LETTERA DI P. PELOSO AGLI ORIONINI
AL CENTRO E IN PRIMA LINEA
Tutta la
famiglia orionina sollecitata ad andare “fino agli estremi confini della
terra”. Importanza della fraternità comunitaria soprattutto nelle missioni “ad
gentes”. Il primo convegno unitario missionario della famiglia orionina ad
Ariccia: dal consolidamento dell’esistente all’apertura di nuovi orizzonti
missionari anche in Asia.
«Ci sono due buone “nostalgie” o “desideri” che ogni buon orionino dovrebbe periodicamente provare per conservarsi nel suo giusto equilibrio vocazionale: quello di “farsi eremita” e quello di “partire per le missioni”». Con queste parole il superiore generale della “Piccola Opera della Divina Provvidenza”, don Flavio Peloso, inizia la sua ultima lettera circolare (31 dicembre 2005) sull’impegno missionario del suo istituto. Contemplazione e missione, soprattutto dai tempi del concilio in poi, sono diventati due aspetti inscindibili dell’unica consacrazione a Dio. Dopo aver affrontato in una sua lettera precedente la missione ad intra, questa volta don Peloso guarda più direttamente nella direzione della missione ad gentes, invitando tutta la famiglia orionina ad andare «fino agli estremi confini della terra».
Proprio in quanto religiosi non è possibile non restare “al centro e in prima linea” della vita della Chiesa. «Senza missionarietà, la vita spirituale, la vita comunitaria, l’amore al carisma e alla congregazione e le stesse “opere di carità” ripiegherebbero su se stesse. La missionarietà è il sale, è il lievito della vita di un consacrato. È lo scopo, la destinazione, il termine ad quem. Se non si progredisce nella missionarietà si regredisce nella vita religiosa». La distinzione tra missione ad intra o ad gentes, oggi è sempre più relativa, dal momento che, per vocazione, «tutti noi orionini dobbiamo essere ad gentes, nel senso di essere destinati alla prima linea dei poveri, dei lontani, di “quelli che non vanno in chiesa”. Le stesse opere di carità, che costituiscono il volto più visibile e immediato degli orionini in ogni nazione, sono state sempre intese e volute dal fondatore come “fari”, “pulpiti”, “predica” per annunciare Cristo, per «far sperimentare la tenerezza di Dio e la maternità della Chiesa».
Prima di parlare più direttamente degli impegni missionari dell’istituto, quali scaturiscono dall’ultimo capitolo generale e dal più recente convegno missionario di tutta la famiglia orionina ad Ariccia (dicembre 2005), don Peloso, rifacendosi ad alcuni documenti del magistero, avverte l’esigenza di chiarire alcune motivazioni che sono alla base dell’impegno missionario. Ogni discorso ecclesiale sulla missione parte dal mandato di Gesù: «Andate e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». È nel Vangelo che vanno ricercate e trovate non solo le motivazioni, ma anche i contenuti e le modalità della missione. «L’impulso missionario appartiene all’intima natura della vita cristiana». Ma nonostante tutti gli sforzi fatti, è una missione che, per certi versi, è ancora agli inizi, se è vero che «gli uomini che attendono Cristo sono ancora in numero immenso, gli spazi umani e culturali, non ancora raggiunti dall’annunzio evangelico o nei quali la Chiesa è scarsamente presente, sono tanto ampi, da richiedere l’unità di tutte le sue forze» (RM 86).
UNA MISSIONE
ANCORA AGLI INIZI
Senza passione missionaria è facile cadere nella “introversione apostolica”, in una “asfissia” vera e propria della comunità cristiana e religiosa. Proprio per questo, Giovanni Paolo II ha insistentemente esortato tutte le chiese, i pastori, i sacerdoti, i religiosi, i fedeli, ad aprirsi all’universalità della Chiesa, «evitando ogni forma di particolarismo, esclusivismo o sentimento di autosufficienza». È quanto, per altro, Giovanni Paolo II aveva ricordato proprio agli orionini, ancora nel 1992, invitandoli ad aprirsi a un’autentica consapevolezza missionaria e poter trovare così «ragioni ideali e stimoli concreti per una costante crescita e un vivo rinnovamento evangelico. Fedeli, in tal modo, all’eredità spirituale lasciatavi da don Orione, voi sarete in questo tempo i prolungatori del suo servizio alla causa di Cristo e del messaggio salvifico».
Il presupposto indispensabile per ogni efficace apostolato missionario, dice don Peloso, è la santità. Questo è ancor più vero per i consacrati, il cui contributo specifico all’evangelizzazione «sta innanzitutto nella testimonianza di una vita totalmente donata a Dio e ai fratelli, a imitazione del Salvatore che, per amore dell’uomo, si è fatto servo» (VC 76). Non basta, però, rinnovare i metodi pastorali, e coordinare meglio le forze ecclesiali. Non basta neppure esplorare con maggior acutezza le basi bibliche e teologiche della fede. Occorre, invece, «suscitare un nuovo “ardore di santità” fra i missionari e in tutta la comunità cristiana» (RM, 90). Non è possibile ridurre l’attività missionaria solo all’aiuto dei poveri, alla liberazione degli oppressi, alla promozione dello sviluppo, alla difesa dei diritti umani. I poveri, infatti, «hanno fame di Dio, e non solo di pane e di libertà, e l’attività missionaria prima di tutto deve testimoniare e annunziare la salvezza in Cristo, fondando le Chiese locali che sono poi strumenti di liberazione in tutti i sensi» (RM 83).
Il contributo più immediato che i consacrati poi, da parte loro, possono dare alla missione passa attraverso la creazione di comunità fraterne. La loro stessa esistenza costituisce già di per sé «un contributo alla nuova evangelizzazione». La vita fraterna ha un valore speciale proprio nei territori di missione. È il segno più evidente della “novità” del cristianesimo, della capacità di superare ogni divisione ed ogni segregazione razziale, culturale, religiosa. Purtroppo, però, proprio nelle missioni diventa spesso difficile dar vita a comunità religiose stabili e consistenti. Anche per questo gli orionini non potranno facilmente dimenticare quanto Giovanni Paolo II in più occasioni ha ricordato loro, come quando li ha invitati a costruire «comunità religiose fraterne dal forte significato missionario, perché si possa innalzare il segno missionario per eccellenza: “essere una cosa sola, perché il mondo creda”».
LA FAMIGLIA ORIONINA
AD ARICCIA
Dopo un’ampia ricostruzione della storia missionaria del suo istituto, dalle origini fino ai nostri giorni, don Peloso, traendo alcune conclusioni osserva che se il consolidamento e lo slancio missionario hanno sempre camminato insieme, negli ultimi decenni si è però notevolmente «allungato il passo». Ma quello che più conta è il fatto che «lo sviluppo missionario non è avvenuto per spinte individualistiche o per esuberanze improvvisate». Se per lungo tempo la spinta decisionale è venuta “dall’alto”, vale a dire prima dal fondatore stesso e poi dai vari consigli e da tutti i capitoli generali, le più recenti aperture missionarie hanno visto, però, anche il diretto coinvolgimento sia delle singole province che dei singoli confratelli. Senza la passione decisionale del fondatore per le nuove frontiere, «la nostra congregazione sarebbe rimasta “piccola”, e non solo numericamente e geograficamente». Oggi, anche se continua ad essere una “piccola opera”, vive però della cattolicità del suo carisma «incarnato in popoli, culture, spiritualità e tempi storici diversi».
Una conferma diretta la si è avuta nel recente convegno missionario di Ariccia, quando per la prima volta nella storia dell’istituto si sono ritrovate tutte le componenti della famiglia orionina: religiosi, religiose, laici consacrati e non. Per la prima volta, oltre 90 partecipanti provenienti dai quattro continenti, dalle Filippine al Cile, dall’Inghilterra al Madagascar, hanno provato a far emergere le linee e le priorità per il progetto missionario orionino del prossimo sessennio. Il punto di partenza, a questo riguardo, non può non essere il consolidamento dell’esistente. Una missione potrà dirsi fondata e consolidata quando comprenderà almeno tre comunità che sappiano unire evangelizzazione, opere caritative assistenziali e promozione vocazionale. Solo allora si potrà dire che la “pianta orionina” vi è costituita «nel suo nucleo germinativo essenziale e sufficiente per svilupparsi e crescere». Tutto il resto, vale a dire «la fioritura, i frutti, la robustezza della pianta dipenderanno dalla divina provvidenza, dalle condizioni concrete storiche e sociali dell’ambiente e dall’impegno dei confratelli».
Purtroppo, però, sono ancora molte le missioni da consolidare, dal momento che spesso «manca il nucleo germinativo delle tre comunità, del numero di religiosi e delle attività-opere fondamentali». Mancano, in altre parole, i missionari. In una nuova nazione, osserva don Peloso, di fronte ad un’esplicita richiesta da parte dei vescovi, «noi vi andiamo per impiantare la congregazione e non solo per svolgervi delle attività». Ora la congregazione «serve le Filippine se si fa filippina, serve l’Albania o l’Ucraina o l’India se si impianta in quelle chiese locali, con vocazioni locali, con stile e cultura del luogo. Diversamente, resteremmo sempre dei “collaboratori esterni” o “dei benefattori stranieri”». Realisticamente, però, non ci potrà essere futuro senza vocazioni del luogo concreto in cui viene avviata una missione. «È impensabile che le province possano mandarvi a lungo religiosi da altre nazioni».
L’ASIA
È IL FUTURO
Se in passato c’è voluto molto slancio missionario per iniziare nuove missioni, sicuramente «ce ne vorrà ancora di più per consolidarle». La generosità missionaria non è affatto proporzionale all’abbondanza di persone o di mezzi economici. È una questione di vitalità, di buon clima religioso e apostolico insieme sia nelle singole persone che nelle singole comunità. Qualora il “fare comunità” fosse percepito da qualcuno come un ostacolo per la missione o una perdita di tempo in questioni secondarie, è allora il caso di ricordare che «la comunione fraterna, in quanto tale, è già apostolato, contribuisce cioè direttamente all’opera di evangelizzazione» (Vita fraterna in comunità 54). Non è possibile, commenta don Peloso, essere pionieri, uomini di frontiera nel campo dell’evangelizzazione senza includere, fin dall’inizio, «anche l’attitudine comunitaria, quindi attenzione non solo per il lavoro all’esterno, ma anche alla propria comunità». Non per nulla, in passato, don Peloso era stato esplicitamente invitato a non mandare in missione confratelli che non sanno vivere in comunità, dal momento che finirebbero con il portare problemi e non soluzioni.
Ma l’idea forte del convegno di Ariccia è quella di voler andare in missione, d’ora in poi, «con la famiglia orionina». È questo un aspetto nuovo che entra a far parte del progetto missionario. È il frutto paziente di un lungo lavoro e di un clima di comunione e di collaborazione anche nel campo missionario. Proprio ad Ariccia è nato il fermo proposito di promuovere nel prossimo sessennio presenze congiunte di comunità nello stesso luogo, sia dove la presenza è già avviata (Filippine), sia dove si è ancora agli inizi (Perù, Ucraina) e sia dove si sta semplicemente progettando un’apertura (Corea).
Che i laici orionini partano per le missioni, osserva don Peloso, «è un segno di maturazione della vocazione e dei rapporti all’interno della famiglia orionina». Le opere caritative e secolari, oltre a quelle pastorali, proprie dei laici, non solo accompagnano l’azione missionaria, «ma sono in se stesse missionarie». In una missione orionina «c’è posto per tutti», anche se al momento non è facilmente quantificabile la loro concreta presenza.
Ma è importante, soprattutto, aver fatto evolvere, da parte dei religiosi orionini, la propria mentalità e vedere nei laici un “valore aggiunto” nel proprio impegno missionario. Sarà un lavoro graduale, impegnativo, sia da una parte che dall’altra. Ad Ariccia si sono delineate alcune tappe in vista di questo obiettivo finale: coinvolgere progressivamente i laici sia nel progetto apostolico che in alcuni momenti della vita delle comunità, offrire loro prolungati periodi di volontariato missionario sul posto, pensare seriamente alla loro formazione, dar vita ad un volontariato stabile in grado di intervenire in caso di “grandi eventi” ecclesiali, sociali, ecologici ecc.
Se la provvidenza lo vorrà, in spe e contra spem, come diceva don Orione, la sua famiglia potrà allargare i suoi orizzonti missionari anche in Asia e più propriamente non solo nelle Filippine, ma anche in Corea, nel Vietnam, nella Mongolia e anche in Cina. L’Asia osserva don Peloso, «non è una nazione, non è una cultura, non è una frontiera. L’Asia è la metà della popolazione della terra. L’Asia è il futuro».