ACCOMPAGNARE
E UMANIZZARE IL MORIRE
ACCANTO A
CHI MUORE
Presto o tardi capita a tutti di trovarsi
vicino a persone che stanno morendo. Non basta tuttavia essere religiosi per
trasformare quei momenti in occasioni di grazia. Come comportarsi? Padre
Pangrazzi ci offre qui un piccolo vademecum dei comportamenti da evitare e di
quelli invece da adottare.
La
nostra epoca è contrassegnata da un’evidente tendenza a rimuovere e occultare
la morte. Pur rimanendo l’evento che più ci accomuna e nei confronti del quale
si misura l’esistenza, raramente è oggetto di conversazione, confronto o
introspezione.
In
qualche modo l’eccesso di paura che condiziona il rapporto con la morte
comporta, come conseguenza, una maggiore difficoltà a vivere pienamente la vita
e a fare tesoro del tempo.
L’essere
religioso non è necessariamente una garanzia per affrontare con maggiore
serenità il travaglio e il mistero del morire. Non sono infrequenti i commenti
di infermieri e operatori sanitari che rimangono stupiti degli atteggiamenti
ansiogeni, diffidenti o ribelli assunti da figure religiose dinanzi alla sfida
della propria terminalità.
La paura
non è solo monopolio dei laici. Presto o tardi, arriva per tutti l’appuntamento
con la morte. Talvolta la si incontra accompagnando un proprio caro, amico o
conoscente; spesso la si conosce attraverso le proprie esperienze nel ruolo di
cappellano o infermiera; inevitabilmente la si sperimenta a conclusione del
proprio pellegrinaggio terreno.
Il
religioso, dinanzi al mistero del morire, è chiamato a essere un testimone di
umanità e vicinanza.
Per
favorire un accompagnamento più sensibile e dignitoso dei morenti viene di
seguito proposto un vademecum, che compendia gli atteggiamenti da evitare e
quelli da coltivare per rappresentare il volto della solidarietà umana e della
speranza cristiana accanto a chi vive il tempo del tramonto.
ATTEGGIAMENTI
DA
EVITARE
Non
visitare i malati gravi o morenti perché non si sa cosa dire: il capezzale del
morente non è un pulpito da cui pronunciare bei discorsi o impartire facili
consigli. Si visita una persona non per risolverne i problemi o impedirne il
morire, ma per testimoniarle affetto e vicinanza.
Assumere
volti tristi o esprimere commiserazione: chi soffre non chiede pietismo, ma
serenità. Espressioni quali: “Poverino, non meritavi tutte queste sofferenze”;
“Dio mio, come ti sei dimagrito!”; “Tutti i guai sono capitati a te. Sei
proprio sfortunato”, non sono di conforto al morente.
Confinare
la conversazione all’orizzonte fisico: “Riesci a mangiare?”; “Ti fa ancora male
lo stomaco?”; “Ti è passata la febbre?” La persona è molto più del suo corpo
travagliato; l’invito è di allargare lo sguardo sugli altri risvolti
esistenziali.
Ricorrere
a “bugie benevole” per non guardare in faccia la realtà. Dinanzi a chi domanda
il perché di intense terapie, o invoca chiarezza circa la propria condizione, i
familiari mascherano la verità commentando che le cure servono a restringere
un’ulcera o sono una misura precauzionale per prevenire infezioni.
Cambiare
argomento ogniqualvolta il morente tocca qualche tasto delicato: “Non pensare a
questo, cerca solo di dormire”; “Ti racconto quello che mi è capitato l’altro
giorno…”; “È una bella giornata, distraiti un po’ facendo due passi”; “Adesso
devo andare, così ti riposi un po’…”.
Avvertire
la necessità o l’obbligo morale di contrastare i disappunti cercando sempre
qualcosa di positivo da dire: “Pensa a vivere, che a morire c’è tempo”; “Non
lasciarti affliggere da questi pensieri”; “Per guarire devi guardare alle cose
positivamente”; “Non scoraggiarti, ci sono altre cure per i tuoi problemi”.
Giudicare
i sentimenti: “Lamentarsi non serve a nulla”; “Non sentirti così”; “Non dire
così”; “Non piangere”; “Non arrabbiarti”. Una litania di “non” che mortifica le
persone, ne aumenta la depressione o la solitudine e ne complica la guarigione
interiore.
Banalizzare
o minimizzare le perdite, per tenerli su di morale: “Quello che hai tu non è
niente in paragone a quello che soffro io”; “Sei fortunata che non hai i
problemi di “x”; “Ho appena incontrato una signora che nell’ultimo anno ha
perso il marito, il figlio in un incidente stradale e ora la sorella sta
morendo di cancro. In paragone a lei tu non hai niente”.
Imporre
i propri schemi di riferimento: “Chi ha fede non si perde d’animo”; “Dio manda
queste prove alle persone che ama di più”; “Non tutto il male viene per
nuocere”; “È la volontà di Dio”; “Prega, se vuoi guarire”.
Colpevolizzarli
per pensieri o stati d’animo che confidano: “Piangersi addosso non serve a
nulla”; “Devi essere forte per i bambini”; “Pensa agli altri, non ai tuoi
problemi”.
Rendere
le persone completamente dipendenti dal proprio aiuto: “Non alzarti, ci penso
io”; “Tu devi solo stare buona, al resto pensiamo noi”; “Tu cerca solo di
riposarti e fare quello che ti dice il medico”.
Questa
forma di paternalismo, vestito di falsa carità, tende ad abbreviare la vita e
ad accelerare il morire.
Lasciare
che la propria ansietà prenda il sopravvento: i familiari del morente lo
forzano a mangiare o a bere nell’illusione di allungarne la vita, quando
l’infermo non ha neppure la forza di respirare, con il rischio magari di
soffocarlo.
Impedire
ai bambini di rivedere una persona cara perché non rimangano turbati o scossi
dalla sua condizione.
Non
allertare alcuni famigliari circa la criticità della condizione di un loro
caro, per non turbarne la quiete o le vacanze. Li si informa a morte avvenuta,
privandoli così del diritto di essere presenti e di dire addio.
Dare
false speranze a chi sta per congedarsi: “Tra qualche giorno starai meglio e
tornerai a casa”; “Il peggio è passato, vedrai che guarirai”; “Tra poco questi
momenti difficili saranno solo un brutto ricordo”; “Pensa a quando andremo in
vacanza la prossima estate”. Oppure si cerca di sollevare il morale suggerendo
i “viaggi di speranza” all’estero, o prospettando nuove terapie che hanno
sortito risultati miracolosi per altri.
Dilazionare
il conforto religioso o la presenza del cappellano al momento quando il
moribondo entra in coma, perché condizionati dalle proprie paure o dai propri
pregiudizi: “Padre, passi più tardi perché è ancora cosciente”; “Se lo vede si
spaventerà e penserà che non c’è più niente da fare”.
Contrastare
i tentativi di chi muore di esprimere le “ultime volontà” colpevolizzandolo per
trattenere questi pensieri: “Non menzionare più questo tema”; “Non ti accorgi
di quanto ci fai soffrire quando parli così”; “Pensare a queste cose non è
certo il modo migliore per guarire”.
Aver
costante bisogno di dire o fare qualcosa attorno al capezzale del moribondo,
per evitare il “vuoto del silenzio” o il senso di impotenza.
Preparare
il funerale al capezzale del familiare in coma, ignari che è, spesso, in grado
di sentire e registrare quanto sta accadendo attorno a lui, anche se non è in
grado di reagire. Non c’è l’urgenza di seppellire le persone prima che siano
morte.
Reagire
emotivamente o istericamente quando sopraggiunge l’ora del trapasso. Chi muore
ha bisogno di essere circondato da un clima di conforto, vicinanza e preghiera,
non dal grido straziato di chi lo supplica di non morire.
È
importante evitare di assumere questi comportamenti, che portano a
disumanizzare il morire e a privarsi dell’opportunità di comunicare quei
messaggi che danno compimento ai rapporti e all’esistenza. Di conseguenza, è
necessario coltivare atteggiamenti positivi che permettano di vivere il
congedo, pur travagliato e doloroso, in maniera più serena e veritiera.
ATTEGGIAMENTI
DA
COLTIVARE
Atteggiamenti
che possono contribuire a offrire conforto umano e spirituale ai malati gravi e
ai morenti, sono:
Rendersi
prossimo a quanti stanno scrivendo l’ultimo capitolo della vita: la presenza è
dono;
Relazionarsi
alla persona non al problema o alla malattia. Il contatto con qualcuno che
tratta l’interlocutore normalmente è benefico e salutare;
Mantenere
una postura aperta, serena e spontanea, non un atteggiamento di pietà e
commiserazione;
Rispettare
i modi diversi di affrontare l’approssimarsi della morte, senza suggerire o
imporre la propria visione o i propri valori;
Coltivare
un ascolto empatico, sapendo mettersi in sintonia con i bisogni, sentimenti e
desideri degli interlocutori;
Essere
consapevole che il proprio compito non è quello di togliere il dolore, ma di
rendersi un compagno nel venerdì santo delle persone per essere segni di
speranza;
Offrire
ospitalità ai diversi stati d’animo del malato, quali la tristezza, la collera,
lo scoraggiamento, la paura, il senso di colpa. L’accoglienza dei sentimenti ne
promuove il sollievo, la graduale risoluzione e il conseguimento di una
crescente pace interiore;
Ricordarsi
che manifestazioni di rabbia, spesso improvvise o inaspettate, scaturiscono
dall’impatto con il proprio senso d’impotenza o dall’angoscia dinanzi al
proprio morire;
Sintonizzarsi
con il linguaggio dell’altro: se il malato usa la parola “cancro” o “morire”,
esplorarne con delicatezza i risvolti pratici, psicologici o spirituali;
Far uso
di un po’ di umorismo, quando appropriato o in sintonia con la situazione.
Talvolta un commento o un ricordo comico sono una boccata d’aria fresca per chi
respira la noia o il malumore;
Nell’incertezza
sul come comportarsi o sul cosa dire, considerare domande di questo tipo: “Ti
sto disturbando?”; “Hai piacere se mi trattengo un po’, o preferisci
riposarti?”. “Come ti senti in questo momento?; “Puoi indicarmi che cosa posso
fare per te?;
Se la
persona sta attraversando un momento difficile, manifestarle comprensione con
espressioni, quali: “Stai passando un brutto momento”; “hai la sensazione che
niente vada per il verso giusto” o “ti sembra che ti stia arrampicando sugli
specchi”; “non è facile prendere una decisione importante in momenti cosi
delicati”; “le lacrime forse ti aiutano a portar fuori un po’ della tristezza
che hai dentro”; “la rabbia che provi, ti sta aiutando ad andare avanti”;
Valorizzare
il silenzio. Spesso l’essere presente, è il regalo più gradito che si offre a
chi sta male;
Far leva
sul contatto fisico per trasmettere vicinanza: una carezza, un gesto di
affetto, un massaggio delicato parlano più di mille parole;
Prestare
attenzione ai bisogni dei famigliari e lasciarsi guidare dall’intuizione nel
dare sollievo e conforto;
Accogliere
i rimorsi e il rammarico degli interlocutori per errori commessi, cose
incompiute e opportunità perdute, senza bisogno di giudicare o di ostacolare le
confessioni spontanee;
Educarsi
a identificare e a portare alla luce le risorse umane e spirituali degli
interlocutori;
Evitare
di dare false speranze, ma sensibilizzare i malati e i familiari a scoprire i
diversi orizzonti della speranza, che abbracciano le relazioni, l’interiorità,
il trascendente;
Prestare
attenzione al linguaggio verbale e non verbale dei bambini, e rispondere
onestamente alle loro domande;
Adoperarsi,
ove possibile, per facilitare l’addio incoraggiando la verbalizzazione di
messaggi a persone care, l’espressione delle volontà per quanto riguarda beni o
proprietà;
Rispettare
i tempi e i desideri dei morenti. Giunge il momento quando desiderano solo
pochi visitatori, più tardi quando preferiscono essere lasciati soli. Anche
questo fa parte del loro graduale addio alle persone, ai ruoli, ai legami, alla
vita;
Pregare,
quando opportuno, prendendo ispirazione dal modo di credere del malato e/o dei
familiari;
Offrire,
a chi lo richiede o gradisce, il conforto dei sacramenti: la riconciliazione,
l’unzione dei malati, il viatico;
Contribuire
alla presa di coscienza della morte favorendo, attraverso l’orazione o rituali
appropriati, l’addio dei presenti alla salma del proprio caro;
Mantenere
il contatto con la famiglia nelle settimane e nei mesi successivi alla perdita,
per contribuire alla graduale elaborazione del loro lutto.
In
sintesi, l’appello rivolto a quanti scelgono di visitare chi è gravemente
malato o morente è di monitorare l’istinto a praticare atteggiamenti
potenzialmente nocivi per coltivare quelli positivi, che affermano la dignità
degli interlocutori, permettono di sintonizzare con le loro corde interiori e
scoprire i valori nascosti all’ombra della loro fragilità.
p. Arnaldo Pangrazzi, camilliano
docente al Camillianum di Roma