popolo ha bisogno di uomini che «vogliano lo sviluppo integrale di questo paese, artigiani di pace, di giustizia e di unità nazionale. Il Congo sarà salvato a questo prezzo. Con una nuova mentalità e una gran volontà politica, il nostro paese può entrare rapidamente nel consesso delle grandi nazioni mondiali».

È la speranza di tutti coloro che lavorano in questa regione, particolarmente dei missionari, che sanno bene la sofferenza della gente e le speranze che essa ripone nell’intervento dei vescovi. Una cosa è certa che se il Congo si metterà in pace, sarà più facile che la regione dei Grandi Laghi possa trovare un po’ di pace, ma se la guerra si riaccendesse in questa terra, presto essa si propagherebbe di nuovo nella regione, rimettendo in discussione tutti i processi di pace che faticosamente si sono costruiti.

 

Gabriele Ferrari s.x.

Gitega, 5 marzo 2006.