LA
DIFFICILE FEDELTÀ
TRA
CRISI E CRESCITA
Oggi tutto è diventato più complicato:
quindi anche la fedeltà, anche la perseveranza. E ciò sia per cause esterne che
per cause interne. Da qui la ricerca dell’arte di trasformare le crisi in
momenti di crescita. La base di tutto sta nella consapevolezza che la fedeltà è
a una Persona, prima di essere un impegno: il mio è un patto d’amore esclusivo
con Cristo, mio Signore e mio Dio.
La
seguente relazione di p. Piergiordano Cabra fa parte del corso di formazione
permanente organizzato dal 6 all’11 febbraio scorso per consigli generali e
provinciali dalla comunità di preghiera “Mater Ecclesiae” sul tema: “La
difficile fedeltà: come vivere le crisi perché siano momenti di crescita”. Il
padre per lo sviluppo della sua trattazione ha preso come punto di partenza le
risposte a un questionario preparato proprio in vista dell’incontro di
formazione a cui hanno offerto il loro contributo anche p. A. Cencini fdcc,
Marina Stremfeli del Centro Aletti, e don V. Gambino sdb.
Oggi
tutto è più complicato: questo è, in condensato, il contenuto delle risposte al
questionario inviato ai consigli in vista del presente incontro; questo è anche
il risultato delle ampie e analisi dell’ultima assemblea USG…questa è pure la
conclusione a cui arriva chi si mette a riflettere anche per poco sull’attuale
situazione della vita consacrata e non solo.
Oggi
tutto è più complicato: quindi anche la fedeltà, anche la perseveranza. E ciò
sia per cause esterne che per cause interne. Le analisi serie non mancano. Le
diagnosi raggiungono un’alta attendibilità, le scienze umane si chinano con
crescente competenza e capacità di comprensione della complessità della
persona: e quindi si spera di trovare anche le contromisure corrette. Da qui la
ricerca dell’arte di trasformare le crisi in momenti di crescita, arte a cui
pongono mano “cielo e terra”, sapienza spirituale e competenza professionale.
Ma nel
frattempo si sta diffondendo anche una certa rassegnata assuefazione, che mette
nel conto una certa percentuale, che si potrebbe chiamare “fisiologica”, di
desistenze e di abbandoni. Quasi a dire: la nostra è sempre più una dura
battaglia, in cui è inevitabile che ci siano morti e feriti. Altri parlano di
“selezione naturale”, che lascia poco spazio di manovra o di intervento
correttivo. Chi scrive non si sente in grado di entrare nella complessa
problematica e quindi si ferma sulla soglia. Limitandosi a ricordare alcuni
dati, che non vanno dimenticati neppure in questo momento complicato, perché
fanno parte dell’eredità teologica e spirituale della nostra ricca e non
inutilizzabile tradizione.
LE AREE
DELLE
CRISI
Ogni età
ha le sue crisi che possono, o non possono, essere opportunità di crescita e di
maturazione. Qui si fa riferimento piuttosto a quelle crisi che riescono a
scuotere dalle fondamenta la fedeltà e la perseveranza della persona
consacrata.
Innanzitutto
la percezione del problema: la perseveranza è sentita come problema urgente
soprattutto là dove ci sono giovani. Tuttavia la vera difficoltà, per tutte le
età, sta più nella fedeltà interiore che nella perseveranza esteriore. Ci sono
perseveranze sospette, che nascondono vere infedeltà: uno dei problemi seri è
dato da quelle persone che restano e non dovrebbero restare, per il disagio che
ingenerano, per la scontentezza che trasmettono.
La
difficile fedeltà: per il mondo delle religiose le difficoltà circa la fedeltà
appaiono con più frequenza nelle aree dell’affettività e della comunità. Ma c’è
anche l’età della pensione, quando si deve uscire dal lavoro, o quando arrivano
le malattie: si piomba nella solitudine e, soprattutto, ci si sente inutili. Da
notare che anche il mondo maschile vive più o meno la stessa problematica.
Nell’assemblea di novembre 2005 dell’USG è stato riportato uno studio fatto
negli USA, studio che, mentre segnalava l’affettività come prima causa delle
crisi, rivelava due spinte all’abbandono: primo un sentimento di solitudine o
di non essere apprezzati; secondo una situazione addizionale, o un evento che
ha precipitato la crisi del proprio impegno. Altri studi, sempre in campo
maschile, evidenziano, oltre ai motivi affettivi: la percezione di solitudine,
la mancanza di apprezzamento, lo scontro o le differenze di vedute con i
superiori, la divergenza sulla conduzione dell’istituto. La crisi di fede
appare essere rilevante soprattutto nei confronti della propria vocazione.
Sembra invece che la crisi di fede vera e propria non sia una delle cause più
frequenti delle desistenze: un dato che invita a rivedere criteri di giudizio
diffusi, ma anche ad allargare il campo delle riflessioni. Prendiamo in
considerazione soltanto tre realtà ritenute tradizionalmente capaci di
sostenere la fedeltà: la comunità religiosa, il padre spirituale, la rimozione
delle cause, specie dell’attivismo. Ricevono tre si, con molti ma.
La
comunità
È
generale il convincimento che la comunità sia uno dei pilastri più solidi della
fedeltà, purché abbia in Cristo il suo centro coordinatore e il promotore della
fraternità. Anche se non è in grado di risolvere tutti i problemi, tale
comunità tuttavia ne facilita notevolmente la soluzione. Le comunità che
perseguono sinceramente la costruzione della fraternità, sono quelle che hanno
più possibilità di accorgersi delle difficoltà di coloro che sono in difficoltà
e di stare loro vicino, in modo discreto, dato che è tipico della crisi il
sottrarsi alla tutela. Si riconosce che sono queste le comunità che hanno il
dono di rendere le crisi meno acute e più assimilabili. Tuttavia talvolta
“dobbiamo andare incontro non solo a persone in crisi, ma a comunità, istituti
in crisi”. “Alcune strutture comunitarie rigide o create a misura di una o di
due sorelle mettono in conflitto la persona nella sua legittima individualità
di adulta e impediscono una missione più adatta all’oggi, creando crisi nelle
suore più impegnate e generose”. Spesso “le persone si sentono usate e ferite,
perché non coinvolte in una ricerca trasparente e onesta che miri al bene della
comunità e della missione”.“Si sente quindi il bisogno di comunità non centrate
sull’azione, ma sulla fraternità, che è al servizio della missione. Non è la
singola sorella in missione con le altre che stanno ad applaudire o a
criticare, ma una comunità che si impegna ciascuno con i propri carismi e i
propri limiti nella comune missione”. Importante è il ruolo della superiora,
purché sia disponibile ad “accorgersi” delle suore, e non solo del resto: il
Buon Pastore dà la vita per le sue pecorelle…
Il padre
spirituale
La
tradizionale figura del padre spirituale sembra avviata sul viale del tramonto:
utile, ma non indispensabile, anche perché da tempo in alcune parti si è
appreso a farne a meno, essendo, oltre al resto, difficilmente reperibile. Il
suo profilo ideale poi è piuttosto alto: “persona matura e credibile, paziente
per aiutare la persona giovane in cerca di chiarezze, di conferme ed anche di
dis-conferme”.
Ma
soprattutto: “preparato e plasmato secondo il cuore umano e divino di Gesù
Cristo”. Persino il suo ruolo convenzionale è ridimensionato: “Non sempre un
padre spirituale può risolvere tutto. Ai problemi umani ci vogliono risposte
umane, a quelli psicologici risposte psicologiche e lo stesso per lo cose
spirituali. Il cammino di santità non passa solo per il campo “spirituale”, ma
per l’integrazione di tutti i livelli della persona. Il rischio è quello di
voler spiritualizzare tutto. Oggi la realtà è molto più complessa e non si può
ridurre all’accompagnamento di una sola persona. Anche nella formazione ormai
si parla di un’équipe formativa più che di singoli formatori/trici”. E inoltre:
si avverte il pericolo che chi ascolta una sola campana non sia in grado di
avere la situazione oggettiva e quindi non sia in grado di dare un aiuto
concreto. La sua azione infine è condizionata dalla soluzione di alcuni
problemi, che un tempo si affidavano proprio alla direzione spirituale, quale
una “previa lealtà verso se stessi”, un “ascoltare prima il Maestro interiore”.
Una figura indispensabile, ma da ripensare. E che dire di una suora al suo posto?
Non sembra ci sia molto entusiasmo. Si conoscono esperienze all’estero. La più
favorevole: “Penso sia positivo, però sempre ci vuole preparazione. Non tutte
le ‘madri spirituali’ possono essere direttori spirituali. Non è positiva
l’esperienza quando le suore sono della stessa comunità”. “Penso sia
un’esperienza interessante: forse una suora avrebbe più tempo dei sacerdoti”.
La
rimozione delle cause
L’attivismo
causa delle crisi? Era una costante in questi ultimi decenni incolpare
l’attivismo dello svuotamento interiore e quindi delle inevitabili crisi. È
rilevante osservare come in genere, nelle risposte alle domande del nostro
questionario, l’attivismo venga sì considerato un pericolo, ma non venga
proprio demonizzato. Innanzitutto si fa rilevare che esso può essere la
conseguenza di una formazione centrata sul fare, sul lavoro, sul servizio più
che sulla consacrazione. Inoltre spesso più che essere la causa
dell’esaurimento delle forze spirituali, potrebbe essere una compensazione alla
loro assenza. Se è vero che, dove manca la vita spirituale, si rischia di avere
persone “bruciate nell’azione” e non tanto “contemplativi nell’azione”, è anche
vero che senza passione per il servizio si corre il rischio di avere “persone
che non servono”. Non è tanto un’intensa attività che andrebbe rimossa, ma
un’attività che si pone come affermazione della persona, come percorso
individuale staccato dalla comunità, come lavoro e non come missione. C’è
forse, dietro alla cauta condanna dell’attivismo, il timore di una fuga
dall’attività, che sarebbe tipica delle ultime generazioni? Anche perché da
parte delle nuove generazioni non poche delle consuete attività non sono
sentite come utili o valide e neppure interessanti o fonte di una qualche
soddisfazione e quindi bisogna stimolare all’azione più che distogliere.
TRADIZIONE
DA
TENERE VIVA
Nella
ricca tradizione teologica e spirituale della Chiesa e della vita consacrata ci
sono alcuni dati che sarà bene tener presenti. La complessità delle situazioni
invitano alla cautela, che tuttavia non esclude la riaffermazione di alcuni
punti che non si possono dimenticare. La base di tutto sta nella consapevolezza
che la fedeltà è a una Persona, prima che essere un impegno. Il mio è un patto
d’amore esclusivo con Cristo, mio Signore e mio Dio.
1. La
perseveranza è un dono
E come
ogni dono va chiesto con umiltà e perseveranza. Di fronte alla difficile
comprensione del fenomeno dell’indebolimento della perseveranza, c’è da
riprendere sul serio l’affermazione assai insistita in passato, che la
perseveranza, sia quella nel santo servizio del Signore, come pure quella
finale, è prima di tutto un dono. Sappiamo come Luca fosse preoccupato della
perseveranza e della unanimità della preghiera, per avere lo Spirito Santo, la
potenza di Dio che permette di attraversare tutte le crisi. Un dono che diventa
sempre più prezioso e urgente in tempo di secolarizzazione, quando i supporti
esterni vengono meno, mentre aumentano le aggressioni culturali di ogni tipo…
Persone esperte amavano e amano ripetere che la preghiera, assieme alla
comunità, è il miglior preventivo e il più efficace curativo delle inevitabili
crisi. Persone illuminate amano ricordare che, prima di lamentarci per gli
abbandoni, dovremmo ringraziare il Signore per le molte perseveranze e per le
gioiose fedeltà che, in mezzo a tanta fragilità, hanno non raramente del
miracoloso. Forse oggi c’è da stupirci più per la perseveranza che per gli
abbandoni.
2. La
perseveranza e la fedeltà sono un mistero
Sia per
l’imperscrutabile e invisibile azione di Dio sia per la difficilmente
valutabile corrispondenza della persona… Ci sono abbandoni inspiegabili, come
ci sono perseveranza altrettanto misteriose. Quando indagini attendibili dicono
che almeno due terzi dei religiosi che hanno lasciato erano ritenuti in buona
salute spirituale e di vita fraterna e che, mediamente, non erano né peggiori
né migliori dei religiosi che sono restati, non c’è che da arrendersi davanti
al mistero della persona umana. Il Signore sembra invitarci ad avere un senso
meno superficiale del suo mistero e del mistero della persona umana, specie in
questo tempo in cui si tenta di comprendere e di tutto risolvere con gli
strumenti umani.
La
persistenza del fenomeno degli abbandoni, nonostante tutte le contromisure, è una
sfida alla nostra capacità di comprensione e ci immette nelle vie misteriose
della storia della salvezza. Eppure un abbandono è sempre un’occasione di esame
di coscienza, prima di tutto per quelli che perseverano, un momento di
revisione della vita personale e comunitaria, delle priorità che perseguiamo,
della mentalità che coltiviamo. E se gli abbandoni appartenessero a un piano
superiore circa il ricupero della nostra identità, attraverso una dolorosa
“ristrutturazione”? “Per coloro che amano Dio, tutto coopera al bene”: se
amiamo siamo in grado di ricavare frutti di “conversione” personale, e anche
istituzionale, qualora fosse necessario.
Tuttavia
una cosa sembra accertata: dove c’è un clima di entusiasmo e di gioia per la
propria vocazione, lì si superano più facilmente le tentazioni di abbandono.
Dove si è contenti del mistero di Dio, è più facile sciogliere i nodi del
mistero dell’uomo…
3. ‑La
fedeltà presuppone la fede nelle promesse di Cristo
La
nostra vita, bisogna ricordarlo, non si gioca né si risolve tutta qui e ora, né
tanto meno si spiega solo quaggiù e nei pochi anni di vita, ma si dispiega al
cospetto di Dio e per l’eternità… Una coscienza debole dell’eternità,
indebolisce anche la fedeltà. Soprattutto la verginità e il celibato sono resi
possibili e significativi anche oggi dalla speranza nella risurrezione. Se si
pensa che la beata speranza del cristiano è la risurrezione della carne e che
questa carne sarà più luminosa e beatificante nella misura in cui sarà simile e
assimilata a quella di Cristo, allora anche la difficile fedeltà alla nostra
vocazione, che è fedeltà alla forma di vita di Cristo, acquista una forza
particolare di motivazione e di impegno. Il tanto temuto “per sempre” di
quaggiù, va relazionato costantemente con il luminosissimo “per sempre” del
giorno senza tramonto. Le prove dell’area affettiva toccano proprio questa
dimensione, hanno a che fare con la risurrezione, con la felicità del corpo,
con i suoi sensi e i suoi sentimenti, con le sue richieste e le sue pulsioni. La
fede nella risurrezione della carne, quella che Paolo chiamava “la speranza
d’Israele” (At26,7), e che è la speranza di ogni cuore, essendo speranza di
vita, quella che noi portiamo inscritta nel nostro essere, è resa plausibile di
fronte al popolo più o meno cristiano, dalla gioiosa, anche se sofferta,
testimonianza di una persona consacrata, che organizza la sua vita attorno a
tale testimonianza, la quale è tale, nella misura in cui sa resistere al
logorio del tempo, alle provocazioni dell’ambiente, al modo di vivere generale,
alle normali esigenze dell’affettività tipiche della natura umana.
Che
segno sarebbe il suo se non brillasse per fedeltà? Che testimonianza può dare
di attendere una eternità felice nel e con il proprio corpo, se considera il
proprio corpo come i pagani che non hanno speranza?... La ripresa di una
escatologia forte rafforza la fedeltà. Che posto ha la “luminosa speranza della
risurrezione” della carne nella spiritualità e formazione, nelle scelte della
vita concreta, specie nei momenti di crisi?
4.
Prevenzione della crisi?
La
“prevenzione” più efficace, anche se ovviamente non l’unica, per affrontare la
costante tentazione dell’infedeltà, viene dalla familiarità orante con la
parola di Dio, che edifica e mantiene saldi… Alla base di ogni programma di
formazione permanente non può mancare la parola di Dio, coltivata, amata,
accolta anche nelle tempeste più impetuose. E la parola di Dio proclama la
fedeltà di Dio, ma anche la richiesta della continua conversione, della
risposta cioè della fedeltà da parte della persona umana. Non solo: la Parola
dà una “sapienza superiore”, per cui non si vive solo la dimensione umana dei
problemi: la managerialità spesso richiesta oggi tende a emarginare come non
funzionale la dimensione di fede, inducendo ad affrontare i problemi in
un’ottica prevalentemente di efficienza. Le motivazioni della missione restano
prima ai margini, poi insensibilmente vengono dimenticate. E quando arrivano
alcune rilevanti difficoltà, la crisi rischia di diventare totale: le
motivazioni superiori della missione non vengono più percepite come mobilitanti
e il “perché continuare” in questa situazione scompare semplicemente.
È
sintomatico il fatto che le crisi di fedeltà non siano oggi normalmente legate
o attribuite alle crisi di fede. Gli abbandoni dello stato religioso non
implicano un abbandono della fede o della pratica cristiana. Ma, sorge qui
spontanea la domanda: che tipo di fede è quella che non sorregge normalmente
una fedeltà promessa pubblicamente, solennizzata, accolta dalla Chiesa,
presentata come sostegno alla fedeltà del popolo di Dio? Non c’è solo una
fedeltà alla fede, ma anche una fedeltà a ciò che si è promesso a causa della
fede… Fino a che punto sentiamo la nostra responsabilità di fronte al popolo di
Dio, sapendo che la fedeltà di molti è legata alla nostra fedeltà? Come può la
vita consacrata essere profetica, se essa stessa è indebolita dall’infedeltà,
sia quella quotidiana sia quella riguardante lo stato di vita? Sono domande
delicate e dolorose, che non intendono condannare nessuno, ma che vanno alla
radice della qualità della nostra fede…
5. Una
buona teologia della vita consacrata
Non si
esagererà mai a sufficienza l’importanza di una buona teologia per una più
ferma fedeltà. Una buona teologia è quella che offre motivazioni forti, basate
sulla Scrittura e sulla grande tradizione della vita consacrata, presentata
dalla Chiesa. Una buona teologia inserisce in un quadro di riferimento
oggettivo e completo, che permette di aver chiari gli obiettivi e le
motivazioni del nostro peculiare genere di vita, sia in riferimento a Cristo
sia agli altri generi di vita. È vero che la teologia non basta. Ma è anche
vero che senza un solido fondamento teologico, le incertezze trovano terreno
più fertile e si corre il rischio di facili e convenienti confusioni, quale
quella di considerare uguale ogni stato di vita.
All’assemblea
USG è stato affermato in una relazione: “I teorici del ‘nuovo paradigma’
interpretativo hanno offerto una delle loro tesi più care: il venir meno del
senso di eccellenza oggettiva della vita consacrata, avrebbe intaccato la
capacità di attrarre candidati potenziali. L’argomento è semplice: se la scelta
di una vita che richiede maggior sacrificio non rappresenta un guadagno
differenziale, allora è meglio lasciar perdere: non ha senso pagare un prezzo
così alto per un guadagno così basso”. Il realismo crudo dell’analisi proposta,
nonostante i suoi evidenti limiti, dovrebbe essere preso in considerazione,
perché è assai più diffuso di quanto non sembri. Non bisogna affatto
sottovalutare l’importanza dell’avere idee ben motivate, sia per condurre una
vita conforme alla propria vocazione, sia per affrontare con la maggior
lucidità possibile i momenti di difficoltà. Nei programmi di formazione permanente
non dovrebbe mancare lo studio o la presentazione della consolidata teologia
dell’Esortazione apostolica Vita consecrata, non reticente su questi punti…
6. ‑Una
spiritualità alta e realista
Se è
vero che la crisi affettiva, quella che ha a che fare con il senso di
solitudine e la mancanza di apprezzamento, ha forse l’incidenza maggiore nelle
crisi, allora la spiritualità da coltivare sarà orientata alla mistica sponsale
e a un’ascetica che la difenda il più possibile dalla lenta o violenta erosione,
un’ascetica all’insegna dell’umile prudenza. “La fedeltà deve nascere da una
responsabile e sponsale vita di unione a Gesù, unico amore e sposo”, ricorda
una risposta. La mistica sponsale va coltivata e riproposta per tener viva nel
cuore la dignità di essere spose dell’Altissimo Figlio di Dio, al quale nessuno
va preferito…
E poi la
prudenza, frutto di realismo antropologico e di una maggior conoscenza dei
propri limiti, la quale rende cauti nell’ambito dei legami affettivi, ben
sapendo che essi tendono a diventare praticamente incontrollabili, quando
superano una certa soglia. E qui diventa necessaria la riscoperta dell’umiltà,
cioè della consapevolezza della propria debolezza, la quale sa che è necessario
“diffidare di sé”, di non doversi spingere troppo oltre, né di abusare delle
proprie capacità, che si possono esaurire quando si raggiungono certi limiti…
Un’alta tensione di tipo mistico nel campo dell’Amore di Dio e una convinta
umiltà nel campo dei rapporti affettivi: questi dovrebbero essere due obiettivi
da non trascurare oggi nel campo della formazione sia iniziale che permanente.
A ben vedere si tratta di mettere al centro la consacrazione, come appartenenza
esclusiva ed escludente al Signore, con tutte le conseguenze pratiche che ne
vengono. E non si tema di puntare in alto, d’invitare a “volare alto”, di
mettere a contatto con i grandi testi della spiritualità, soprattutto di far
rivivere i “giganti della santità”…
7. Una
cultura alternativa?
Se
l’ambiente sociale ha tanta importanza oggi, sembra necessario promuovere un
orientamento interno in chiaro contrasto con tale ambiente, mettendo in luce
valori alternativi e una sana contestazione critica, che impedisca d’essere
assimilati culturalmente. Non è inutile ricordare che la vita consacrata ha
sempre rappresentato una “riserva critica” nei confronti della società
circostante, e questo in nome del Vangelo. Sorprende, da questo punto di vista,
come l’invito di Vita consecrata ad approfondire la dimensione profetica dei
consigli evangelici sia stato poco sviluppato. È da qui che potrebbe partire un
contributo notevole non solo per la vita consacrata, ma per la Chiesa e per la
stessa società che in alcuni strati è resa cinica dalla tirannia del piacere,
arida per l’insaziabile avidità di denaro, fatua per lo smodato desiderio di
emergere, di apparire, di affermarsi. Più in generale non è inopportuno
richiamare “l’amore per l’impegno culturale” e la “dedizione allo studio” (VC
98), che sono basi solide per vivere la propria identità di consacrati e per
svolgere un’efficace azione apostolica. Diminuire l’impegno culturale ha
pesanti conseguenze, perché genera un senso di emarginazione e di inferiorità o
favorisce superficialità e avventatezza. Se è vero che una delle cause delle
desistenze è il senso di inutilità e il non sentirsi apprezzati o non
accettati, allora l’amore allo studio permette di coprire, almeno in parte,
questo solco che causa ferite profonde…
8. Una
cultura sapienziale
Nell’affrontare
le situazioni di crisi, da parte dei formatori o dei responsabili, ci si
accorge che forse la crisi più profonda è “crisi di cultura sapienziale”. In
primo luogo, di fronte alla moltiplicazione dei saperi specialistici sulla
persona umana, utili e necessari, possono venire, in chi deve orientare o prendere
decisioni, sottili frustrazioni derivanti dall’incapacità di pensare e operare
sintesi unificanti “attorno e dentro” la persona umana. Una cultura sapienziale
della crisi si costruisce organizzando i vari saperi attorno al Verbo, parola
di Sapienza, capace di trasformare le crisi in itinerario pasquale. Forse
perché tutto è in evoluzione, tale cultura è più un desiderio di molti che una
realtà diffusa. Eppure non sembra impossibile raggiungere tale cultura, qualora
ci si metta in una prospettiva comunitaria: non sarà questa una sfida perché
sia presa sul serio e in profondità la dimensione comunitaria e comunionale
della vita consacrata, con la sua esigenza di mettere tutto in comune, anche il
sapere, per portare ciascuno il proprio contributo a un sapere sinfonico, che
valorizzi le singole competenze e possa quindi essere di aiuto nelle situazioni
complesse di difficoltà e di crisi? “In dulcedine societatis quaerere
veritatem”, cercare la verità in una comunità fraterna: un bel programma solo
della tradizione domenicana? C’è da pregare lo Spirito perché susciti uomini e
donne “sapienti”, anzi “comunità sapienti”, o “gruppi promotori e costruttori
di una cultura sapienziale”, capaci di aiutare formatori e formandi a trovare
le vie che il Signore ha scelto per loro…
9. Quale
missione?
Ma c’è
anche il campo della teologia e della spiritualità della missione della vita
consacrata che va sottolineato, per una corretta visione del nostro essere e
del nostro agire. Le difficoltà che incontrano non poche delle nostre opere
mettono più facilmente in crisi oggi più di ieri. Una crisi che coinvolge la
stessa la stima per la nozione di missione specifica dell’istituto. Di fronte a
situazioni di questo genere, si sente la necessità in primo luogo di riprendere
l’approfondimento della teologia della missione: la quale non è solo lavoro e
missione specifica, ma è prima di tutto consacrazione e vita fraterna. L’aver
confuso la missione con il fare ha prodotto molte conseguenze indesiderate,
quali le crisi di chi, dopo aver promosso l’equazione ‘più lavoro uguale a più
missione’, si è trovato solo con le sue magre realizzazioni; oppure le crisi di
chi deve abbandonare il lavoro per età o per malattia e si sente completamente
inutile. Per questo va coltivata una forte mistica del servizio, che fa del
lavoro una partecipazione alla vita e all’azione di Cristo… Dice una risposta:
“La missione è darsi per amore, è donare tutto perché Gesù sia conosciuto e
amato. Spesso è mancata nella formazione l’educazione alla missione, alla passione
evangelica. Si è cercata un’inutile perfezione che invece di formare apostoli,
ha formato religioso presuntuosi e pieni di sé e ricercatori di affermazioni
personali. È inutile dire che si sia fuori strada”…
10. Più
forti di noi?
Abbiamo
iniziato le nostre riflessioni con un’affermazione: Non è che loro fossero più
forti di noi, né che il mondo fosse più facile del nostro.
È
possibile riprendere quello slancio? Si trattava dei discepoli del Risorto,
come sono descritti dagli Atti degli Apostoli, gente dedita alla missione in
modo libero e lieto, pur in mezzo alle grandi difficoltà. Gente che sapeva che
“occorre passare attraverso molte tribolazioni per entrare nel regno dei
cieli”. Gente che ci stupisce per il coraggio e la “parresia”. Di loro non si
può dire con certezza che fossero più forti di noi, ma piuttosto che avevano lo
Spirito Santo, che li dirigeva nella missione, che infondeva forza, dynamis,
che li indirizzava per le sue vie, che aiutava a non perdersi d’animo di fronte
alle infedeltà, che anche allora non mancavano, quale quella della coppia di
Anania e Saffira. Lo Spirito in Atti è lo Spirito degli inizi, della prima
organizzazione, della partenza per nuovi orizzonti. Anche noi siamo in questa
situazione di “nuovo inizio” della vita consacrata, in mezzo alla confusione e
alle difficoltà di una nuova cultura, che ci appare come qualche cosa di
globalmente nuovo e globalmente sfidante. Abbiamo quindi bisogno di molte cose,
ma soprattutto di Spirito Santo, che non è il Deus ex machina, fatto entrare
all’ultimo momento per darci l’impressione che la situazione non è del tutto
disperata, quanto piuttosto il Dio che fa camminare con fermezza attraverso le
macchinazioni del mondo.
Ci può
illuminare una grande pagina di Paolo VI: «Noi ci siamo chiesti più volte quali
sono i bisogni maggiori della Chiesa. Noi, quale bisogno avvertiamo, primo e
ultimo, per questa nostra Chiesa benedetta e diletta? Quale? Lo dobbiamo dire
quasi trepidanti e preganti, perché è il suo mistero e la sua vita. Voi lo sapete:
lo Spirito, lo Spirito Santo! Animatore e santificatore della Chiesa, suo
respiro divino: il vento delle sue vele, il suo principio unificatore, la sua
sorgente interiore di luce e di forza, il suo sostegno, il suo consolatore, la
sua sorgente di carismi e di canti, la sua pace e il suo gaudio, il suo pegno e
preludio di vita beata ed eterna. La Chiesa ha bisogno della sua perenne
pentecoste, ha bisogno di fuoco nel cuore, di parola sulle labbra, di profezia
nello sguardo. La Chiesa ha bisogno d’essere tempio di Spirito Santo, cioè di
totale mondezza e di vita interiore. Ha bisogno di risentire dentro di sé,
nella muta vacuità di uomini tutti estroversi per l’incantesimo della vita
esteriore, salire dal profondo della sua intima personalità, quasi un pianto,
una poesia, una preghiera, un inno, la voce orante dello Spirito che a noi si
sostituisce e prega in noi e per noi con “gemiti inenarrabili” e che
interpreta, lui, il discorso che noi, da soli, non sapremmo rivolgere a Dio. Ha
bisogno la Chiesa di sentire rifluire per tutte le sue umane facoltà, l’onda
dell’amore, di quell’amore che è diffuso nei nostri cuori proprio dallo Spirito
Santo “che a noi è stato dato”».
Abbiamo
davvero bisogno dello Spirito, per affrontare nuove e impreviste difficoltà. Forse
il nostro impegno principale consiste nel “dare una mano” allo Spirito Santo
per la costruzione di comunità dove si coltivi al massimo la vita fraterna:
dove le giovani non si sentano isolate o giudicate, dove l’autorità cerchi di
farsi amare perché comprende le difficoltà delle singole persone, dove chi ha
energia non pensi solo a emergere ma ad aiutare chi ne ha meno, dove le persone
vengono prima delle attività, dove non si esaltano solo coloro che hanno
successo ma si prendono in consolazione anche quelli che lavorano in ombra,
dove si coltiva la gioia di servire in Signore. Oggi preghiamo lo Spirito
soprattutto perché ci dia “occhi nuovi” e “cuore nuovo” per comprendere chi è
in difficoltà e ci regali “mani nuove” per fare quello che tocca a noi nel
prevenire e soccorrere le difficili fedeltà. Veni Sancte Spiritus!
P.
Pier Giordano Cabra