IX
ASSEMBLEA DEL CONSIGLIO ECUMENICO DELLE CHIESE
CHIESE E
SFIDA DELLA PACE
Tema dell’assemblea: “Dio, nella tua
grazia, trasforma il mondo”. I delegati si sono pronunciati su molti temi di
grande attualità: la guerra, il terrorismo e l’antiterrorismo, i diritti
dell’uomo, il disarmo nucleare, la riforma dell’ONU, il rispetto reciproco tra
le religioni, il dialogo. Lo strano silenzio dei mass media italiani.
È lunga
la distanza che separa lo Zimbabwe, nell’Africa
meridionale, dall’America Latina e il Brasile. Molti fili, però, nonostante
l’Oceano Atlantico che le divide, collegano Harare a
Porto Alegre, sedi delle ultime due assemblee
generali del Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC) – l’VIII e la IX – che poche
settimane fa si sono passate il testimone, a sette anni di distanza. Ora, a
quasi sei decenni dalla sua fondazione avvenuta ad Amsterdam nel 1948, il CEC
rappresenta una comunione di oltre 340 chiese anglicane, ortodosse e
protestanti site in più di cento paesi, in rappresentanza di circa 550 milioni
di cristiani. E simboleggia soprattutto la speranza tangibile di un processo
unitario tanto difficile quanto necessario, nella direzione prospettata da Gesù
stesso nel suo ultimo grande discorso ai discepoli nel quarto vangelo: quei
discepoli invitati ad essere, nonostante tutto, una sola cosa, affinché il
mondo creda.
DELOCALIZZAZIONE
DEI
CRISTIANI
Non è
stata casuale, va sottolineato subito, la scelta di privilegiare nuovamente
l’emisfero australe, quale sede per gli eventi del CEC. Sempre più evidente,
infatti, appare oggi la delocalizzazione del
cristianesimo, che ormai non è più eurocentrico ma
sta veleggiando a rapide falcate verso il sud del pianeta, portandosi dietro
una serie di conseguenze su cui di solito non si riflette abbastanza. A
proposito di tale cambio di rotta è di prassi rimandare ad un libro dello
storico delle religioni Philip Jenkins,
La terza chiesa (Fazi 2004), secondo cui staremmo
attraversando un momento di trasformazione profonda nella storia delle
religioni, un cambiamento silenzioso che il cristianesimo ha conosciuto già nel
secolo scorso, col suo centro di gravità spostatosi decisamente – appunto –
verso il meridione (Africa, America Latina, Asia). Si tratterebbe, in realtà, di
una tendenza destinata a farsi più visibile, e di molto, nei prossimi decenni:
col cristianesimo che dovrebbe godere di un autentico boom mondiale, anche se
la grande maggioranza delle comunità non sarà bianca, né europea, né euroamericana. Anzi, sulla base delle proiezioni
statistiche attualmente disponibili, nel 2050 solo un quinto dei tre miliardi
di cristiani (delle diverse confessioni, peraltro sempre più omologate) sarà
costituito da bianchi non-ispanici: eppure, attualmente, le chiese del sud permangono
pressoché invisibili agli osservatori del nord, mentre lo stesso Samuel P.Huntington, nel suo best-seller Lo scontro delle civiltà
e il nuovo ordine mondiale, che ha appunto fondato nella vulgata corrente la
teoria dello “scontro fra le civiltà”, si riferisce comunemente al
cristianesimo occidentale come se non potessero essercene altri. Al contrario,
il fatto di considerare il cristianesimo come una realtà globale potrebbe
aiutarci a leggerlo in una prospettiva radicalmente nuova, che ci lascerà stupiti
anche se risulterà, verosimilmente, piuttosto scomoda: si potrebbe anzi dire
che sarà come se si stesse vedendo di nuovo il cristianesimo per la prima
volta.
Ecco
dunque il variopinto scenario cristiano che si era dato appuntamento a Porto Alegre per il IX raduno del CEC, sotto il titolo Dio, nella
tua grazia, trasforma il mondo, dal 14 al 23 febbraio. Un titolo denso,
formulato in forma d’invocazione per aiutare a non dimenticare, in ogni
momento, che solo il Signore può rinnovare e dare compimento al mondo, secondo
la logica del suo Regno, della misericordia, dell’amore gratuito. Oltre
quattromila partecipanti stipati nell’enorme università cattolica, fra delegati
ufficiali (700), iscritti ai multirão (veri e propri
gruppi di discussione e di scambio), ospiti, staff e steward, erano confluiti
nella capitale del Rio Grande do Sul, 1.400.000 abitanti e una consolidata fama
di buon governo e di sperimentazioni sociali che l’hanno condotta – negli
ultimi anni – a ospitare a più riprese alcuni dei principali eventi del Forum
sociale mondiale.
Le
persone, convenute da ogni parte del globo, provenivano da vissuti di fede
cristiana diversissimi, talora con serie difficoltà e rischi di persecuzioni.
Un aspetto di novità, fra i parecchi registrati nell’occasione, è stata la
presenza di una delegazione della chiesa cattolica, che pure non fa parte
ufficialmente del CEC, composta di diciotto membri e guidata dal cardinale
Walter Kasper, presidente del Pontificio consiglio
per la promozione dell’unità dei cristiani. Kasper ha
letto, durante la seduta inaugurale dell’Assemblea, un messaggio di Benedetto
XVI che, fra l’altro, recitava: «memori della comune fede battesimale nel Dio
uno e trino, la chiesa cattolica e il CEC cercano modi per cooperare sempre più
efficacemente nel compito di testimoniare l’amore divino di Dio». Dopo aver
ricordato i quarant’anni di collaborazione fruttuosa
che legano la chiesa cattolica al CEC, papa Ratzinger concludeva assicurando la
sua vicinanza spirituale e riaffermando l’intenzione a continuare una solida
partnership col CEC nel suo importante contributo al movimento ecumenico. Un
messaggio che lascia ben sperare i più ottimisti, che da tempo si augurano
arrivi il giorno di una presenza cattolica a pieno titolo nel CEC…
CULTURA
NUOVA
E CONCETTI
INEDITI
Molte le
aspettative che l’Assemblea (che veniva dopo una lunga fase di conflittualità
interna, in particolare fra le componenti protestante ed ortodossa) aveva
alimentato, in una fase storica contrassegnata da un robusto – pur se controverso
– protagonismo delle compagini religiose sulla scena planetaria, dopo diverse
stagioni di oscuramento e di scarso rilievo pubblico. E il programma dei
lavori, estremamente fitto, rappresentava un segnale evidente in quella
direzione: in evidenza, soprattutto, il ruolo delle chiese di fronte alla sfida
della pace, tra il perdurante conflitto in Iraq e la guerra al terrorismo; al
cammino di solidarietà col continente africano; alle questioni sociali ed
etiche che vedono le chiese stesse ancora su posizioni differenti; alla
partecipazione, necessaria quanto problematica, delle giovani generazioni.
«Spero – aveva confidato al riguardo il pastore Samuel Kobia,
neosegretario generale del CEC – che questa Assemblea, la prima del XXI secolo,
segni l’inizio di un’era nuova nella ricerca dell’unità dei cristiani e dia al
movimento ecumenico moderno la visione di una cultura nuova e concetti
inediti».
La
discussione, in effetti, non è certo mancata, e tanti sono stati gli
interventi, talvolta di assoluto rilievo. Fra gli altri, quello – decisamente
appassionato – dell’arcivescovo anglicano Desmond
Tutu, Nobel per la pace, che ha ricordato quanto abbiano contribuito le chiese
aderenti al CEC alla sconfitta dell’apartheid in Sud Africa: «Oggi – ha
concluso – le chiese sono chiamate a testimoniare il messaggio di liberazione
di Gesù Cristo in un mondo che conosce nuovi conflitti, nuove prepotenze e
nuove povertà: per questo l’unità dei cristiani non è un optional!».
Mentre
il rev. Leonid Kishkovsky,
della chiesa ortodossa USA, portavoce di una delegazione di personalità del suo
paese che ha reso noto un documento in cui «confessa il proprio peccato per non
essere riuscita a levare alta una voce profetica e insistente tale da indurre i
nostri leader ad abbandonare il sentiero della guerra preventiva», ha detto:
«Vogliamo si sappia che c’è una battaglia morale in corso e, in realtà, la
maggioranza degli americani non appoggia la guerra».
Rowan Williams, arcivescovo di
Canterbury e primate della chiesa anglicana, è dal canto suo intervenuto sul
tema delle persecuzioni dei cristiani in varie aree dell’Africa e dell’Asia,
ovviamente deplorandole, ma invitando anche le chiese cristiane a rinunciare
tanto al trionfalismo secondo cui «esse sole possiedono la verità» quanto al relativismo
per cui «ogni fede è come le altre».
Moltissimi,
poi, gli intervenuti a proposito dell’urgenza assoluta di investire di più sul
dialogo interreligioso, che si annuncia sin d’ora come una delle priorità di
lavoro del CEC per i prossimi tempi. Mentre non è mancata la denuncia delle
pesanti divisioni tuttora perduranti: come la mattina del terz’ultimo
giorno, quando, come segno nella preghiera mattutina, insieme alla Bibbia è
stato portato in processione un grande calice di cristallo vuoto, in seguito
ricoperto con un velo di tessuto leggero che ne impediva la vista. Sacramento
doloroso dell’impossibilità di partecipare assieme all’eucaristia,
contraddizione tanto più lampante situandosi nel momento più rivelativo della chiesa che è appunto la celebrazione
eucaristica.
LA
SPIRITUALITÀ
E I
GIOVANI
Due
prospettive innovative, in particolare, hanno caratterizzato l’appuntamento di
Porto Alegre rispetto ai precedenti. La prima ha
riguardato una voluta attenzione alla spiritualità («vogliamo che sia un’assemblea
orante», si è raccomandato da subito il presidente Aram
I), in linea del resto con gli ultimi grandi appuntamenti ecumenici, da Graz
‘97, seconda Assemblea congiunta CCEE-KEK, a Strasburgo 2001, proclamazione
della Charta Oecumenica.
Tale scelta ha portato a curare in modo particolare i momenti di preghiera
comune, mattina e sera, e i gruppi biblici di dialogo fra i delegati.
Nella
testimonianza di Serena Noceti, ecclesiologa fiorentina presente in loco,
significativa appare una sottolineatura sulle liturgie: «i canti-danzati con
tamburi, copti ed etiopici, che contrassegnavano la
preghiera del mattino ci hanno condotto alla stessa dignità di identità, con la
ricchezza di una tradizione secolare che arrivava a noi in terra brasiliana.
L’Assemblea era come un mondo concentrato, dove le meraviglie di culture
secolari, che vengono da luoghi diversi e lontani tra loro, e di espressioni
maturate nell’oggi di questa storia s’incontravano e si concentravano tutte in
quel km quadrato. E soprattutto nella preghiera non c’era senso di folklore né
di raccolta forzata di elementi diversi».
La
seconda prospettiva è stata l’opzione di privilegiare i più giovani, per
garantire futuro e novità al cammino ecumenico. Così, i giovani avevano la
precedenza sugli adulti in parecchie attività (ad esempio, se c’era poco tempo
per il dibattito, prima avevano la parola gli under 30 e solo dopo,
eventualmente, gli altri; i giovani anche se non delegati potevano partecipare
a ogni attività, e così via); svariate chiese hanno inviato delegati giovani;
c’erano diversi gruppi di approfondimento e una ecumenical
conversation sul tema; erano previsti due o tre
giovani in tutte le commissioni (da quella sulle finanze a quella per le
nomine, fino a quella sul programma futuro del CEC).
UN PUNTO
DI
PARTENZA
Alla
trasformazione auspicata da parte di Dio è stato dedicato anche il messaggio
conclusivo dell’Assemblea, approvato il 23 febbraio, con cui si invitano le
chiese e il mondo a unirsi – appunto – nella preghiera per la trasformazione.
Il documento, che si chiude con una lunga invocazione, mette al centro il
cambiamento dei cuori attraverso la fede, facendo peraltro riferimento ai tanti
interrogativi posti dal tempo odierno: «i rapporti e le decisioni
dell’Assemblea – vi si legge – lanciano alle chiese e al mondo delle sfide
specifiche, invitando ad agire su temi quali l’unità dei cristiani, l’appello a
rinnovare il nostro impegno a metà strada del Decennio per sconfiggere la
violenza (2001-2010), il discernimento delle voci profetiche e degli strumenti
programmatici tesi a realizzare una giustizia economica globale, l’impegno nel
dialogo interreligioso, la piena partecipazione inter-generazionale di tutti,
uomini e donne». Il nuovo comitato centrale del CEC registra la presenza di 63 donne
(su 150 membri in totale), e 22 under 30; sono stati eletti anche otto nuovi
presidenti, uno per ogni area geografica, il cui ruolo sarà di promuovere
l’ecumenismo e dare seguito al lavoro di qui effettuato nelle proprie regioni.
Tutto
bene, dunque? A giudicare dallo scarsissimo rilievo di cui ha goduto
l’avvenimento sui mass media italiani, varrebbe la pena di chiedersi il motivo
di tale disinteresse verso temi e problemi su cui verosimilmente si giocherà
buona parte del nostro futuro… Sarà possibile affermare che è andata bene, in
ogni caso, solo se Porto Alegre rappresenterà un
punto di partenza, e non di arrivo, per un pianeta ansimante che ha un forte
bisogno di vedere realizzati progetti di pace, accoglienza, giustizia, da parte
delle comunità cristiane. Di solidarietà per una sofferenza così diffusa da
apparire, non di rado, invincibile. Di apertura alle ragioni dell’altro, alle
sue perplessità, alle sue sensibilità diverse quanto legittime. Il cammino è
lungo, difficile, faticoso: ma non impossibile se sapremo far spazio a quel Dio
che, nella sua grazia, è capace di trasformare il mondo.
Brunetto Salvarani